venerdì 26 aprile 2024

Jeremy "Footprints"

 



Jeremy Morris non è un signore che frequenta la scena: egli è uno dei pochi che la scena, ammesso e non concesso ce ne sia una, la sostiene. Vera e propria architrave del pop indipendente del midwest, Jeremy è autore prolificissimo, chitarrista virtuoso ma non autoreferenziale (memorabile lo show a cui ebbi la fortuna di assistere al Cavern Club di Liverpool una decina di anni fa) e proprietario di un'etichetta, la Jam Records, che negli ultimi trenta e più anni ha divulgato alcuni tra i migliori artisti power pop del globo (Phil Angotti, Ed James, Lolas, solo per citarne alcuni). "Footprints" dovrebbe essere il cinquantaduesimo album di una carriera solista iniziata nel 1984, ma potrei aver perso il conto pur astenendomi dal considerare nell'addizione le numerosissime collaborazioni: se di Robert Pollard ce n'è uno, Jeremy ha comunque sempre avuto un bel passo.

Il nuovo disco, che peraltro esce in contemporanea al nuovo Lemon Clocks di cui Jeremy è parte integrante e del quale vi renderemo conto nelle prossime settimane, è incentrato sul classico pop psichedelico a tinte lennoniane tipico dell'autore, ma il livello generale è quello dei tempi più ispirati. Le quindici tracce formano un nuovo compendio redatto dall'artista di Kalamazoo sull'essere felici, sul vivere la vita in modo positivo, sulle gioie della solidarietà sociale e insomma, sul sostegno tra esseri umani in generale. Soggetti che potrebbero sembrare banali, ma che in fondo in molti si rifiutano di affrontare, se addirittura non se ne vergognano.

Il suono è da subito quello che ci aspettiamo da un disco di Jeremy, già dall'apertura affidata alla Byrdsiana Everlasting Friend, pronta a calare l'ascoltatore nelle viscere della materia lirica e sonica. Won't Let You Down, Lay Your Burden Down e Feels Like A Dream sono piccoli spaccati di pop psichedelico non disdegnanti escursioni acide negli assoli, mentre piano - anche elettrico - e sintetizzatori dominano My Friend, ovattata nel suo soffice hippismo sessantottardo, e Life Is What You Make It.

Il clima, generalmente rilassato e delicatamente emotivo ancorché psichedelico, si surriscalda durante l'esecuzione di Heaven To Pay, segnata da un solo piuttosto impegnativo, ma torna subito docile e avvolgente nella title track - ballata alla Penny Lane che si giova di un perfetto arrangiamento per ottoni oltreché di un coinvolgente epilogo reiterato - e nella fatalista chiusura folk-psych This Is Our Destiny. Destino che non sappiamo cosa ci riserverà: una delle poche certezze è un prossimo, nuovo album di Jeremy. Di sicuro tra non molto tempo.

Jam Records | Amazon Music


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