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sabato 31 gennaio 2009

Sabato pomeriggio. Facendo ordine...

Ci siamo, questo è l'ultimo post pre-classifiche! Prima di procedere con il "best of 2008", però, ecco altri tre dischi che senz'altro meritano di essere ascoltati.

Chris English - Dreamtown (2008; Side B Music). Ennesima grande uscita per Jerry Boyd e la sua label con base a Baton Rouge, Louisiana. Chris English è il classico all-arounder della scena pop a stelle e strisce, viene da Charlotte, North Carolina, ed è un attivissimo produttore commerciale che per anni ha lavorato con artisti di calibro mondiale quali David Bowie (!), Ziggy Marley ed INXS, giusto per citare i più famosi. English è un tuttofare anche per quanto riguarda l'aspetto musicale, visto che in quest'opera, intitolata Dreamtown, suona e canta tutto per i fatti suoi, dalla chitarra alla batteria, dal banjo al sitar elettrico. E che album ne è venuto fuori. Un album che "farà classifica" e che vi consiglio di prendere molto sul serio. L'esperienza da produttore di livello qui fa la differenza, lo si capisce al volo: non è facile coniugare le sonorità tradizionali della musica americana con un feeling pervicacemente etereo e psichedelico? Ascoltate la spiazzante I Can See Everything e fatevene una ragione. Un disco stracolmo di gemme da non credere: la title-track è puro Wondermints all'ennesima potenza, scritto come solo gli originali e pochi altri sapevano fare, mentre la gigantesca Summer Revisited, con cori e ritornello da urlo, è spaventoso sunshine sounds per i tempi moderni. Imperdibili anche la straziante Without You, dal profumo di oceano pacifico che bagna la west coast e contrassegnata da un lavoro di chitarra davvero geniale e Downtime, contorto girotondo dal vago sentore XTC. Davvero impressionante, non perdetevelo. (www.myspace.com/chrisenglishmusic )

Luke Jackson - ...And Then Some (2008; Popsicle). Luke è nato a Londra, vive in Canada ed incide per un'etichetta Canadese, la Popsicle, che in distribuzione annovera esclusivamente bands ed artisti scandinavi. Il mondo della musica indipendente ci piace anche per queste strane storie. Ad And Then Some, terzo lavoro accreditato a Luke Jackson, hanno collaborato infatti alcuni dei grandi luminari che - soprattutto negli anni '90 - hanno contribuito a far diventare la Svezia una delle terre promesse del pop chitarristico mondiale: tra gli altri citiamo membri di Beagle, Brainpool e Favorita. Scusate se è poco. Le influenze si sentono e, senza sorpresa, arrivano proprio dal grande Nord. Il che essenzialmente significa una cosa semplice semplice: pop di matrice chitarristica con melodie fluorescenti. Dal powerpop classico della grande apertura Come Tomorrow, al rock di matrice anglosassone (ovviamente) di Goodbye London, dotata di cori da pub assurdi, ai lenti - molto ben riusciti - come This Life, Trouble e meglio ancora All I Can Do, è una grande festa di pop perfetto nella sua essenzialità e di prestazioni vocali fuori dalla media. Forse mancano ancora un paio di pezzi memorabili per elevare l'album a livelli di eccellenza, ma il lavoro, nel complesso, è più che buono e non potrà che stare a pennello nella vostra collezione di powerpop polare. (www.myspace.com/luke_jackson )


The Daylight Titans - Boom And Chime (2008; autoprodotto). Infine, un'eccellente combo proveniente da Austin, Texas. Avevo personalmente apprezzato il loro omonimo album d'esordio uscito qualche anno fa, e questo sequel, chiamato Boom and Chime, non delude le attese. I Daylight Titans propongono un'americana molto energica e muscolare che riserva eguale attenzione alla potenza e alle soluzioni melodiche sempre di primissimo piano. La voce profonda del cantante Andy Smith avvicina pezzi come Bathed In Light e la controversa Dogshit and Sadness ad una versione post-trattamento anabolizzante degli Uncle Tupelo, anche se le piene ed efficaci mura sonore fanno pensare agli estremi roots toccati dai Replacements. Il disco è parecchio pensoso e privo di momenti frivoli, breve (appena otto brani), molto molto intenso e incolume da riempitivi. Tra le altre tracce preferite: What Did I Say? dalle sonorità vagamente reminescenti di certo powerpop tardi anni ottanta e Between Joy and Faith, una chicca poderosamente americana che mi fa venire in mente il disco This Car Is Big dei Molenes, una delle migliori opere roots-rock degli ultimi due anni. Bravi. (www.myspace.com/thedaylighttitans )

sabato 24 gennaio 2009

Disco del Giorno 24-01-09: Tenniscourts - Dig The New Sounds Of Tenniscourts (2008; The Sweet Science records)

Parlavamo della deadline, il giorno oltre il quale nessun disco sarebbe stato preso in considerazione per la classifica sul meglio del 2008. Fortunatamente all'ultimo istante utile mi è stato recapitato il nuovo album dei Tenniscourts, che un posticino in quota lo meriterebbe. I Tenniscourts, il cui primo album è stato osannato su queste pagine poco più di un anno fa, sono la creatura di Wes Hollywood, un'autentica icona nella scena powerpop di Chicago e in tutto il midwest. Scrivendo del loro lavoro d'esordio avevamo tentato di definirne il sound parlando di "Kinks filtrati e riprogrammati dall'esperienza del punk" o qualcosa del genere, ma se quella frase è ancora attuale ed adattabile a questo Dig The New Sounds Of Tenniscourts, bisogna riconoscere che c'è molto, molto di più.

Quello che è sicuro: ascoltando i Tenniscourts non salta all'occhio la provenienza geografica. Ascoltando i Tenniscourts si ha l'idea di una band di appassionati musicisti cresciuti ingollando enormi dosi di brit sound, e per brit intendo si Ray Davies, ma anche un bel pò di psichedelia leggera e guai a tralasciare l'epopea del brit-pop anni 90. Si sente subito. Forever True è una bomba ad orologeria di matrice inequivocabilmente Gallagher (provateci, a darmi torto), dove i fratelli Oasis sono però annegati in un barattolo di confettura powerpop. E se la partenza è maestosa, quello che segue non è da meno. Wes e i ragazzi (per la precisione, completano la lineup Spencer Matern al basso, Tom Shover alla batteria e Chris Thomson alle tastiere) adorano la concisione e sono dotati d'invidiabile capacità di sintesi: i brani non durano quasi mai più di tre minuti, ma quando c'è un songwriter come Hollywood, uno in grado di scrivere in venti secondi quello che ti rimane in testa per una settimana, non c'è tempo da perdere.

La sensazione generale che aleggia è essenzialmente una: tredici pezzi che fanno un gran bel disco, ma che prima di tutto stanno in piedi alla grande da soli. Wes Hollywood mi da l'idea di uno che ha selezionato tredici brani e ne ha lasciati fuori almeno cinque con cui svariate bands avrebbero marciato per qualche tempo. Comunque, tra quelli finiti sull'album, voglio segnalare perlomeno Nicotine Nights e Turn The Tide, dal sopracitato sound "kinks-post-frullatore punk" e il singolo Swimming Pool, powerpop classico dalle melodie abrasive. Ma anche il Ray Davies più giocondo che riecheggia nella spassosa Ordinary Life. E non posso tralasciare il Costello-sound di Love In The Night, oppure il fantastico mid-tempo di Falling, con quelle armonie "storte" che fanno tanto parapsichedelia britannica e quella chitarrina in levare durante una strofa da perdere la testa. Assolutamente da non perdere, infine, la chiusura affidata alla commovente Sleeping Animal e, in particolare, The Grove, puro brit-pop per il terzo millennio, con un cantato d'eccezione ed un ritornello, per così dire, spaccaossa.

Adesso che ci penso non prendo in mano una racchetta da tennis da quasi dieci anni, ma rimango un grande appassionato da poltrona. Ovviamente, grazie a grandi dischi come Dig The New Sounds Of Tenniscourts, ed alla vigilia della seconda e decisiva settimana degli Australian Open in corso a Melbourne, è sempre un piacere dare un'occhiata (ed un ascolto) ai Tenniscourts.

martedì 20 gennaio 2009

e.p. del Giorno 20-01-09: David Kitchen - Underground (2008; autoprodotto)

Innanzitutto, un' informazione di servizio: è arrivato il deadline-time, dunque tutti i dischi che riceverò da oggi in avanti non verranno presi in considerazione per le classifiche sui migliori album ed e.p. del 2008. E' una decisione difficile che però prima o poi andava presa. Dunque, mi serve ancora circa una settimana per finire di "analizzare" alcuni dischi e poi finalmente si partirà. Nel frattempo, grazie per la pazienza.

Senza dilungarmi oltre con spiegazioni che probabilmente non interessano a nessuno, presentiamo un extended play che di sicuro troverà spazio nell'apposito best of. Stiamo parlando di David Kitchen il quale, dopo gli Strand (recensiti lo scorso mese di Ottobre), è il secondo artista proveniente da Alexandria (Virginia settentrionale) che abbiamo il piacere di ospitare sul nostro blog. Ovviamente Underground è un dischetto molto più che solido, la cui brevissima durata non toglie nulla ad un lavoro fresco e raffinato, che promette molto bene in prospettiva long playing.

David definisce la sua musica in questo modo: "post modern melodic guitar pop". Beh, Underground di certo appartiene alla galassia del guitar pop melodico, quello è poco ma è sicuro, ma perchè "post modern"? Studiandolo un pò si potrebbe evincere che il post-moderno, nella musica di Kitchen, stia nell'intersezione tra classico pop chitarristico e suoni vagamamente jazzy per cui l'autore sembra nutrire una forte passione. In effetti, ciò considerato, i cinque brani se non proprio post moderni risultano innovativi e senza ombra di dubbio ingegnosi.

E' la title-track ad aprire le danze, un fantastico numero upbeat che ricorda qua e là Blur, Nick Lowe, Counting Crows (e, parlando di Counting Crows, mi sento di stra-consigliare il disco a chi avesse apprezzato il meraviglioso album dei britannici Alphaspin trattato su questo blog lo scorso mese di Giugno). Il brano, una chicca imperdibile che finirà immediatamente su una delle mie compilation da macchina, pone in risalto il caratteristico stile di canto di David, con quel delicato falsetto che all'improvviso piomba in mezzo ad una strofa o ad un ritornello con classe sopraffina. Mean Old Mister Gravity è il brano dove il pop di Mr.Kitchen abbraccia soluzioni jazz senza che il contesto risulti pacchiano o peggio saccente, e il risultato è clamoroso e clamorosamente arrangiato con elegantissime sfumature di fiati e di tromba in particolare. Non se ne sentono tutti i giorni di brani così, il che mi spinge a rilasciare l'incauta definizione di "classico istantaneo". Esagerato? Vedete voi.

Dopo i primi pazzeschi due pezzi il dischetto prende una piega molto soft nel terzetto finale, che si apre con il mio brano preferito del lotto. Find Our Way è raffinatezza pop all'ennesima potenza, raccontata da liriche profonde ed accompagnata da una base sonora così leggera che per poco non decolla, e così elegante da ricordarmi una delle mie bands preferite di tutti gli anni novanta, i Mommyheads (che tra l'altro - dopo dieci anni - sono usciti con il nuovo fantastico disco qualche mese fa, probabile che ve lo ritroverete sul podio quando la classifica sarà pronta). You Know That I Will prosegue sugli stessi canali sonici ed emotivi, così come Remembering, che chiude alla grande il cerchio impreziosendolo con sontuosi arrangiamenti di sitar.

Underground, mi dispiace doverlo dire, è un titolo azzeccatissimo per un dischetto che purtroppo non comprerà nessuno. Tranne voi, che fidandovi ciecamente di UTTT, non esiterete a dare una chance ad un altro ottimo lavoro proveniente da quell'inesauribile fucina di talenti che è la provincia americana.

giovedì 15 gennaio 2009

e.p. del giorno 15-01-09: Thee Piatcions - Fireworks Generation (2008; Suiteside records)

di Zio René

Se la musica ha un senso, la potenzialità profonda della favola, è perché ci sono ancora ragazzini che hanno la sfacciataggine e il coraggio di proporsi, provare, immaginare, manifestare, improvvisare, immediati come un telex, innescando le nostre reazioni esplosive. Non cattedratici, senza il velo della superbia o magari l’istrionico desiderio dei riflettori su di sé, ma con la bandiera della spontaneità, dell’energia, crescendo all’ombra delle proprie idee in una sorta di combattimento tra fantasia ed improvvisazione. Non è il passato che vogliono discutere, per loro importante è il presente per affrontare il futuro.

L’appassionato teenager è così lucido da afferrare immediatamente la portata del suo discorso. La teoria del gradualismo, per cui è necessario accostarsi dapprima ai …, poi superarli con .. , trascenderli con .., abbandonarli con .. , e sublimarli definitivamente con … , quasi come soggetti che ricevono ma non producono segnali, lavoratori senza identità, non è nel loro DNA. La musica non si divide in storia geografia e biografia, ma nella realtà dei sogni e dei desideri; è bisognosa di comunicazione e si sacrifica alla emozione, organizza i meccanismi mentali e si realizza nei suoi riflessi fisici e illusori. Niente può impedire al ragazzo innamorato dello strumento di provare un attimo di sbandamento, di luce, di meraviglia di fronte ai suoni che ne escono, perché la musica che si sceglie è il riflesso di mille aspirazioni esistenziali, di dubbi, di amore, di lucidità trovata magari per caso. Niente è perfettamente conscio quando accade qualcosa o vivi qualcosa. L’evoluzione del loro suono si dichiara consapevole, libera e felice di essere immediata come le cose. La loro musica può nutrire per sempre la carne e la mente con un linguaggio sclerotico che rinasce nell’ascolto di se stesso, senza i comodi cuscini del facile ascolto. Chi si ciba di rock , garage., psichedelica, blues é naturalmente attratto dall’estetica della violenza del suono, meglio, dalla rappresentazione della violenza che si scioglie nel deliquio dell’inserimento nella vita reale. Come un individuo che ha sbagliato bersaglio, dal momento che non è caduto nella trappola dell’impalcatura consumistica capace di barattare il proprio senso.

Sbadato e distratto da un ascolto superficiale fatto su MySpace, avevo dato un giudizio disanimato, cieco, banale e privo di comprensione. Sottovoce devo recitare il mea culpa. Poi venerdì 9 gennaio 2008 sono andato all’Oste, pub ossolano dove quasi ogni settimana si fa musica dal vivo, dove la passione e l’amore per il rock del gestore Giulio – Zillo - , musicista collezionista e talent scout permette a nuove giovani band di proporre la loro musica, un luogo ormai diventato cult per gli appassionati e dove band anche affermate desiderano suonare. C’era il concerto di presentazione del disco dei nostri PIATCIONS.

Una visione forte, senza cadute di ritmo, una eccitazione morbida che porta i sensi allo stordimento, un prisma dai colori puri, di prima mano, una cartolina sonora. Al di là di alcune piccole imprecisioni stilistiche, è da sottolineare il coraggio dell’improvvisazione che si esprime in tutto il concerto e si sublima in brani come Time , Homeless Blues e Stargazer. La generazione dei fuochi artificiali fonde la materia dei nuovi brani con quella dell’EP Fireworks Generation in una unica realtà. Polvere di stelle. Ritorna dal passato il vinile. Coraggio, irresponsabilità, spregiudicatezza? Sicuramente scelta poco commerciale per un’autoproduzione, ma espressione d’amore per l’unico contenitore adatto a contenerla: un EP in vinile.

Influenzato e ma non ingannato dall’atto live e dalla veste grafica, riascolto. Mi ritornano in mente Barbarians, Seeds, Standells ma non come sostituti nelle loro teste ma come attimo magico osservato nella sfera di cristallo. La musica è davvero il medium che ti fa gettare nella mischia con reale convinzione. Mary, Mary e Fireworks Generation ci regalano climi venati di tensione emotiva, un tocco definito con docile pudore. Homeless Blues plana dove l’anima blues si apparenta con il rock senza toccare il trigemino dello "stile sporco", dove nel finale gli strumenti tengono a bada il suono, senza esagerare ma eccellendo in fantasia con quel tocco di ruggine che lascia il sapore del miracolo dolce. Grazie per farci ascoltare e dire ancora oggi queste bellissime verità.

sabato 10 gennaio 2009

Altri dischi 2008 - panoramica.

Il duemilaotto è stato un anno quantomai prolifico, e sembra che le scorte di musica pop ancora stipate nel quartier generale di UTTT siano inesauribili. Per questo motivo, con l'intento di velocizzare il lavoro e correre spedito verso la classifica di fine anno, accorpo in un unico post le recensioni di altri tre buoni dischi da sottoporre alla vostra considerazione. Del resto, non credo che una recensione lunga sia direttamente proporzionale ad un ottimo disco, né tantomeno viceversa.

The Respectables - Sibley Gardens (2008; autoprodotto). L'industria automibilistica della motor city sarà anche in una crisi profonda, per giunta aggravata dalla tremenda congiuntura internazionale, ma per fortuna la scena musicale di Detroit è quanto mai florida e propositiva. Quest'anno abbiamo assistito all'uscita di grandiosi dischi marchiati motown, e di alcuni (Andy Reed e i Romeo Flynns, per esempio) abbiamo avuto modo di parlare su queste pagine, mentre ora è la volta dei Respectables, giunti al loro secondo lavoro di studio. La band capitanata dal carismatico Nick Piunti incendia l'ascoltatore con un energetico concentrato di classico Detroit-styled rock e poderoso powerpop alla Cheap Trick, durante un disco ad altissimo contenuto anabolizzante che piacerà molto a chi del pop preferisce il lato più duro e graffiante. Non sbagliatevi, però, perchè sotto la scorza le melodie non mancano e la voce roca di Nick è perfetta per adagiarle sul muscolare sound sottostante. Di tanto in tanto i ragazzi spostano il tiro verso lande leggermente più pop (Spark and Destiny), ma i brani migliori per me sono quelli in cui i Respectables si dilettano nel loro stile preferito, con le chitarrone alzate a quindici e le melodie rustiche dell'iniziale Charged By The Minute e della grandiosa When You Come Back Around. Certo, più che rispettabili, rispettabilissimi.(www.myspace.com/therespectables )

The Handcuffs - Electroluv (2008; autoprodotto). Avevo adorato il disco d'esordio degli Handcuffs, uscito nel 2006, dunque ero eccitato dall'idea di ricevere questo nuovissimo Electroluv e devo dire che le mie aspettative non sono andate deluse. Forse il nuovo disco è leggermente più "serio" e ha perso gli spunti più frivoli che albergavano nel precedente Model For a Revolution, ma non è necessariamente un male. Gli Handcuffs, che per chi non lo sapesse sono essenzialmente un duo di Chicago composto dalla cantante Chloe F.Orwell - ex dei grandi Big Hello - e da Brad Elvis, ex drummer dei leggendari Elvis Brothers, propongono un sound che è in diversa misura influenzato, per stessa ammissione della band, da Sparks, Blondie e PJ Harvey (?). Nel calderone di nomi ed eroi buttati li, quello che ne esce è classico indie rock anni 90 al femminile, che effettivamente potrebbe far pensare ai Garbage ma fatto molto bene. Aaron Kupferberg di Powerpoaholic sostiene a ragion veduta che "se vi siete mai chiesti come avrebbe potuto suonare Gwen Stefani se avesse fatto powerpop, avete una risposta dagli Handcuffs". La voce di Chloe Orwell potrebbe anche ricordare una versione addolcita di Courtney Love. Tracce preferite: Fake Friends e Half a Mind. (www.myspace.com/thehandcuffs )


Mark Lawrence - Swirl (2008; Tamarind records). Tra i tanti buoni dischi in qualche modo cantautorali usciti nel 2008 inseriamo con piacere Mark Lawrence, compositore dalla biografia incerta, visto che non compaiono informazioni di rilievo nel booklet dell'album e sulla pagina MySpace, alla voce, "provenienza", il Nostro scrive S.Francisco, Norfolk, Tokyo. Mah. Quello che è importante, ripetiamolo tutti insieme fino alla nausea, è la musica, tuttavia. E Swirl, che a quanto ne so è il disco d'esordio di Lawrence, è un buon disco. Dovendolo definire, verrebbe in mente una London Town (quella di McCartney) un pò in penombra e la sensazione generale è quella di un disco sospeso tra sensazioni easy listening e atomsfere ambient. Non essendo facile coniugare approcci tanto differenti, bisogna dire che Mark ha stile e tanta buona volontà. Due pregi che partoriscono, tra gli altri, tre pezzi estremamente gradevoli come Tom, dall'impronta vagamente debitrice di Sean O'Hagan, All Over My Wall, dove si sente che Macca è la guida spirituale e Plastic Fish, un esercizio quasi vaudeville che qualcosa deve al grande capo Ray Davies. Una possibilità bisogna garantirgliela. (www.myspace.com/marklawrencesongs )

mercoledì 7 gennaio 2009

Disco del Giorno 07-01-09: White Star Liners - The Rural Electrification (2008; autoprodotto)

Non sono un fanatico della sperimentazione ad ogni costo. Non sono nemmeno un conservatore, ci mancherebbe, mi piacciono le nuove intuizioni e gli esperimenti quando sono fatti con gusto e cognizione. Tuttavia, nutro un'invincibile animosità nei confronti del fondamentalismo avanguardista e, in genere, verso tutti i generi musicali che si fregiano del prefisso "post". Ma post de che? Ci vuole talento, è troppo facile farsi solleticare dai commenti positivi di una stampa che aspetta solo la nuova sperimentale cazzata da dare in pasto agli ignari lettori. Qualcuno, però, fortunatamente, il talento per fare musica anticonvenzionale ottenendo dei risultati fantascientifici ce l'ha, per esempio ne sono dotati in quantitativi smisurati Jim Duncan e James Harvey da Liverpool, i White Star Liners.

Un grandissimo gruppo indipendente, autore di un album sensazionale ed inaspettato, uscito alla fine dell'anno e per questo ancora in tempo per fare sfracelli nel "best of 2008", dove si insedierà in una posizione tra le prime venti, se mai riuscirò a completare la classifica. Un disco, The Rural Electrification, dove si sperimentano nuovi percorsi e si innovano le grandi tradizioni della musica popolare, con grande rispetto e notevole capacità, però. I White Star Liners devono averlo studiato con precisione e pazienza certosina, quest'album di debutto. I suoni sono curati nei minimi dettagli, gli arrangiamenti e le sfumature di ogni sorta sono pennellati con tecnica, perizia ed amore per la materia, mentre gli accostamenti - spesso parecchio arditi - tra strumentazioni acustiche di matrice inevitabilmente folk e drumming elettronico sono costruiti con una delicatezza che definire sublime è perfino riduttivo.

The Rural Electrification inizia con una sommessa pianola che introduce Building Impossible Flying Machines ed incede per quattro minuti di etereo folk ristrutturato da stravaganze sintetiche e campionamenti sfumati, che fanno venire in mente i momenti più quieti dei Future Clouds And Radar. Digging For Bombs, invece, è un brano essenzialmente powerpop debitore dei Blur durante la strofa-capolavoro e addirittura dei migliori Silversun nel ritornello, vi giuro che è vero e non potete immaginare quanto sia bello poterlo dire. Se Keep Calm and Carry On è un'acustico in chiave sessantista con una sezione ritmica in qualche modo influenzata da un certo country d'annata, Tyre Pressure Was The Least Of His Problems è il capolavoro assoluto dell'intero disco: uno spaccato di Elliott Smith contaminato da una sublime batteria elettronica, camuffato da suoni e rumori delicatamente sintetici e travolgente nelle spaventose linee vocali.

L'indimenticato Elliott da Portland guida il sogno di Jim Duncan anche in The Cruellest Graveston, che richiama all'ordine anche alcune sonorità tipiche di quello che, all'inizio del millennio, furoreggiava sotto le insegne di "new acoustic movement"; ed un altro pezzo francamente eccezionale si chiama Sleep Like Stones, una travolgente cerimonia up-tempo che pesca dalla tradizione folk sessantista esibendo stacchi e bridge intellettualmente così avanti da mettere sotto tante, tantissime produzioni indie attuali.

I dodici episodi di Rural Electrification sono uno più incredibile dell'altro e le sorprese sono disseminate in ogni dove. Ascoltare, tanto per gradire, Bugs and Flames che, se non fosse per il drumming ostentatamente elettronico, potrebbe sembrare un pezzo dei Weezer periodo Green Album, quando ancora erano dotati di quell'inconfondibile guizzo melodico. E già che ci siete, godete senza remore del classicissimo sunshine folk strimpellato in Birthday Banners And Christmas Shivers per poi tuffarvi contro un nuovo muro di chitarre e melodie eccezionali stile Grandaddy nel penultimo atto, chiamato Dimmer Then Explode.

La definizione che gli stessi White Star Liners danno del loro suono sulla pagina MySpace della band è fantastica e ve la cito: "come suona? come un bitter tiepido gustato in un giardino di un pub del Sussex in autunno". Forse un pelo troppo immaginifico, ma può rendere l'idea. Aggiungo che, se i giornali musicali mainstream dessero loro spazio, potrebbero diventare delle potenziali star, e a pieno merito. Delicati, inusuali, affascinanti. Un grande disco consigliato a tutti.

sabato 3 gennaio 2009

Disco del Giorno 03-01-2009: Suinage - Shaking Hands (2008; Produzioni Sante)

Cerchiamo di iniziare alla grande questo 2009, per Dio! Io provo a darvi una mano presentandovi il nuovo disco di un'altra grande band Italiana. Chi sono? Ma i celebri Suinage, of course! La band arriva da Cantù, profonda Brianza, e Shaking Hands è il loro secondo lavoro di studio, che giunge ad oltre tre anni di distanza dall' ottimo extended play d'esordio 99 Things I Ignore. Il completamento dell'album ha richiesto mesi e mesi di attesa, ma adesso che finalmente è nelle nostre mani (anche se in realtà ho solo i files mp3, Ariel, sto ancora aspettando una copia) possiamo tranquillamente dire che non abbiamo aspettato invano. Anzi, direi proprio che ne è valsa ampiamente la pena.

E' sempre molto molto difficile recensire un disco quando si conoscono le persone che l'hanno fatto, perchè il rischio di sconfinare nella partigianeria è sempre dietro l'angolo. Per fortuna i ragazzi mi tolgono dall'imbarazzo, visto che Shaking Hands non solo è un ottimo disco, ma è un lavoro particolare, diverso e ricco di spunti, che per questi ed altri motivi potrà essere apprezzato sia dai seguaci regolari di questo blog, sia da chi non fa del pop una vera e propria ragione di vita.

Dicevamo, un lavoro particolare, pieno di invenzioni e molto intenso. Originale, soprattutto, nelle cose e nei suoni. Pilli Colombo (voce e chitarra), Ariel Dotti (basso) e Flavio Torzillo (batteria) costruiscono, urlano ed inventano un nuovo modo di suonare powerpop pur partendo da esplicite influenze che non di rado esplodono qua e là, senza che mai, nemmeno lontanamente, si sfiori la tentazione del plagio. Quello che colpisce al primo ascolto sono gli arrangiamenti che non ti aspetteresti, il grande lavoro sulle chitarre e lo stile di canto di Pilli Colombo. Bruce Brodeen (che se qualcuno ancora non lo conosce è il BOSS della Not Lame ed uno dei miei mentori assoluti in materia powerpop) afferma da tempi non sospetti che il cantato dei Suinage è un qualcosa di sospeso tra il Joe Jackson dei primi due album ed Adam Marsland. E, a prescindere dal fatto che mai avrei le palle di contraddire Bruce, devo ammettere che il punto è centratissimo. Si tratta, infatti, di uno stile di canto parecchio aggressivo, che caratterizza fortemente dodici brani sostanzialmente powerpop, anche se nel caso del trio canturino forse sarebbe più giusto parlare di power-rock'n'roll, potente e "sentito", che pesca più dalla filosofia che dal repertorio Replacements (fans del classico Westerberg sound prestate attenzione a questo disco) rivoltandola tuttavia come un calzino.

Un fantastico e potente riff di chitarra introduce la strepitosa apertura Toothbrush, che con la successiva Don't Pass Me By costituisce un uno-due d'esordio anfetaminico, muscolare, devastante pur nella sua movimentata melodicità, ed apre lo spazio ad altri dieci episodi senza cadute di tono, dove la tensione resta altissima. Anche nei brani più orientati verso vaghi scenari pop come Chump e Blacklist, dove emerge prepotente l'infatuazione che i ragazzi provano nei confronti dei Lemonheads, che diventa tripudio amoroso nei brani leggermente più tranquilli (si fa per dire), come All Eyes On Me, Underneath The Lives e la conclusiva There's No Time dove l'influenza anche del Dando solista diventa la stella polare e allo stesso tempo punto di partenza per altri tre piccoli gioielli sonici. Il bello dei Suinage è che riescono a far convivere quelli che sembrano essere gli opposti del rock'n'roll. L'attitudine, le melodie, i giri di chitarra dichiaratamente pop; appena accanto la voce urlata, l'assenza di filtri, la potenza estrema della sezione ritmica. E lo fanno all'interno dello stesso lavoro con una coesione che non si vede tutti i giorni. Provateci, voi, a far coesistere la quieta e poppeggiante July con la devastante title-track e con Dave, entrambe in equilibrio tra le ruvidezze della motown e la Minneapolis dei 'Mats, due brani eccelsi dove un grande lavoro di chitarra fa da contrappunto ad un basso dritto, compatto e compulsivo.

Sono orgoglioso di dire che con Shaking Hands ho trovato un grande album Italiano da inserire nella classifica dei migliori lp 2008, non so ancora in che posizione, ma di sicuro non è poco. La "scena" sta migliorando, bravi ragazzi, avanti così. Dischi come quello dei Suinage, con le recensioni che ottengono su fondamentali siti Americani, offrono un grande servizio a tutto il nostro insensibile e superficiale ambiente, giovando francamente parecchio. Stringiamo (e baciamo) le mani.