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venerdì 26 febbraio 2021

Un venerdì da single: febbraio 2021


Ultimo venerdì del mese, ecco a voi la puntata di febbraio!


Graditissimo ritorno per la nostra banda indie pop danese preferita. Dopo due album magnifici e una sfilza di singoli - l'ultimo, Space & Time, pubblicato proprio lo scorso anno - la ciurma capitanata da Rick Kingo riappare sugli schermi con Bonsai Tree, splendida canzoncina intarsiata di ammalianti arpeggi che se vi spacciassero per una traccia rimossa all'ultimo dalla versione definitiva di "Woodface" dei Crowded House, beh, potreste anche crederci. In attesa del degno seguito di "Salty Taste To The Lake", un altro bell'esempio delle capacità di scrittura pop in dote al quintetto. Non che ce ne fosse bisogno, visti i precedenti.

Hayley and The Crushers "Fun Sized"

Qual era il nostro ineludibile motto? Se in un disco sono contenuti un massimo di sei pezzi, allora è un ep. Qui la cosa si complica leggermente: sei pezzi, sì, ma non un ep vero e proprio. Non di nuovo conio, perlomeno. I californiani Hayley And The Crushers hanno provato a rallegrare il mesto 2020 con una serie di singoli, e tali singoli sono stati raccolti in un unico ep dall'onnipresente e benemerita Rum Bar Records: ragioni sufficienti a garantire a "Fun Sized" diritto di alloggio in questa rubrichetta. Contravvenendo alla regola aurea secondo la quale non si deve giudicare un libro - in questo caso, un disco - dalla sua copertina, Hayley e combriccola saltano, sudano e ballano eccentrici sulla grafica e negli irresistibilmente spensierati contenuti. Rock'n'roll al femminile con una bella spruzzata di bubblegum-punk che farà uscire di testa i fanatici di Bangles, Shivvers e - perché no? - Blondie. La sapiente cover conclusiva di Suzie Is A Headbanger infiocchetta una raccolta di quarantacinque giri che trasformerà il vostro grigio salotto nella più luminosa sala da ballo della zona.

West Coast Music Club "Thinkin'" / "Long Goodbye"

Collettivo formato attorno alla necessità di suonare i brani composti da Martin Adams, i West Coast Music Club arrivano dalla costa occidentale d'Albione, ma suonano come se avessero terminato con profitto un master di specializzazione jangle sulla costa ovest degli Stati Uniti meridionali. Oppure, se preferite, come chi, nell'Inghilterra della C86, filtrò tali sonorità chitarristiche attraverso i concetti dell'allora nascente scena indie. E allora dovremmo esserci intesi: i due singoli, entrambi digitali, l'uno uscito alla fine dell'anno scorso (Long Goodbye), l'altro all'inizio del 2021 (Thinkin'), suonano tiepidi e profondi come tiepidi e profondi suonavano Bodines e Weather Prophets avendo assimilato la prolusione di Roger McGuinn. Nel corso del 2020 i West Coast Music Club hanno rilasciato anche un album lungo intitolato "Greetings From Ashton Park, West Kirby", che abbiamo scoperto in ritardo ma nondimeno vi suggeriamo caldamente.

The Kavanaghs "Going To The Beach"

Il quartetto da Rosario, Argentina, è già passato da queste pagine. Quando? L'altro ieri. Era il 31 marzo 2009, come vola il tempo quando ci si diverte. All'epoca magnificammo l'omonimo "lungo" d'esordio uscito per Eternal Sunday Records, definendolo uno studio certosino del mid-period beatlesiano filtrato dall'esperienza di chi ha vissuto quarant'anni dopo, e che dunque ha assimilato le lezioni impartite dagli eredi dei Fab Four. In qualche modo il discorso continua a reggere se ascoltiamo questo nuovo singolo a due tracce: la title track è uno spaccato power pop settantesco d'ispirazione Raspberries versione "Starting Over", mentre nel lato B i ragazzi hanno direttamente optato per l'interpretazione di un classico: la convincente versione di Whenever You're On My Mind del sommo Marshall Crenshaw dice molto dei gusti, della storia e degli ascolti di un manipolo di ragazzi da tempo incamminati sulla retta via. A questo punto ci aspetteremmo un altro LP a breve, se possibile.

The Poppermost "A Piece Of The Poppermost"

Quando si parla di pop music Glasgow resta sempre al centro della scena. Questa settimana vi abbiamo già parlato del pregevole terzo disco degli Eisenhowers, pure loro appollaiati sulle rive del fiume Clyde, e adesso, spostandoci di pochi isolati, cogliamo l'occasione per presentare l'ep d'esordio dei Poppermost. Se gli Eisenhowers sono una band-non-band, un manipolo di musicisti che di tanto in tanto accorre a sostenere la leadership in sostanza solitaria di Raymond Weir, i Poppermost rappresentano il progetto totalmente solista di Joe Kane, il quale, per l'appunto, ama definire la sua creatura "Thee Fab One". Voci, chitarre, bassi e batterie a suo esclusivo appannaggio, e quando di "fab" trattasi, già sappiamo dove andremo a parare. "A Piece Of The Poppermost" è un sublime dischetto di quattro pezzi ovviamente retro-beatlesiani, ispirati al luminoso periodo in cui il discreto quartetto di Liverpool gettava i semi della propria storia. Pura Beatlemania degli esordi, un concentrato di proto-Mersey '61-'63 che di certo non farà storcere la bocca nemmeno al purista più intransigente. Gli album 2020 di Weeklings, Beatophonics e Overtures avevano dato il segnale: quelle sonorità stanno tornando in forze. I Poppermost sono qui per perpetuare la recente tradizione.

Stephen's Shore "Brisbane Radio"

Quando Julie Fowler del meraviglioso blog "Colours Through The Air" (link qui a fianco) parla, noi ci mettiamo attenti ad ascoltare. La dritta sugli svedesi Stephen's Shore ce l'ha data lei, ed è una gran bella dritta. "Il loro ultimo album September Love - ha scritto - è stato più o meno tutto quello che ho ascoltato nell'estate di due anni fa, quindi attendevo con ansia il nuovo ep". Attese e ansie ben riposte, possiamo dire. Svedesi, gli Stephen's Shore hanno da pochissimo rilasciato un ep di quattro pezzi in cui l'immane lezione dei Byrds è perfettamente intersecata a delicati elementi dream pop di natura eterea e melodiosa, esposta con precisa dovizia di chitarre jangle e pervasa da concetti ideologici folk perfettamente intonati alla materia. Brisbane Radio, la traccia che dà il nome al mini, e soprattutto Up To No Good sono magnifiche e melanconiche gemme d'ispirazione Sarah Records, con l'altrettanto commendevole Midvert nelle vesti di fiocco strumentale di gran classe. Qui al quartier generale di UTTT divoriamo quotidianamente jangle, e siamo felici come bambini di approcciare il weekend godendo di una bellissima scoperta.

mercoledì 24 febbraio 2021

Disco del Giorno: The Eisenhowers "Judge A Man By The Company He Keeps" (2021 - autoprodotto)

 


Gli Eisenhowers non sono una band nel senso stretto del termine, ma un nucleo sparso di musicisti che di tanto in tanto si ritrovano per supportare le creazioni di Raymond Weir da Glasgow. Il suddetto Weir è contumace da un po', e il progetto Eisenhowers impolverato da tempo immemorabile. Terzo disco di studio sotto lo pseudonimo riferito al trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti d'America, "Judge A Man By The Company He Keeps" arriva addirittura dodici anni dopo "Film Your Own Atrocities", e non sappiamo di cosa si sia occupato Raymond nel frattempo. Di sicuro con le mani in mano non è stato, la prova di ciò ritrovandosi nell'oggetto di questa trattazione. Senza che fosse necessario domandarglielo, egli ha confessato le proprie influenze sulle pagine web di riferimento, eleggendo David Bowie, Elvis Costello e gli Steely Dan a eroi personali: avendo ascoltato l'album prima di leggerne le note stampa, dobbiamo dire che qualcosa sospettavamo.


I sofisticati e multiformi intrecci sonori che disegnano il disco, i ponderatissimi arrangiamenti e le straordinarie scelte di produzione adottate accompagnano il peculiare lirismo di Weir, pronto a esplodere nei quadretti descrittivi e a trasudare dai bizzarri personaggi che lo popolano. I Like Your Girlfriend, tratteggio dell'emblematica celebrità TV avvezza a sfruttare la propria posizione per accalappiare le ragazze, stupisce subito con l'attacco in levare e il suo incedere ondivago ma sempre in qualche modo legato alle migliori istanze del folk caraibico, che poi sarebbe lo ska. All'altro capo del disco, per iniziare a intuire che nel mezzo ci si può aspettare di tutto, The Joker And The Penguin vagheggia blues, e Read My Lips è una bellissima canzone country rock. Il cuore fondente dell'album conserva le gemme più pregiate e in qualche modo omaggia gli idoli sopracitati. Prendete My Gang, più Joe Jackson di Costello, se possiamo, ma sempre di angry young men trattasi.

 

Il brano narra di un politico ambizioso e incapace di sfuggire al suo essere polarizzante, e la storia che segue è ancor più avvincente: Mr McIntosh Has Left The Building, analisi dei pensieri di un impiegato al suo ultimo giorno di lavoro, rappresenta un chiaro richiamo - tanto musicalmente, quanto nel ritratto del soggetto - al Well Respected Man descritto da Ray Davies, e si erge a punto topico del lavoro. Tuttavia, questo scritto non potrebbe considerarsi completo se in sua conclusione non citassimo anche l'omaggio al Duca Bianco regalato dalla bellissima And Then He Flew Towards The Sun e il curioso finale proposto da 3 O'Clock On A Saturday, sentitissima ode al calcio scozzese in cui voci di svariati personaggi citano altrettanti stadi simbolo delle divisioni nazionali. "Judge A Man By The Company He Keeps" è un classico esempio di album che potrebbe non cogliere nel segno al primo ascolto. Ogni tanto capita, soprattutto quando si ha a che fare con scelte del genere, e di tutto trattasi fuorché di un difetto. Vietate le distrazioni, dunque: nel corso di dodici, lunghi anni gli Eisenhowers hanno saputo comporre dodici canzoni che non basta ascoltare, ma urge leggere.

sabato 20 febbraio 2021

Disco del Giorno: Rich Mattsson & The Northstars "Skylights" (2021 - Poor L' Amour Records)

 


Essendo il celebrato titolare dello studio Sparta Sounds e avendo guidato, o guidando tuttora, svariate bande del calibro di Tisdales, Bitter Spills e Glenrustles, Rich Mattson è una vera istituzione nella florida scena di Minneapolis. Con i Northstars l'idea originaria sarebbe stata quella di imbastire un disegno folk cosmico, naturalmente senza tralasciare le istanze d'istinto jangle americano che hanno caratterizzato le sue esperienze precedenti in gruppo. "Skylights", il quinto album lungo delle stelle settentrionali, è frutto prelibato di americana circolare, e si nota che il signor Mattson ha ascoltato i dischi giusti. Si sentono Neil Young e David Crosby, i Buffalo Springfield, Jeff Tweedy e persino certi Jayhawks. Sia chiara una cosa, ci teniamo: riferimenti alt. country della miglior specie, questo sì, ma l'album è segnato da un tratto assolutamente originale, e il merito è in parte da ascrivere a Germaine Gemberling, la quale, dividendo il microfono con Mattson, è ampiamente in grado di creare sinuose melodie lui/lei che definiremmo notevoli.


L'idea all'origine della creazione della band - il folk astrale, ipse dixit - pare realizzata in modo più che soddisfacente nell'apertura affidata a Death Valley, ma non si pensi a una divagazione eccessivamente spaziale: la forma canzone è infatti ben presente nel quadrato di un'americana appassionante nel suo incedere impellente. Le atmosfere western di Against The Wall, la criptica ballata Kiss The Sky nonché il grazioso jangle di In Flight spolverano le più frequenti reminiscenze stilistiche del gruppo, ma è nella sequenza centrale Another Stupid Song - Processing (altro grande impatto della signorina Germaine Gemberling!) - Just Telling Stories, imbevuta di sublime americana springfildiana, che quartetto dà il meglio di sé, dimostrando di sentirsi a proprio estremo agio nel maneggiare la materia.


I rimandi Eric Burdon di How Can It Be? Un'ulteriore perla folk come Morbid Fanatic e il romantico spaccato cantautorale di King By Now concorrono a impreziosire, qualora se ne sentisse ancora la necessità, un disco i cui chiari ispiratori sono inseriti in una sceneggiatura personale e fortemente ispirata. Non è un mistero che qui a UTTT siamo grandi fan di certo country alternativo e della miglior americana: "Skylights" è una pregevole aggiunta alla nostra collezione.

mercoledì 10 febbraio 2021

Disco del Giorno: The Stan Laurels "There Is No Light Without The Dark" (2021 - Big Stir)

 


Che giorno è oggi? Il dieci febbraio? State scherzando? No. Alla fine dell'anno mancano ancora dieci mesi e mezzo, ma i grandi dischi 2021 stanno iniziando a fluire copiosamente, almeno nel reparto che ci riguarda da vicino. Lo so, diciamo così tutti gli anni, ma se siamo fortunati non è colpa nostra. Merito, piuttosto, di una serie di artisti e band che concorrono ad affastellare l'amata plastica sulla nostra scrivania, rendendoci felici. La Big Stir Records da Burbank, California, è una delle cinque migliori etichette sul globo terracqueo, non lo scopriamo certo oggi, e il supporto inesausto che Rex e Christina garantiscono all'universo del pop underground è sul commovente andante: iniziato l'anno nuovo in quarta con una manciata di ottimi singoli del venerdì, la label ha subito tenuto a mettere in chiaro che il 2021 sarà un altro anno con i fiocchi, dando il disco verde a una serie di album che qui tratteremo mano a mano.

Il primo è "There Is No Light Withouth The Dark", quarto disco di studio firmato dagli Stan Laurels. "Dagli", preposizione articolata forse inopportuna, dal momento che dietro al nomignolo si cela, solitario o poco più, l'autore con base ad Austin John Lathrop, giunto al quarto lavoro di studio a due anni di distanza dal precedente "Maybe". Se dobbiamo essere onesti, e ve lo dobbiamo, scopriamo gli Stan Laurels con la dovuta perizia soltanto ora, ma se il catalogo arretrato si avvicina a questi livelli di qualità dovremmo correre a recuperare il tempo perso. "There Is No Light Withouth The Dark" è un ammaliante disco di pop rock emozionale ed emozionante, altamente personale, condito da testi raziocinanti e da una notevole varietà, pur nella consapevolezza esplicita di alcuni chiari punti cardine. 

L'attacco è affidato a Florida Man, già discretamente esauriente, se non esaustiva, in relazione a ciò che caratterizzerà bene o male l'album fino al suo termine: melodie angolari, voci eteree e il fruttuoso contrasto tra armonie brillanti e testi privati, introspettivi, non sempre luminosi. Il brano, peraltro, tiene a fissare un altro dogma seguito da Lathrop in maniera pressoché pedissequa: quello che impone continui cambi di panorama, velocità e atmosfera, anche a distanza di un ritornello, un giro, una strofa, per rifinire i dettagli di un lavoro di grande interesse. Tomorrow, a seguire, è una perla che non ci vergogniamo di definire post-pop, in cui il ritmo pressante fa da tappeto insieme alle chitarre ora docili, ora intense, alla peculiare voce trasognata di John. 


Lost & Found è forse il pezzo migliore del lotto, il potenziale singolo, anche se la scelta si presenta quanto mai ostica. Il pericoloso ma riuscito tentativo di combinare elementi new wave pop con chitarre college resta memorabile, anche grazie alla grandiosa melodia che tracima come crema pasticcera rovente da una boule di cioccolato. Il grandioso brano è teatro di improvvise accelerazioni e rallentamenti, che insieme allo storytelling disperato e sparso di Lathrop creano un immaginario quasi emo: emo di prima categoria, lontano dai vagiti deteriori che hanno connotato negativamente il termine negli ultimi vent'anni.


"There Is No Light Without The Dark", in generale, è un album pieno di eventi sorprendenti: November parte per un viaggio folk-pop adornato da opportuno pianoforte per culminare in una travolgente cavalcata chitarristica finale; Of Love, Wine, And Song è una poderosa traversata post-rock, sì, ma setacciata da un vaglio espressamente debitore di certa wave d'annata; Red-Handed Puppet in principio sussurra jangle ottantesco, poi le chitarre ululano di poderoso crunch mentre la voce totalmente angelica di John richiama quel pop vocale su crumble al nandrolone che tanto ci ha fatto amare i purtroppo mai esplosi Second Saturday.


L'ultima fase del tragitto è segnata dalle sei corde prorompenti di Mo Collins, spaccato college rock dedicato alla nota attrice e aggraziato da un gradevole piano che fa molto Fastball, e della finale This Is Your Life, costruita sul sempre affidabile uno-due distorsore generoso/linea di moog vincente. Speriamo di aver reso un'idea, almeno vaga, di quello che vi aspetta nel viaggio. "There Is No Light Without The Dark" è un disco intelligente, con l'imprevisto sempre dietro l'angolo, ben suonato, ben arrangiato, e colmo di intuizioni interessanti. Potrebbe aver bisogno di tempo per crescervi addosso, ma non è detto. Una chance dovreste dargliela, siamo abbastanza tranquilli nel consigliarvelo.

mercoledì 3 febbraio 2021

Disco del Giorno: Rob Clarke & The Wooltones "Putting The L In Wootones" (2020 - Kool Kat)


Ne parliamo con un pizzico di ritardo, il disco essendo uscito la scorsa estate. In ogni caso, i più attenti lo avranno già capito, siamo al cospetto di una band che ha concluso con profitto la preparazione dell'esame di storia classica. Siamo a Woolton, dintorni di Liverpool, sobborgo dove, nel 1957, avvenne la prima collisione tra John Lennon e Paul McCartney. Il resto della vicenda dovrebbe essere piuttosto noto. Rob Clarke non ha incontrato né John né Paul, ma si è fatto bastare i Wooltones per creare un disco sì innamorato del Merseyside, ma che non disdegna affatto alcune capatine nella psichedelia americana degli anni sessanta, meglio se sulla costa occidentale.
 

"Putting The L In Wootones", come ormai dovrebbe essere chiaro, pesca a piene mani dal repertorio Beatles prima che i Fab Four firmassero contratti discografici, dal suono che allucinava le giovani menti a San Francisco dopo il 1966 e dal miglior rock'n'roll d'annata. Scrittore e analista sociale di un certo livello, Rob Clarke concede disimpegno ma pretende attenzione. L'apertura e la chiusura dell'album, rispettivamente affidate a Big Big Bad Bad John (che in coda si trasforma in un accorato "Big Bad Boris") e ad Alright! disperdono ognuna con il proprio stile schegge d'attacco al potere costituito, con particolare attenzione ai simboli costitutivi del fatidico impero britannico, scherzosamente rampognato nel corso dello spoken word pregno di luoghi comuni fanciulleschi di Countdown.


La summenzionata Big Big Bad Bad John, fomentata da una claustrofobica armonica, squarcia l'aria con i suoi guasti riff rhythm and blues di affannoso respiro Bo Diddley/ Duane Eddy, mentre la successiva Love And High emana luminescenze west coast e suadenti cambi di panorama. Adrian Henri, primo singolo del disco, è una delizia in cui le perfette melodie sixties pop sono messe in risalto dal contrasto con improvvise saettate fuzz: il grande poeta nato a Birkenhead ne sarebbe orgoglioso. I Fab Four pre-successo planetario, ma fors'anche prima della partenza direzione Amburgo, appaiono nel commendevole lentone The Forecast Near You e nella più celere Two Lane Blacktop, laddove Statue At The Pier Head si cala volentieri nella ghiotta zuppa Nuggets di Seeds e Third Men.


Nell'album non mancano gli azzardi, seppur costantemente riferiti alla materia classica, così Free pare un oscuro outtake di Strange Days. Tuttavia, le cose migliori rimangono legate alla comfort zone, valga come ultimo esempio il tenerissimo mid-tempo in salsa jangle-Beatles di It's Only You, sistemata alla penultima curva del disco. Poco di nuovo sotto il sole, ma questo blog non è stato pensato per parlare di avanguardie. E i classici occorre saperli capire, prima di poterli citare.