domenica 31 marzo 2024

Marc Valentine "Basement Sparks"



Marc Valentine ha l'aspetto un po' così, un po' Stiv Bators, e già questo è di buon auspicio. Non solo l'aspetto, peraltro, se ascoltiamo attentamente Strange Weather, traccia numero sette del nuovissimo "Basement Sparks": magari sognando, probabilmente idealizzando ma infine, ecco, non discostandoci troppo dalla realtà, la timbrica vocale in qualche modo rassomiglia quella dell'eroe nell'epoca "LA LA".

Scritturato dalla Wicked Cool di un Little Steven evidentemente folgorato dal predecessore "Future Obscure", Marc Valentine è uno degli autori più consistenti della scena, ammesso ne esista ancora una. "Basement Sparks" è il frutto di un artista di Norwich, ma il disco, figlio del combinato disposto tra riff di chitarre spesso intensi e voci zuccherose post-teenegeriali ha i connotati di un prodotto palesemente americano, sebbene non manchino contaminazioni est-atlantiche perlopiù riferibili a certo UK glam anni '70. Per dirla in altri termini, la sensazione è quella di un combo inglese che abbia metabolizzato le sacre dispense Poptopia e Yellow Pills: un esempio in tal senso sembra ben reso dall'apertura affidata a Complicated Sometimes, la quale pare un estratto di "Moustache", il disco d'esordio dei leggendari Farrah.

Skeleton Key e Strange Weather hanno i cori contagiosi che si sprigionano con inaspettate melodie dai riff corpulenti dei Marvelosus 3, e nel frattempo You Are One Of Us offre gli ormai (nostro malgrado) desueti stoppati nella strofa che spesso costituirono simbolo araldico del grande Paul Collins. Le divagazioni sulla trama base non mancano: così Ballad Of Watt e 3AM Anderson Drive sono ballate intriganti dal retrogusto anche un po' britpop, Tyrannical Wrecks incorpora un pizzico di sporcizia garage e Repeat Offender, nettamente debitrice di certa new wave dal Regno Unito, spariglia  le carte con prelibati stacchi para-reggae dal sapore Police.

I Wanna Be Alone riporta alla memoria certo pop USA che, nolente, è rimasto stipato negli scaffali dei grandi magazzini sotto il cartellone dell'alternative a metà prezzo ma avrebbe voluto (e potuto) essere radiofonico, e a un primo ascolto ricorderà agli appassionati le migliori opere di Copperpot, Rocket Summer e Jack's Mannequin, mentre le melodie irresistibili di Eve Of Distraction (titolo ingegnoso se ce n'è uno), foraggiate da tastierine apparentemente prese in prestito da "Panorama" dei Cars, chiariscono definendoli i tratti somatici di un disco che ogni appassionato di power pop anni '90 - pur sempre l'epoca storica in cui sembrava che qualcuno dei nostri ce l'avrebbe fatta - dovrebbe mettersi in casa, esultando di fronte a una speranza di un mondo migliore destinata a non morire mai.


domenica 17 marzo 2024

On The Runway "Tell Yourself It's Pretty"


David Norris è stato il motore principale di un gruppo power pop chiamato Crash Into June, attivo tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, e non dovesse sovvenirvi istantaneamente la citazione suggeriamo un urgente ripasso dei classici. Francamente ignorando come Norris abbia impiegato il proprio tempo negli ultimi vent'anni, festeggiamo l'agnizione manifestatasi sottoforma di una nuova band. On The Runway, da Memphis, Tennessee, provocheranno un sorriso nostalgico e compiaciuto in chi, molti anni fa, si è formato ascoltando di straforo le primissime college radio americane. "Tell Yourself It's Pretty", per l'appunto, è un disco giocato sulle diverse consistenze del jangle rock che negli anni '80, specie grazie a quattro ragazzotti di Athens, Georgia, è sembrato per un istante poter fare la voce grossa nelle classifiche. E allora, gli appassionati sanno dove stiamo andando a parare. 

La vena aurifera della musica indipendente diffusa dalle radio indipendenti nel sud degli Stati Uniti non restituiva nulla di scontato, da qualsiasi punto si osservassero le molte sfaccettature di un genere troppo spesso considerato dagli osservatori generalisti una mera e continua riproposizione degli stessi quattro arpeggi. Sono passati anni, ma gli eredi di quella storia ancora operano nella penombra, per ricordare ai più giovani che lo studio di Windbreakers, Church, Db's e Miracle Legion (non parlavamo forse di diverse sfaccettature degli 80's devoti alle chitarre?) non si traduce mai in tempo perso. In questo senso, "Tell Yourself It's Pretty" si offre come utilissimo Bignami, peraltro messo insieme da un tizio che le canzoni le sa scrivere molto bene, ché poi è il fattore decisivo per nobilitare non solo il jangle rock, ma qualsiasi forma d'arte preveda l'utilizzo di una penna.

 

Loser Of The Year e Bring Yourself Down, opportunamente poste in apertura e chiusura dell'album, suonano come coerenti manifesti di quanto scritto finora; due canzoni inzuppate di jangle sudista che avrebbero fatto una figura eccellente nella programmazione delle emittenti universitarie USA dell'epoca. Consolation Prize e This Will Be Your Year giocano su un doppio livello: un riff memore della potenza cristallina - che già di per sé è un ossimoro ma neanche troppo - dei Gin Blossoms a prendere il centro della scena, mentre a reggere la struttura dolci cascate di fragili arpeggi jangle si intrecciano nel sottofondo. Stuck On You, che trascinata da una melodia memorabile è forse il brano più vicino ai Crash Into June di "Another Vivid Scene", a tratti ricorda la grazia scintillante dei Church, mentre Lifeline, riff da circoletto rosso, spolvera il ricordo dei Teenage Fanclub del secondo periodo, quello di "Howdy!", per farci capire. 

 

I Teenage Fanclub, spesso citati a sproposito quando ci si riferisce a un certo sottogenere di pop chitarristico, sono invece un esempio perfetto per inquadrare la meravigliosa This Charade, melanconica e con gli occhi umidi, che sarebbe potuta stare su "Man-Made", così come i primi R.E.M. non possono non essere tirati in ballo parlando di House is Not a Home, altra perla di un disco che sarà  vera e propria manna per chi dal jingle jangle diffuso nel sud-est degli Stati Uniti quarantacinque anni fa è stato (e rimasto) irrimediabilmente segnato.


venerdì 15 marzo 2024

Mark & the Clouds "Machines Can't Hear You"

 


Si legge il nome di Marco Magnani e si sa a cosa si va incontro. Non si ricordassero i dati anagrafici, del resto, basterebbero le copertine. Marco da Bologna, già negli Avvoltoi a cavallo degli anni '90 ma residente a Londra da ormai numerosi anni, nel tempo si è costruito una solida carriera d'affidabilissimo menestrello psych pop. Tra i più continui e dotati autori nel sempre stipato stanzone sixties-revivalista, Magnani ha avvicinato l'apice della scena intorno alla metà del primo decennio del secolo, quando fondò i folgoranti Instant Flight che, oltre a un disco di debutto divenuto un sottoclassico di genere, di lì a poco si misero a giare con Arthur Brown, simbolo e leggenda di un'epoca e della trasposizione postuma della stessa.

Mark & the Clouds, trio che al fianco di Magnani schiera l'ex Instant Flight John O'Sullivan e Shin Okajima, sono arrivati al quarto album della carriera mantenendo la barra dritta e i gioielli di casa sempre ben riconoscibili. "Machines Can't Hear You" in qualche modo prosegue sulla strada tracciata dai predecessori "Blue Skies Opening" (2014), "Cumulus" (2016) e "Waves" (2021), offrendo al preparatissimo ascoltatore una rassicurante miscela di pop psichedelico con giacca floreale e pantaloni a strisce, eterei frammenti folk e alcune spericolate cavalcate quasi progressive. Abbastanza per soddisfare i cultori della materia, anche quelli più ortodossi, come sempre, ma le essenze pop nebulizzate qui e là, più frequentemente e con maggior ispirazione rispetto alla discografia antecedente, permettono all'album di ingranare una marcia superiore e di rimanere costantemente vivo nonostante la considerevole lunghezza (17 tracce).

Tanto vale rafforzare il concetto, dunque: i pezzi più strettamente pop della combriccola, ossia Swearing At The Moon con il suo incedere prossimo ai territori UK beat, Walking Dead Man dalle atmosfere colte dei primi REM e soprattutto l'indimenticabile Graves For You And Me, jangle pop adesivo come al meglio del genere può capitare, rappresentano tre decisi salti in alto propedeutici a un cambio di status di un album altrimenti destinato a rimanere un buon album di genere. Non che si vogliano mettere in discussione approccio filologico, interpretazione della materia cantautorale e capacità scrittorie di Magnani, che anzi conosce i suoi polli e sa maneggiare benissimo la sostanza sixties folk. Ma lo preferisco colorato e giocatore d'azzardo quando in What Can I Do? associa il Donovan di Barabajagal ad alcune spericolate chitarre fuzz, piuttosto che stretto nel confortevole paltò del crooner folk - bravo, bravissimo, per l'amor del cielo! - che aleggia durante Underground e Soul Of Nature, anche se gli arrangiamenti di archi nella prima e d'ottoni nella seconda sono certamente azzeccati.

 

Cercando altrove, meglio lo stupendo pop psichedelico alla Tomorrow di The Sun Goes Down del tentativo classic rock di The World Is Falling, un po' Come Together, un po' southern blues. La passione per il cantautorato folk di Magnani brilla quando è associato a costumi psichedelici e certamente l'assunto è comprovato dalla finale Two Minds In My Head, mentre le pulsioni prog, appena abbozzate in The Shadow e liberamente sfogate nel corso di The Age Of Clowns (undici minuti!) le lascerei valutare a qualcuno più competente di me sul tema. 

 

"Machines Can't Hear You" è un disco che ingrana la quarta quando non teme di lasciar scorrere liberamente la propria vena melodica, oppure il suo spirito paradossale. Succede in circa la metà dei pezzi, che meritano un gran voto. L'altra metà, per buona parte abbondantemente folk solo a tratti lisergico e per il resto acidognola e persino progressiva, soddisferà soprattutto gli appassionati più legati a quelle sonorità. Nell'insieme, un disco godibile nel complesso e a tratti eccellente. Ognuno ha le proprie preferenze, e naturalmente anche noi le nostre, ma obiettivamente Magnani la materia la conosce e la sa trattare. Avercene, di divulgatori così.

mercoledì 13 marzo 2024

Liquid Mike "Paul Bunyan's Slingshot"



Ho avuto modo di ascoltare l'omonimo album di Liquid Mike lo scorso anno. A differenza della stragrande maggioranza dei dischi omonimi che conosco, quello di Mike Maple da Marquette, Michigan, non era affatto un album d'esordio, ma addirittura il quarto della serie. Scelta inusuale, che in effetti importa poco. Sarà la città di provenienza, Marquette, luogo isolato per antonomasia, ad averlo tenuto fuori dal giro; non dico dal giro grosso, ma pure dagli ascolti standard di noi aficionados. Qualcuno, molto addentro a un certo tipo di questioni, deve averlo scovato per poi parlarne sui social che, vivaddio, qualche funzione encomiabile ancora la conservano. "Paul Bunyan's Slingshot" non incontrerà per questo i favori delle masse, ma almeno, adesso, se ne parla in giro. E a buona ragione, perché il ragazzo sa quello che fa. 

La materia qui è facilmente classificabile: 13 brani in 25 minuti di intenso, concentrato, reattivo alternative rock con i piedi ben piantati nelle classifiche di genere di 25 anni fa. Molto ispirata nelle soluzioni melodiche, mi azzardo a dire che la collezione, pur tradendo un certo qual debito con alcuni personaggi altamente sospetti, a tratti ne corregge persino i difetti che ai tempi me li avevano fatti apprezzare solo a tratti, o per nulla. Rumoroso, sì; derivativo, anche, ma se a vari stadi avete provato a farvi piacere come vi dicevano fosse doveroso i Dinosaur Jr. oppure i Foo Fighters, scontrandovi, voi amanti delle armonie fatte come dio comanda, con le voci di J. Mascis e Dave Grohl, qui c'è una chiave di volta. Si parla di costruzioni pop, non di paragoni, mi capirete.

Non mi perito di dichiarare che Drinking And Driving ricorda una versione più ristretta, melodica e meglio cantata dei Foo Fighters meno tamarri. Da aggiungere all'insieme dei grandi miti che mai, guardato male da tutti i miei coltissimi amici, sono riuscito a godermi fino in fondo, ci sono le varie esperienze di Bob Mould, del quale, scusate, ho sempre trovato indigesta la voce. Non le chitarre vagamente caotiche e nemmeno - giammai! - l'architettura dei brani; giusto l'impostazione armonica, che stupende saette come Works Bomb, /// e la title track in qualche modo sistemano.

 

Ho invece venerato e tuttora venero Evan Dando, e Town Ease in effetti ricorda una versione più sonica dei Lemonheads, mentre Mouse Trap e Pacer somigliano a degli American Hi-Fi più sporchi e meno presi da loro stessi. Altrove, AM è un lodevole frammento Weakerthans, e la superba Drug Dealer, più collegiale, è una gemma power pop di marca indipendente che ha assorbito anche la lezione dei sommi Nada Surf. 

 

Mike Maple, che nella vita di tutti i giorni fa il postino, nel corso delle tredici tracce narra con grande acume di isolamento, gentrificazione, di estati sprecate e - perché no? - anche un po' d'amore. Notevole, anche quando tutto ammanta di un sapido, caustico umorismo. Così nel corso di K2, che musicalmente ricorda un astuto mix tra i Nada Surf (ancora loro) e una versione più melodica e accelerata dei Built To Spill, a un certo punto della strofa non teme ripercussioni dai legali di Chris Martin mentre recita "You fell down when you passed out / A rush of blood straight to the head / pissed your pants and they were all yellow". Non così raffinato, direte voi. Grazioso, però. 

 

"Paul Bunyan's Slingshot" è un album breve, intenso e soprattutto molto ispirato. Io qualche indicazione ho provato a darla, ma se da questa stramba cornucopia ho pescato Lemonheads, Foo Fighters, Built to Spill e Bob Mould laddove voi riconoscerete Mascis, Jawbreaker e Weezer non ci sono errori di sistema. Abbiamo ragione tutti, è una questione di sensazioni (e indirizzi) globali. E, soprattutto, ha ragione Mike Maple. Da bere tutto in un sorso.

mercoledì 6 marzo 2024

Emperor Penguin "Gentlemen Thieves"



Tornano gli Emperor Penguin, ed è ovviamente una bella notizia. "Sunday Carvey" era stata una folgorazione per noi che già li conoscevamo per merito dello strabiliante "Corporation Pop" di cui a suo tempo parlammo su queste pagine, ma colpevolmente mai avevamo davvero approfondito una discografia ora giunta a sette album in quattordici anni di carriera. Quel disco traboccava effervescenza istrionica molto seventies - ma anche un bel po' XTC metà anni ottanta - con tutte le invenzioni e le bricconaggini del caso, mentre "Gentlement Thieves", disco di nuovissimo conio, sposta l'orizzonte temporale un decennio più indietro. Resta comunque difficile confinare gli Emperor Penguin all'interno di un territorio precisamente demarcato, e se il campo base in questione può dirsi più o meno battere bandiera UK beat, il costrutto generale è si, al solito, molto britannico, ma le influenze spuntano dal nulla e si irradiano verso le più imprevedibili destinazioni.

"Gentlemen Thieves" è un'opera dotta che narra storie di ladri e cita WB Yeates, ma non è un concept album. Le canzoni, come tradizione vuole, si reggono benissimo in piedi da sole, con la solita propensione alla dimensione singolo, almeno potenziale. L'ironia in qualche modo vittoriana pervade il contesto lirico e strumentale, con i soliti numi tutelari Costello e XTC ancora ben saldi nel pantheon.

That's The Worst It Could Happen, con i suoi bizzarri eco, riverberi e persino spruzzate di fuzz cela richiami power pop ante-litteram che occhieggiano alla beatlemania, mentre Silver Apples, con i suoi rimandi letterari, e Three More Years, posta in chiusura di percorso, definiscono le diversità di cittadinanza del suono con azzardate ma riuscite divagazioni di synth in un contesto piacevolmente proto-progressivo.

Eterogeneità che non si peritano di rimarcare Town Called Gone e Driving Blind, più corpulente: la prima strutturata su un disegno angolare da cui scaturisce un grande ritornello secondo un'architettura resa di grande successo dai Guided By Voices; la seconda, sempre caratterizzata da un lussuoso chorus, lambisce addirittura i territori di certo glam rock anni '70. Sonnez Les Matines, audace, parte con giro simil-reggae e viene trasportata da bassi compulsivi verso una sorta di eastern dance americana miscelata a certo madchester sound, e la strepitosa Pipistrelle è una gemma che evoca l'idolo Partdrige ornata da un astuto toy piano.

 

I libri classici del retroterra sciovinista britannico vengono ripassati nelle dispense titolate The Persuaders, traboccante dalla stretta intercapedine che separa Rubber Soul da Revolver, e You And Me, che sembra invece un outtake di Sgt. Peppers's con i suoi arrangiamenti a base di corni.

Disco eccezionale, sì, ma non sono ancora stati citati gli episodi migliori: uno di questi emana dalle chitarre tormentose e dalla batteria rotonda di Ladybird, grande power pop per palati fini; gli altri due dalla compartecipazione della solita Lisa Mychols, la quale eminentemente duetta con la voce di un preteso ma credibile Evan Dando intento a coverizzare Costello nel corso di I Would't Point It Like That, d'ispirazione vagamente jangle, e poi evoca la dea Kirsty MacColl nella lievemente psichedelica You Are My Atmosphere.

   

La manifesta idolatria per le prodezze musicali britanniche comprese tra il primo e il secondo Impero non si tramutano mai nella copia carbone di qualcos'altro. Le evidentissime capacità compositivo-scrittorie e il solito coraggio nel prendere la tangente imprevista fanno di "Gentlemen Thieves" un altro grande album degli Emperor Penguin, che ci permettiamo di pronosticare molto in alto in parecchie classifiche di fine anno, quando arriverà il momento.

Kool Kat | Bandcamp