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giovedì 29 maggio 2008

E.P. del Giorno 29-05-08: Phil Dutra - Right Behind The Rain

Phil Dutra è il classico cantante/compositore Americano. Proviene da Austin, Texas, ma divide il suo tempo con Atlanta, Georgia, dove spesso si reca per applaudite performances. Già vincitore di quel prestigioso contest per cantautori chiamato "Taxi Road Rally", Phil suona un tipo di pop sentimentale e vigoroso, colmo di melodie luccicanti e testi che non scadono mai nella mediocrità banale. E se è ovvio (lo è, diciamolo) che di autori simili è piena l'America, bisogna rendere merito a Phil di sapersi gestire bene all'interno di un genere musicale inflazionato e, peggio, infestato da personaggi quantomeno discutibili.

Right Behind The Rain è un extended play di sette brani che giunge a ben nove anni di distanza dall'esordio, un album "vero" intitolato See The World, che io non ho mai ascoltato ma che a questo punto non mi dispiacerebbe sentire, se grossomodoi i parametri sono questi. Nella home page del proprio sito web, il signor Dutra ha riportato la recensione del proprio disco apparsa sul quotidiano Atlanta Journal Constitution, nella quale spicca un frase che bene rende l'idea di cosa ci si possa aspettare da un disco di Phil. Infatti, il suo sound è correttamente etichettato come "il frutto dell'amore tra i REM ed i Barenaked Ladies su una hit degli XTC".

Ora, non so per quali motivi amiate la band di Partridge (oppure la odiate, sta a voi), ma effettivamente gli elementi presenti in questo Right Behind The Rain non dovrebbero essere quelli principali. Forse, a tratti, per l'importanza delle venature melodiche e per la tensione emotiva delle stesse - soprattutto in (Let Me Be Your) Superman - qualche accenno di Squeeze, più che di XTC, si può scorgere. Ma i pezzi migliori sono quelli dove le influenze conclamate sono palesi. La title-track, autentica gemma, è un pezzo che ricorda in automatico lo stile di canto del maestro Stipe e che sarebbe a suo agio in un bel pò di dischi dei REM degli anni 90. Inoltre, giusto per aprire la parentesi "influenze oscure", c'è una band che, ascoltando il suddetto brano, mi viene in mente e che cito volentieri: gli Olandesi Johan. Non li conoscete? Correte ad ordinare i loro tre album-capolavoro editi dalla Excelsior recordings! L'altra canzone importante è Never Enough, dove sono in effetti i Barenaked Ladies, una delle più pregiate pop-bands Canadesi di tutti i tempi, a fare capolino in un brano dal ritmo incalzante che riporta nel girotondo dei ricordi gli Squeeze, di nuovo loro. E siccome sto riascoltando il disco avendo innestato l'opzione "random" nel mio stereo, cito solo ora il pezzo d'apertura She Walks Away, bel brano che gli anglosassoni definirebbero "slow burning", introdotto da una voce profonda e vagamente sensuale che traghetta il pezzo verso un ritornello non dico "epico", ma non siamo lontani, e credo che i fans dei Crowded House più "ostentati" non disdegneranno affatto.

Oltre ai cinque brani "ufficiali", l'e.p. è completato da una versione differente di She Walks Away e dalla demo di un grazioso brano chiamato Another Day Alone che speriamo di ascoltare a breve nella sua versione definitiva in un nuovo disco di Phil Dutra. Tutto sommato, i fanatici degli artisti più volte citati in questo articoletto dovrebbero avere sufficienti buone ragioni per aggiungere un nuovo dischetto alla propria collezione.

lunedì 26 maggio 2008

Disco del Giorno 26-05-08: The Galaxies - Here We Go! (2008; autoprodotto)

Il powerpop è stato, è tuttora e sarà sempre uno dei nostri stili musicali preferiti, e questa non è di certo una sorpresa. Quello che ogni tanto ci sorprende piacevolmente è l'impressionante quantità di ottimi gruppi che continuano ad emergere dal sottobosco della scena. Uno di questi sono i Galaxies, band che, dal niente, è uscita con un disco di debutto davvero ottimo. Il "tre teste" di Los Angeles, composto da Bobby Cox (chitarra e voce), Will MacGregor (batteria) e Charles Molinari (basso) propone una serie di canzoni improntate sul più classico powerpop chitarristico. Talmente classico che, ascoltandoli per le prime volte, non mi avevano particolarmente colpito. Per fortuna, il profondo rispetto che nutro per chi produce musica mi impone di dare ad un album tre o quattro possibilità di convincermi. E Here We Go, pur essendo tutt'altro che un disco sperimentale, è cresciuto paurosamente di ascolto in ascolto, per alcuni semplici motivi: i pezzi sono carichi di potenza melodica e ritmica, le armonie vocali sono pregne di sfumature interessanti pur nella loro semplicità e l'album, nel complesso, è estremamente godibile dal principio alla fine.

Il tutto si apre con la (quasi) title-track Here We Go Again, un potente esempio di powerpop classico, con la testa rivolta ai Big Star ma i piedi ben piantati in un presente non derivativo, per un pezzo di un entusiasmo contagioso (favoloso il whuu! iniziale...). Si prosegue con You Promised, dove il sound diventa più melodioso ed intriso di jingle-jangle e Baby I Believe, che aggiunge quegli stoppatini di chitarra che mi piacciono tanto ad una melodia nel "chorus" che definirei gloriosa. Forget Me Not, brano dove la strofa è sempre sostenuta da un vigoroso stoppato, oltre ad essere una delle vette del disco sin dal primo ascolto mi ha fatto pensare alla seguente, curiosa, definizione: "Pennsylvania power pop". C'è qualcosa, infatti (e non solo in questo pezzo), che mi ricorda tantissimo i Cherry Twister ed i Parallax Project. Forse per la voce leggermente vellutata alla Steve Ward di Bobby Cox; forse per la struttura melodica del ritornello. Forse è un'impressione indefinibile. Mah, un grande brano. Gli altri due highlight del disco sono il geniale bossanova/pop di Lost And Lonely che, se proprio devo sceglierne uno solo, è quello che metterei in una mixtape e Love Has Found Me, dove attorno ad uno zuccherosissimo, fantastico ritornello, i Galaxies costruiscono un intreccio tipicamente sudista, con un bella "jangle guitar" a sospingere un'atmosfera davvero americana, se capite cosa intendo.

Here We Go è un disco breve, di appena nove brani, che mostra in tutta la sua evidenza l'unico vantaggio di un album corto: niente riempitivi, tutta sostanza. E sarà anche vero che canzoni che parlano esclusivamente d'amore non fanno molto figo al giorno d'oggi, ma per fortuna qualcuno che non sente la necessità di essere superman esiste ancora, ed è pure in grado di allietare per una mezz'ora alcune decine di persone normali come me.

venerdì 23 maggio 2008

Il libro da avere: John M. Borack - Shake Some Action. The Ultimate Power Pop Guide (2008; Not Lame)

Ho finalmente recuperato anch'io, come ogni powerpopper che si rispetti, la mia copia di Shake Some Action, The Ultimate Power Pop Guide. Per chi non ne avesse ancora sentito parlare, Shake Some Action (d'ora in poi SSA per comodità) è, come il titolo stesso spiega con efficacia, la guida definitiva a quel magnifico e sottovalutatissimo genere musicale chiamato power pop che noi amiamo così tanto. Il libro, 200 pagine edite dalla incommensurabile Not Lame di Bruce Brodeen, è stato scritto da John M. Borack, eminenza grigia del giornalismo pop indipendente Californiano, che nella propria carriera vanta esperienze in alcune riviste fondamentali per la divulgazione della "nostra" musica come Amplifier, Goldmine e Trouser Press. Borack è reputato, giustamente, uno dei massimi conoscitori della materia trattata in SSA, soprattutto perchè - oltre ad essere da una vita un giornalista "specializzato" - è mosso da una sincera passione (ossessione?) per il genere. Una passione che l'ha anche portato a collaborare, nelle vesti di musicista, con diverse realtà della scena di L.A. (tra le altre esperienze, è stato per un certo periodo il batterista dei favolosi Receiver di Ken West). E cotanta esperienza si palesa in tutta la sua grandiosità in una guida che ogni singolo appassionato di puro pop indipendente non può assolutamente non possedere.

Il modo in cui SSA è strurrurato permette di andare a scoprire una serie incredibile di dischi favolosi e dimenticati. Infatti, dopo una introduzione sulla genesi del power pop e la sua evoluzione dagli anni 7o fino agli albori del corrente secolo, si procede con la classifica dei migliori 200 dischi dell'epopea powerpop, di cui voglio ricordare almeno il "podio": al primo posto si assesta "Startin'Over" dei Raspberries, al secondo "Radio City" dei Big Star, mentre la medaglia di bronzo va - ex aequo - ai primi due dischi degli Shoes, vale a dire "Present Tense" e "Tongue Twister". Chiaramente ogni appassionato lettore potrà non condividere, o piuttosto preferire altri dischi di un autore rispetto a quelli inseriti, ma si sa, le classifiche sono quanto di più soggettivo esista sulla faccia della terra e, in ogni caso, il lavoro che Borack si è sobbarcato (ogni disco è accompagnato da una recensione, dettagliata per le prime cento posizioni, breve per le altre cento) merita eterna gratitudine. Anche perchè, dalla cinquantesima posizione circa in poi, l'autore ci parla anche di dischi completamente sconosciuti che vale assolutamente la pena di andare a cercare, e garantisco io, che già ho iniziato il lavoro...

La guida è impreziosita dai contributi di musicisti e giornalisti attivi nella scena, che sono stati chiamati a stilare le proprie classifiche riguardo ai dischi o ai singoli brani preferiti (tra gli altri, Jordan Oakes della seminale 90's powerpop 'zine chiamata Yellow Pills; Ken Sharp di Goldmine; David Bash, ovvero il capo dell'International Pop Overthrow e tantissimi altri). Come se non bastasse, troviamo la classifica dei dieci migliori "tribute albums", un articolo sulle più importanti etichette discografiche in attività, un elenco dei più "influenti" blog e giornali che si occupano di powerpop.

La ciliegina sulla torta, però, ci voleva. Ed allora ecco in omaggio un favoloso cd-compilation di 24 brani, gentilmente offerti a SSA da alcuni tra i più grandi autori powerpop di tutti i tempi, tra i quali i Rubinoos, i Rooks, Chris Von Sneider, Walter Clevanger, gli Spongetones, Paul Collins e Peter Case. Il bello è che molte di queste canzoni sono inedite, oppure sono differenti versioni registrate esclusivamente per la suddetta compilation, e questo mi sembra un ulteriore ottimo motivo per acquistarne immediatamente una copia dal sito della Not Lame. Tenete presente che la prima tiratura di copie è andata esaurita in due mesi circa. Ora è stato ristampato, credo per la prima ed unica volta, poi sarà andato per sempre e a chi avrà avuto l'ardire di non acquistarlo non resterà che mangiarsi le mani. Obbligatorio.

sabato 17 maggio 2008

Indie labels che passione! Bongo Beat records (seconda parte)

Ed ecco a voi la seconda parte del nostro piccolo excursus sulla Bongo Beat records, dove ci occuperemo dei dischi di Kevin Kane e di Dave Rave & Mark McCarron...

Kevin Kane è senza dubbio meglio noto agli appassionati in qualità di vocalist di quel grandioso gruppo Canadese chiamato Grapes Of Wrath, attivo tra gli anni Ottanta e Novanta. E How To Build a Lighthouse, il suo quarto lavoro da solista, è un altro di quei dischi che mi fanno pensare una cosa, peraltro già più volte ribadita su questo blog: non sarebbe forse meglio stilare la classifica dei migliori dischi dell'anno a fine Giugno anzichè a Gennaio? Se io avessi scoperto questa gemma di disco lo scorso Dicembre, infatti, visto che ufficialmente è stato pubblicato nel 2007, non avrei esitato ad includerlo nelle prime trenta posizioni. Kane è un fenomeno da ballata, vanta un songwriting raffinato ma essenziale ed ha una voce stupenda. Le sue canzoni, spesso ottimi esempi di "late night songs", risultano addirittura più godibili allorquando assumono una piega più chitarristica. E allora Last To Know è una meravigliosa ballata elettrica che i fans di Michael Penn, di certo Matthew Sweet e del grande Adam Daniel (chi se lo ricorda? il suo "Bluepop", del 1999, è uno dei capolavori powerpop degli ultimi dieci anni) non potranno che adorare, essendo uno dei pezzi migliori degli scorsi mesi, una canzone che inevitabilmente chiama l'ascoltatore a schiacciare in continuazione il tasto replay.

How To Build a Lighthouse è pieno di momenti degni di nota. Così Somebody Needs A Hug muove sulle stesse coordinate di Last to Know, aggiungendo un pizzico di rock ad un contesto da ballata che fa tanto Pete Yorn. Tra le ballate pure, Late Night, Closer e la McCartiana Nothing Left fanno la differenza, mentre No Postcard è un frammento di purissimo powerpop, che sta tra gli autori sopracitati ed i Big Star. In chiusura, una citazione per No Black Dots, di stampo quasi Blur periodo "The Great Escape" e per la cover di Arnold Layne dei Pink Floyd, pardon, di Barrett, che di Kevin è uno degli idoli incondizionati. A proposito, come mai sul booklet c'è scritto See Emily Play? Disco da non perdere.

L'ultimo album di questa mini carrellata è quello di Dave Rave & Marc McCarron, un disco che non pensavo potesse coinvolgermi come sta accadendo. In the Blue Of My Dreams, questo il titolo, è infatti un disco di pop jazzato. Anzi, molto jazzato. Abituati ad ascoltare Dave nelle sue classiche vesti di cantante powerpop influenzato da Kinks e Ramones, fa abbastanza strano ascoltare un album basato su sfondi di archi e fiati, in un'atmosfera assolutamente eterea e rilassata. Eppur ci piace. E' gradevole perchè è un disco adatto ad ogni situazione. E' difficile quanto basta per soddisfare la vostra voglia di musica inconsueta, ma facile abbastanza da riuscire ad essere un sottofondo di grande classe e leggerezza. Così leggero e delicato che solo per poco non prende il volo, In The Blue Of My Dreams contiene pezzi di assoluto valore come At The End Of Day, splendida traccia d'apertura, dove un bucolico pop d'autore pennellato da sinuosi fiati sorregge una voce che, non chiedetemi perchè, ad ogni ascolto mi sembra somigli sempre più a quella di Joe Pernice. Altro brano prelibato è Shine, di simile impatto. Sunday In The Blue Of My Dreams è invece un esempio di come si può anche fare un pezzo di puro jazz che piaccia a poppettari come noi. Stranded e Not This Time di base sono due chicche di chamber pop magnificamente orchestrate, e They Held Hands un grazioso folk pastorale. C'è pure una cover di Song Is You (originariamente di Oscar Hammerstein) a suggellare un disco che non sarà la nostra classica tazza di té ma che sicuramente vale la pena di ascoltare senza pregiudizio alcuno e, vi giuro, non ve ne pentirete.

Chiaramente, siamo in attesa che la Bongo Beat faccia uscire al più presto altri quattro dischi di questo spessore...Intanto, grazie Ralph!

giovedì 15 maggio 2008

Indie labels che passione! Bongo Beat records (prima parte)

La Bongo Beat è una delle etichette che, negli ultimi quindici anni o giù di li, si è sobbarcata il gravoso compito di mantenere viva e divulgare la canzone pop in tutte le sue rappresentazioni di qualità. Attiva dal 1995, quando il fondatore Ralph Alfonso la aprì per pubblicare il disco della propria band (i Ralph...), la Bongo Beat ha pubblicato nel corso degli anni i dischi di svariati personaggi, tra i quali Kimberly Rew, Joe Mannix, Anton Barbeau, Ari Shine e Bedsit Poets tra i tanti altri. Qualsiasi sfaccettatura della pop music i suoi artisti proponessero, con l'etichetta di Vancouver si è sempre andati abbastanza sul sicuro. E chi compra regolarmente dischi può dire quanto sia importante fidarsi ciecamente del simboletto di una label sul retrocopertina.

Ralph, oltre ad essere un magnifico produttore, si è anche dimostrato abbastanza gentile da inviarmi alcuni dischi. Tre di questi sono tra le più significative uscite 2007 della sua casa discografica, mentre uno (quello di Kimberly Rew), è uscito nel 2005 ma è talmente importante da dover essere riscoperto assolutamente! Dividerò l'articolo sulla Bongo Beat in due parti, soprattutto per una sua migliore fruibilità.

Cominciamo questo excursus parlandovi del disco di Ari Shine. A Force Of One è il primo disco "lungo" del cantautore Losangelino, che aveva esordito nel Duemilasei con l'ottimo Ep Age/Occupation. Per chiarire le idee, visto che quando si parla di cantautori si pensa subito ad un'acustica e al massimo ad un'armonica, diciamo subito che trattasi di cantautore powerpop, pure bello chiassoso. Il suo è un mix ad alto contenuto energetico fatto di classico powerpop anni 70, di un approccio alla Costello e di un pizzico di glam-pop, il tutto contenuto in un involucro-canzone di primo livello e di grande impatto. Ari è il tipo che se le canta e se le suona, nel senso che ama fare tutto da solo. La produzione, quella è lasciata ad Earle Mankey, lo storico produttore degli Sparks, e sembra cosa buona, giusta ed appropriata. Force Of One sprizza carica da tutti i pori. In Cooler Than Me (spassosa traccia d'apertura dove un ultra - trentenne fatica a rimorchiare la ragazza di ventun'anni) e She Wants It le melodie, gloriose, escono di forza da muri di chitarre e pianoforti ossessivi, facendo pensare ad un riuscito mix tra un giovane Costello ed i Cheap Trick (tra l'altro, in questo senso, mi ricorda molto il gran disco di Johnny Monaco, numero nove nella mia classifica di fine 2007). Sempre il nostro Elvis preferito, questa volta miscelato alla tipica new wave d'annata, si manifesta in Beirut 1978, mentre tracce quali Most Popular Girl In The World , It's A Shame e Neurotic Girl tornano all'ovile dei Raspberries e Joe Jackson senza puzzare di stantio, anzi.

Spassoso quando alza i toni del sintetizzatore vintage (Beat U) o quando per poco non passa i confini della dance (Party People), un pelo meno ma comunque più che decoroso quando abbassa i toni. Alla fine, uno dei miei pezzi preferiti è il normalissimo mid-tempo di Keep You In Cabs. Bel debutto, per casinari ed onnivori pop.

L'altro disco di cui voglio parlare oggi è quello di Kimberley Rew, che come detto è vecchio di tre anni ma è talmente bello che devo raccomandarlo al maggior numero di persone possibile! Per chi non ne avesse mai sentito parlare, Kimberley è stato il chitarrista dei Soft Boys, miti dello psych-folk anni 70 e 80. Non è un autore prolifico, Mr.Rew, ed Essex Hideaway è infatti il suo quarto disco da solista in venticinque anni. Si prenda pure tutto il tempo che vuole, se i risultati sono questi. Comunque lo si guardi (e lo si ascolti), questo è un disco che trasuda Inghilterra. Per la musica, ovvio, ma anche per l'elogio a tutto ciò che d'Inglese c'è al mondo ("milk and teabags and pork pie", si ascolta nel gospel-intro Bless This Music, registrato nella chiesa di St.Bartholomew a Great Gransden) e per i riferimenti alla letteratura Vittoriana (Jerome K Jerome). Un album splendido, dove Kimberley Rew dimostra di essere un chitarrista superiore per tecnica e gusto, ma soprattutto un songwriter pauroso, troppo sottovalutato rispetto al vecchio compagno di merende Hitchcock.

Phoenixtowe ha una melodia killer costruita sull'asse Davis/Macca che presto si diluisce in una lunga coda psichedelica pregna di fuzz ed acido lisergico. Come niente fosse si passa, senza che ciò sembri una forzatura, a Short Smart Haircut, dove uno spiritoso pianoforte guida un'atmosfera da musical scritto da un McCartney in trip anni 30. Aria molto simile si respira in That's Soft Boy (appunto), un brano da perdere la testa, anche se forse il meglio arriva da Jerome K Jerome, stilettata da paura tra i Beatles, i Kinks e i Rockpile. I dubbi ci sono eccome, però, riguardo a quale sia la vera "star" del disco, poichè il folk Dylanesco della title-track e soprattutto l'incedere assolutamente Barrett di Even Shorter Haircut rendono la scelta molto difficile. Non siete ancora corsi a recuperare una copia?

martedì 13 maggio 2008

Clamorose novità discografiche!

Inizia ad essere chiaro che questo 2008 è un grandissimo anno, a livello di uscite discografiche, per tutti gli amanti del pop puro. Navigando tra i meandri di MySpace ho scoperto che sono appena usciti i nuovi dischi di un artista ed una band, a me molto cari, inattivi da alcuni anni. Attualmente non sono ancora in possesso dei loro cd, ma spero di esserlo presto e quindi commenti più approfonditi non tarderanno ad arrivare...

Frank Bango è stato uno dei miei preferiti singer/songwriters newyorkesi tra la fine degli anni Novanta e l'inizio dell'attuale secolo ed è giunto al quarto album di studio, a ben sei anni di distanza da "The Unstudied Sea", uscito nel 2002. Il nuovo The Sweet Songs Of Decay, da quanto ho potuto ascoltare tramite i sampler presenti su Cd Baby (dove, ovviamente, è possibile acquistare il cd), è un altro grande esercizio di stile di un cantautore con i controfiocchi che, grazie anche a testi molto intelligenti, rende imperdibile il proprio background sonoro fatto di ispirazione Beatles/Costello/Beach Boys/Doug Powell. Per quel poco che ho sentito, un brano come I Saw The Size Of The World finirà di sicuro nella mia personalissima playlist del mese!

L'altra uscita che sta rendendo felice questo mio inizio di settimana è l'inaspettato terzo album dei Chewy Marble. Inaspettato perchè la band, formata tredici anni fa dal bassista dei Wondermints Brian Kassan, era "scomparsa" dal 2001, anno in cui uscì l'ottimo "Bowl Of Surreal". Anche in questo caso, tutto ciò che ho potuto apprezzare di Modulations (questo il titolo del nuovo disco) l'ho ascoltato attraverso i sampler proposti dal meraviglioso online store sopracitato, ma già si capisce che siamo di fronte ad un altro lavoro superbo, sospeso tra influenze powerpop, Beach Boys, Zombies ed altre più vicine alla psichedelia "leggera". California sunshine ai massimi livelli, insomma!

Approfondimenti su entrambi i dischi, che dovrebbero essere di livello A+, li potrete leggere su questo blog non appena ne entrerò in possesso!

martedì 6 maggio 2008

Dischi del Giorno 06-05-08: Philomankind - Ask (2005; Le Parc Music); Music Is Alive And Well (2008; inedito)

Allora è proprio sicuro, la scena pop indipendente Italiana, quella vera, ha rialzato la testa! Dopo aver ascoltato (ed ammirato) le produzioni di Vickers, Dagos, Radio Days e vari altri artisti, ecco un' altra band che merita sicuramente di essere citata dal nostro blog! Stiamo infatti per parlare dei Philomankind, quintetto Pisano autore di un grandissimo disco uscito nel 2005 chiamato Ask e dedito alla rivisitazione, peraltro molto originale, della classica pop music anni '60 e '70. I ragazzi hanno appena finito di registrare il secondo album di studio che si chiamerà Music Is Alive And Well, ma al momento sono incastrati nel classico problema in cui spesso cadono i gruppi di qualità: manca un'etichetta disposta a pubblicarne il disco. Sperando che questo nostro commento serva a pubblicizzare il loro (ottimo) lavoro, colgo l'occasione per parlare anche del loro album di debutto, vecchio di tre anni ma piuttosto sconosciuto e, dunque, meritevole di ulteriori attenzioni...

Il gruppo nasce nel 2003 dall'incontro tra il leader Marco Piaggesi (chitarra e voce) e Sandro Del Carratore (piano, organo, mellotron...), ai quali si uniscono subito dopo Sara Piaggesi, sorella di Marco, che diventa la voce solista, il batterista Michele Malasoma e la bassista Doda Mariotti. Insieme, i cinque registrano nel 2005 l'album di debutto Ask, un disco che tratta - con perizia e passione - il sixties (e seventies) pop a tutto tondo. I Philomankind hanno in primo luogo una caratteristica: suonano musica per così dire "classica" in maniera del tutto personale, riuscendo di conseguenza a palesare le ovvie influenze senza risultare derivativi. Il loro sound è una calda miscela di Beatle-pop e psichedelia leggera, con spruzzate di Americana qua e là e un attitudine vocale (specie negli episodi "al femminile") che non esiterei a definire "Abba".

Ask, l'album di debutto, si apre proprio con un brano che inevitabilmente - e anche un pò a sorpresa - fa tornare alla mente il gruppo Svedese più famoso della storia. Gender Bender, questo il titolo della canzone, è un potenziale singolone che - in un mondo migliore - potrebbe stare in una Top 40 qualsiasi, grazie anche alla coinvolgente prestazione di Sandro al pianoforte e ad un esilarante testo che parla di un teenager con il vezzo dell'eyeliner e il sogno di diventare Madonna. Gender Bender, grazie anche ad un ritornello indelebile, è la vera star del disco, che presenta tuttavia un contorno di qualità assolutamente elevata, qualunque direzione decida di prendere. La title-track è puro rock'n'roll per il corpo e per lo spirito, con un grande duetto vocale tra Sara e Marco che anta alla maniera di McCartney quando porta la propria voce al limite. Poi ci sono le ballatone, sempre suonate e cantate con gusto, come Sorry e soprattutto come From A Lonely One, che raccoglie e riassume trent'anni di grande female-pop accompagnandolo con uno stilosissimo sottofondo di harpsicord.

La passione per i seventies è rimarcata da It's Easy to See, da sala da ballo del '79, ma tra i grandi momenti del disco, per chiudere, è d'obbligo inserire quelli in cui i Philomankind prendono la tangente americana. E allora Mr.Adviser è una sorta di piano bar post-sbornia di whiskey e Pennsylvania Woman è una raffinata ballata da lost highway, guidata da un appropriatissimo banjo. Dulcis in fundo, una citazione per Smile, il mio pezzo preferito, dove in un'orgia di ganci melodici si rincorrono le melodie di Beach Boys e dei migliori Hollies.

Come detto, i cinque da Pisa hanno già registrato il sequel, vale a dire Music Is Alive and Well, purtroppo ancora inedito causa i noti problemi discografici. Per questo motivo ho dedeciso di parlarne ugualmente, sperando di dare una mano al gruppo, soprattutto perchè il disco lo merita senz'altro. Il secondogenito dei Philomankind muove sostanzialmente sulle stesse coordinate del suo predecessore, sia in termini sonori che qualitativi. Ci troviamo, quindi, al cospetto di altre undici canzoni influenzate da stili diversi ma insieme omogenei, sempre suonati ed arrangiati con grande classe. Benjamin, sopra ad un entusiasmante tappeto sonico di batteria e pianoforte, ripropone l'estasiante vocal-pop di Sara, virato in chiave leggermente psichedelica nella successiva Man Of Make Believe. Love Is A Risk, cantata da Marco, cambia l'atmosfera, creando un clima adatto per ingollare whisky in un truckstop nel profondo Tennessee, e medesime sensazioni vengono indotte da Marta Little Arms, con un feeling quasi bluegrass, aizzata da un azzeccato kazoo.

Show è una degna ballata per solo piano, e Yogi Dananta è un infuso semi-psichedelico in salsa Harrisoniana. Da citare, infine, due grandi canzoni come Gryphon City, dove la voce in stile "roots" di Marco guida un pop a forte trazione sudista, e come I'm Gonna Wait For The Last Time, il brano più pregiato del lotto dove, su una base in cui si mescolano classico pop "sessantista" e roots-sound, Marco canta manco fosse Greg Cartwright (ricordate Oblivians e Reigning Sound, vero?).

Se tutto ciò vi sembra possa interessarvi non esitate ad acquistare Ask, davvero un grande disco. E, per caso, avete un'etichetta indipendente? Per favore, contattate i Philomankind e non lasciate che Music Is Alive And Well muoia impolverato in qualche cantina. Altrimenti, poi, non lamentatevi dicendo che la scena pop Italiana fa schifo...

venerdì 2 maggio 2008

Disco del Giorno 02-05-08: Dave Dill - Follow The Summer (2008; Pickled Sun Music)

Che grande anno, questo 2008, per i fanatici di sunshine pop e di (soft) neo sixties in generale! Dopo aver esaltato il debutto capolavoro dei Rollo Treadway e aver scoperto, seppur con quattro anni di raitardo, l'esistenza dei grandi Offbeat, ci troviamo in redazione un altro disco sensazionale, perfetto per affrontare l'estate ormai sempre più vicina. Stiamo parlando del nuovissimo studio-album di Dave Dill, un disco che nell'universo dei blog sta ottenendo recensioni e voti pazzeschi e, visto che manchiamo solo noi, è ora di tributare il nostro personale plauso ad un artista che difficilmente restarà fuori dalla top 20 di fine anno...

Dave Dill, proveniente dal Rhode Island e giunto al quinto album, chiamato Follow The Summer, è la quintessenza del cantautore indipendente, essendo l'unico responsabile della stesura dei pezzi, nonchè della loro incisione e produzione. Dill suona ogni strumento e "canta" ogni voce, avvalendosi giusto in tre brani della collaborazione (nella scrittura e nella produzione) di Derek Holt, storico autore britannico, membro della Climax Blues Band ed autore della ballata sbanca-botteghini I Love You. Lo spirito che permea questo, come del resto i quattro dischi precedenti, è quello che si intuisce leggendone il titolo. Sole e mare. Di sera, però, quando l'atmosfera è soffusa, rilassata e vagamente elegante e sofisticata. Sofisticata come gli undici lussuosi frammenti che compongono Follow The Summer.

L'album, davvero raffinato e privo di riempitivi, lascerà a bocca aperta i cultori del classico "pet sound", così come i fans di moderni autori west coast come Michael Penn e soprattutto Jon Brion. La sequenza si apre con Today, un brano che vuole a suo modo essere esplicativo, guidato com'è da linee vocali certamente ereditate da Brian Wilson, poggiate sui tappeti sonici creati da un'evoluta e complicata chitarra acustica e da un geniale piano elettrico, fino a quando il tutto deflagra in un roboante assolo finale, dove sembra di scorgere Brian May impegnato in un epico esercizio progressivo. Miss America, se possibile, è ancora più aderente allo spirito del disco, ricordandomi un solare girotondo alla Wondermints immerso in una tiepida atmosfera acustica. Happily Ever After - senz'altro una delle chicche del lotto - è un coinvolgente numero uptempo che ricorda, a diversi livelli, un pò Macca e un pò i Fleetwood Mac, mentre Perfect There, guidata da un'acustica impegnata in un giro ossessivo e straniante, supporta una grandiosa melodia vocale in falsetto che tutto deve a Wilson e che ricorda le favolose produzioni dei Baby Lemonade periodo High Life Suite. E beccatevi l'uso del synth in sottofondo!

I pezzi, ripeto, sono tutti meritevoli d'attenzione e Never So Beautiful è un'altra conferma in questo senso, con i suoi intricati ma al contempo dolci e rilassati "impasti" vocali e il lussurioso sfondo sonoro, ancora e sempre debitore dei Beach Boys più eleganti. Don't Remember, invece, si discosta di netto dal feeling generale, pur senza risultare fuori luogo, con il suo rock'n'roll tinteggiato di country marchiato da chitarra twangy. Tutto torna nella norma un attimo dopo, però, perchè You Don't Believe It, un altro picco del disco, è una sublime ballata memore dei Badfinger, e Hide and Seek, di simile impatto "umorale", è invece influenzata dal miglior McCartney e impreziosita da un'armonia centrale sostenuta da un vintage pianoforte Rhodes del 1952.

L'ultima parte di Follow The Summer è aperta dalla title track, un'altra meravigliosa ballata dalla superba orchestrazione e dal complicato arrangiamento, che brucia lenta e rilassata fino a colpire inevitabilmente il cuore. Il brano, ispirato ad autori classici come Left Banke e Zombies, mi ricorda lo stile di un altro grande artista contemporaneo come Rick Gallego, che con l'ultimo disco targato Cloud Eleven ha virato deciso verso un raffinato sunshine pop. Per non smentirsi, Dill chiude con altri due brani che si guardano bene dall'abbassare la media. Everyday Song è un vivace e gioioso midtempo, mentre Ride On è un'intensa chiusura intrisa di blues e, soprattutto, di una buona dose di soul music.

Nel caso non fosse chiaro, se amate le cose più tranquille e sofisticate della west coast anni '60, correte ad accaparrarvi una copia di Follow The Summer. Perchè è vero che per questo genere di cose l'annata sembra propizia, ma dischi come questo sono delle perle in grado di fronteggiare i possibili periodi di vacche magre che, ahimé, ciclicamente arrivano. Altamente raccomandato.