Under the History Tree, nelle intenzioni originali, sarebbe dovuta essere una rubrica mensile, ma gli iniziali buoni propositi sono stati brutalmente soppiantati dai fatti: 3 articoli in un anno e mezzo. Ovviamente mi assumo la responsabilità per i continui ritardi nella pubblicazione dei post e mi scuso con l'autore. Prometto, tuttavia, che d'ora in avanti lo spazio dedicato al ripasso dei classici che hanno fatto la storia della NOSTRA musica inizierà DAVVERO a comparire su queste pagine una volta al mese.
DUCKS DELUXE: PUB ROCK A 5 STELLE
di Zio René
La necessità della musica non esiste, paradossalmente è un bisogno “indotto", che fa comodo ai padroni del vapore che possono vendere qualche milione di dischi in più e guadagnare più soldi.
La generazione degli anni ’60 scopre però che fa parte dell’apparato genetico della razza e incominciano a masticare musica perché non se ne può fare a meno. Il pop e il rock’n’roll non sono timidi o ingenui agganci per uscire dalla crisi, diventano il modo per sconfiggere la monotonia, la tristezza, la noia di vivere e lo squallore umido dei sabati sera. Il suono vive della sua primitività fisica, pronta a trasmettere immediatamente il brivido dell’azione, a eccitare i muscoli, a mettere in movimento le fibre nervose. A provocare l’estasi aspra è il rock’n’roll. La rivolta si sviluppa con la complicità strutturale dei quattro accordi che aggiustano la comunicazione e la trasformano in avventura. La legano alla intuizione dell’aggiustamento dei sensi per l’elettrica stimolazione del vivere, irriconoscibile ed esattamente al contrario, un gesto emotivo che si può incriminare ma non derogare.
Quattro ragazzi dai capelli lunghi strepitano e danno gioia alla propria generazione e sono già la risposta allo spartito con su scritto “ andante moderato molto bianco . La dicitura diventa “ fortissimo sporco strisciante”. Si aprono le stanze delle “cose che contano”. La protagonista diventa la musica nella sua fiammeggiante esistenza, cade a strapiombo nel cervello e a dispetto del glaciale silenzio corre verso la novità. Magari si rivernicia, viene recuperata e ricamata, ma rimane intelligente nella sua paranoia senza vuoti di ispirazione, testarda nel suo battere (beat) , con l’ipotesi di attestarsi nella scena giusta, in cerca di osanna. Astuta si mette al tavolino delle emozioni e dimostra la affascinante capacità di trasformarsi. Si consacra alla psichedelia, al revival blues, alla furia dell’hard rock, si apre ai suggerimenti jazzistici, approda nell’ ambiguità del glam, costruisce con tecnica soffice e acuta il progressive.
In qualcuno, però, serpeggia il dubbio che la musica stia volando via e che stia accadendo qualcosa che a nessuno era chiaro cosa fosse. Si era tutti immersi negli affari e non si capiva che eravamo sempre bastardi, anche se intelligenti. Accecati dalla approvazione nei confronti di questa evoluzione, la si cercava completa, totale, quasi a sconfinare nella passione, mascherata dal sacerdozio discografico. L’ordigno veniva disinnescato e del ”geniere” appassionato che sputava gioia (il rock'n’roll) non rimaneva che il ricordo, nemmeno “consolato” dalla voce, che diventava lamentosa e aveva il timbro pallido della morte. Si stava perdendo con questo estremismo l’irrazionalità, il medium sensuale che sosteneva il nostro cuore e suscitava e faceva scaturire dal nulla torrenti di energia e parlava in modo chiaro anche se drammatico. La musica diventava sempre più pretenziosa. La Terra d’Albione del rock era caratterizzata in massima parte dai travestimenti del glam, del progressive, del pomp, dell’art-rock. Questo nuovo rock sembrava affetto dalla sindrome di Narciso, condannato ad innamorarsi della propria immagine e che resosi conto della impossibilità della sua passione, arriva a lasciarsi morire.
In un certo senso bisognava cambiare metodo. Basta paillettes e lustrini; era ora di riindossare jeans sdruciti, giacche di pelle e riaprire il calderone degli “ ameircan roots” (blues, rock’n’roll, rythm & blues, country, ecc.). Quasi come un immagine di B movie degli anni ’60, come un luogo per sognare rockville e dintorni, nasce il Pub Rock, movimento musicale dei primi anni settanta, incentrato attorno al nord di Londra e sud est di Essex, particolarmente Canvey Island e Southend on Sea. In un certo senso un fenomeno britannico non molto diverso dal roots rock, e che consisteva praticamente in band dall’impronta mod che suonavano rock'n'roll, country e blues, con iniezioni di beat e english sound, nei locali e pub dell'Inghilterra. Era musica essenzialmente dal vivo, live. Abbandonare le arene, gli stadi e scaricare gli amplificatori nei back-rooms dei pub, nei clubs e realizzare il proprio sogno di vivere il rock “nudo e crudo" come musica senza tempo, come migliore esperienza di vita. Il gioco sta nella ricostruzione ironicamente riciclata ma contagiosa dell’entusiasmo che sventola in noi, la voglia di alzare ansiosi una pinta di birra Dosh e sentire rock’n’roll. Al “bischero” che non capisce il trucco e la etichetta di essere un po’ vecchiotta e kitsch, rispondiamo: certo che è così, e come potrebbe essere? Divertiamoci e basta ! Questa è una colpa ?
"Tutte queste band suonavano musica buona per bere e ballare. Le radici english pop e american roots erano ben visibili" (Martin Belmont chitarrista dei Ducks Deluxe).
Le maggiori band pub rock come Brinsley Schwarz, Ducks Deluxe, Bees Make Honey, Ace, Dr. Feelgood connotavano influenze tradizionali. Questo genere sorse in contrasto con ciò che dominava le classifiche britanniche. Conseguentemente, i gruppi avevano problemi a trovare posti per esibirsi, e crearono così un circuito suonando in locali nascosti sparsi per l'Inghilterra. Fu un movimento underground che, anche se poco conosciuto e apprezzato da noi, è il filo rosso che collega il mod sound dei mid sixties al mod revival degli anni ottanta. Inoltre, non bisogna dimenticare che il movimento ispirò e pose le basi per il punk rock, infatti molti esponenti del pub rock inclusi Nick Lowe dei Brinsley Schwarz, Joe Strummerdei 101'ers, Elvis Costello dei Flip City, Ian Dury e Graham Parker dei Kilburn & the High Roads diventarono importanti esponenti del neonato punk rock e del successivo fenomeno new wave.
Campioni del più tipico pub rock londinese, i Ducks Deluxe si formano dell’agosto del 1972 su iniziativa di Sean Tyla (ex chitarrista degli Help Yourself), che trova aiuto in Ken Whaley (altro Help Yourself), Martin Belmont ( ex roadie dei Brinsley Schwarz ) e Tim Roper. Se ne va subito Whaley che viene sostituito da Nick Garvey (manager dei Flamin’ Groovies) e con questa formazione incidono nel 1974 per la RCA l'omonimo album d'esordio, prodotto da Dave Bloxham, dove riescono a catturare il fuoco e l’eccitazione del live. E’ un gran disco per ballare e bere, non è destinato all’analisi critica. Il clima live si percepisce subito dal brano di apertura, Coast to Coast, primo singolo della band, e censurato dalla BBC per il suo riferimento alle droghe. La voce gutturale di Sean Tyla influenza con un trainwreck strascicato la canzone che sembra dire "siamo qui per il rock", e la competente chitarra di Belmont ci riporta alle radici, a Duane Eddy, al riverbero nasale della chitarra. La voce cupa e baritonale di Garvey ci regala Nervous Breakdown, puro rockabilly style che suona come un incrocio tra Eddy Cochran (sua cover) e il country blues maniaco e irruente, quasi involontario prototipo del futuro punk. Uno dei miei brani preferiti, Daddy Put the Bomp, rallenta la tensione ma ribolle di groove funky. E’ composizione di Tyla, dall’ anima spavalda e dal sapore di New Orleans e swamp rock e Allen Toussaint, scritta nonostante il fatto che all’epoca non aveva mai visitato gli States.
"Sean scriveva canzoni sull’America, posto in cui non era mai stato, e io ero un chitarrista solista, cosa che non ero mai stato, fu la combinazione ideale" (Martin Belmont).
L’amore per il soul della Stax si esprime con I Got You. Il capolavoro pop Please Please Please, di scuola beatlesiana e non solo per il titolo, combina accettazione e vulnerabilità, perfetto nella voce strozzata e nella melodia accattivante, sintonia incredibile dove Belmont cristallizza alla Gene Vincent una chitarra chiara e pulita in un tema senza tempo. Il treno merci (merce pregiata ndr) Ducks Deluxe, scappa sui binari e assume una velocità pericolosa. Attraversa il paese Velvet Undergroud e, ispirata a Sweet Jane (per loro stessa ammissione), prende spunto Fireball, brano dal big beat e dal ritmo solido. Don’t Mind Rockin’ Tonite è un incrocio pericoloso con deviazione verso il southern rock benedetto da Chuck Berry, sostenuto da un riff poderoso e circolare tipico della terra texana. Durante la traccia, incontriamo un passeggero a bordo: è Bob Andrews dei Brinsley Schwarz, che contrappunta col pianoforte. Spensierata, godibile e senza indugi viene cantata con un finto imbarazzo Hearts on my Sleeve, con l’ingenuità del primo beat. Piccola sosta per caricare sul treno musicale la sezione di fiati dei Sons of the Jungle Horns, e far scaturire la splendida ballata Falling for That Woman, dal sapore soul e R&B alla Otis Redding. Tyla con voce dylaniana e con il ricordo della Band periodo Big Pink, si e ci immerge nella provincia americana e con pura fantasy inglese ci canta il country rock convincente di West Texas Trucking Board, atto d’amore supremo per uno che in Texas non c’era mai stato. Una parentesi sofisticata e un po’ funky, Too Hot to Handle, e si chiude con la seconda cover dell’album, It’s All Over Now, southern rock classico di Bobby Womack ma che in realtà tutti ricordano come brano dei Rolling Stones con aplomb gioioso e teso.
Nonostante la buona accoglienza da parte della critica, l’indifferenza commerciale, destino di tutte le pub rock band, farà si che il successo non sarà mai grande, niente faville di vendite. L’idea dell’amico Dai Davies di farli suonare insieme e di fare il loro manager rimane una “buona idea” e ci regalerà una lunga serie di concerti (che immaginiamo divertentissimi) e, con la produzione di Dave Edmunds, alla incisione di Taxi of the Terminal Zone ( RCA 1975 ), altro disco molto convincente e che svilupperà ancor di più l’ispirazione rollingstoniana e country rock all’inglese (Mott the Hoople per esempio). Viene assunto un tastierista, Andy McMasters e si ritorna in studio a Monmouth, ai mitici Rockfield Studios. Il nuovo lavoro sviluppa sempre un mix di blues-boogie aromatizzato alla Rolling Stones, un rockabilly filtrato dalla cultura pop britannica, e si trascina e si strascica con i tre accordi alla Chuck Berry-style, che costituiranno terra di conquista per le future generazioni punk rockers. Personalmente, lo considero leggermente meno entusiasmante rispetto al primo, anche se la linea della promise land di Chuck Berry con cipiglio anglosassone viene mantenuta.
Piccoli gioielli sonori sono contenuti anche in questo scrigno: l’apertura Cherry Pie, deliziosa torta dal gusto e stile Stones con chitarra ispida e battito incessante; la vibrante felicità di It Don’t Matter Tonite, tesa e gioiosa tra amore e tradimenti; la trasparente I’m Crying, nel sottile stile chitarristico di Belmont e nella voce soulful di Garvey che accarezza il testo lasciando scorrere intorno l’emozione. E poi la confezione infettiva pop di Love’s Melody, scritta da McMasters, dalla melodia irresistibile e grassa nel suo stile anni ’60 con il riff di Belmont; l’omaggio ai Flamin’ Groovies con Teenage Head, chitarre spumeggianti e ritmi duri; il classico country & roll di Rio Grande; il pop & roll aromatizzato di My My Music, detersivo musicale per la nostra mente; Rainy Night in Kilburn graziosa ballata cullata dalle tastiere e dalla voce tranquilla e elegante di Belmont. Per non dimenticare Woman of the Man; R&B di stile con respiro mod e Paris 9, delirio spensierato che evoca i Mott the Hoople, armonie forti e big beat con un riff tastieristico infernale alla Jerry Lee Lewis. Un respiro d’aria fresca per noi che abbiamo in mente la rockin’ tonite o qualsiasi altra notte di jam session improvvisate. Ma l’esperienza sta per finire e le strade si dividono. Ancora un ep, Jumpin’, pubblicato dalla indipendente olandese Skydog, poi Garvey e McMasters se ne vanno a formare i Motors, Belmont raggiunge i Rumours di Graham Parker e Tyla raggiunge e visita finalmente gli USA dove fonda la Tyla Gang. Nel 1979 un'altra indipendente olandese, la Dynamite, pubblica Last Night of a Pub Rock Band, doppio LP registrato live al 100 Club di Londra il 1 luglio 1975, epitaffio sonoro della band che regala di nuovo alle nostre orecchie la magia del pub rock.
Poi Ducks Deluxe finì per l’ultima volta e disse "attraversiamo la strada". E tornò a casa.
zio René
Per chi volesse approfondire il tema pub rock, mi permetto di consigliare la lettura di No Sleep Till Canvey Island: The Great Pub Rock Revolution di Will Birch (ex Kurssal Flyers e Records) edito da Virgin Books (6 aprile 2000) e purtroppo solo in inglese. Il testo è molto ben scritto e importante per capire il fenomeno.
Mi permetto anche di consigliare, per avere un panorama completo della diversa articolazione musicale del fenomeno, l’ascolto dei seguenti dischi :
Eggs Over Easy – Good’n’Cheap (A&M 1972)
Brinsley Schwarz – Fifteen Thoughts of Brinsley Schwarz (UA 1978)
Bees Make Honey – Music Every Night (EMI 1973)
Chilli Willi & the Red Hot Peppers – Bongos Over Balham Mooncrest (1974)
Dr. Feelgood – Stupidity (UA 1976)