giovedì 27 giugno 2024

MOOON "III"


Finora è stato un anno niente male per i gruppi a conduzione familiare. I fratelli D'Addario, come tutti sanno, hanno messo insieme quello che con ogni probabilità sarà uno dei migliori album del 2024: vero, direte voi, ancora non ne avete parlato. Rimedieremo, forse, non promettiamo niente, ma "A Dream Is All We Know" verrà ricordato per molto tempo a venire, se non addirittura preso a esempio di un determinato stile. Vette altissime, ma anche i fratelli De Jong tendono a dire la loro. 

"III" è ovviamente il terzo disco di studio della saga MOOON, ed è un altro commendevolissimo esempio di come si possa pervicacemente rimanere adesi agli stilemi beat, garage e psichedelici del compendio "Nuggets" risultando nondimeno freschi e ingegnosi. I fratelli Tim e Gijs, accompagnati dal cugino Timo Van Lierop, scandagliano il repertorio dei classici di genere ed escono dagli archivi con undici pezzi per quarantacinque minuti di musica rassicurante ma colorata, e a tratti persino rischiosetta.

I MOOON - tre "O" aiutano pure a semplificare le insidiose ricerche in rete - salpano con il beat striato da chitarre jangle di Rainbow Flowers, ed è una grande partenza. Possono ricordare una versione "settantesca" degli Small Faces nel corso del singolo Richard Has A Racecar, e costeggiano pericolosamente da vicino il territorio Who in I Will Get To You. Mr. Albicity e la deliziosa G.A.S. riportano le lancette all'irripetibile era magica del pop psichedelico esaltato dai miti Tomorrow ed Apple, mentre Hurting My Heart e Buy Me A Smile mostrano evidenti connessioni con il Nederbeat dei loro nonni. Il trio riesce a risolvere un bel rompicapo conducendo in porto la strampalata e lunghissima jam basculante tra vagiti prog e jazz You Cannot Know, e con If Only I Knew sforna una gran ballata Macca ornata da godibili arrangiamenti per archi.

"III" è frutto di una co-produzione tra la leggendaria etichetta di Amsterdam Excelsior Recordings (casa, tra gli altri, di Daryll-Ann e Johan) e Soundflat Records, ed è un prelibato omaggio ai suoni beat e psichedelici dell'era d'oro del rock'n'roll pronto ad accompagnarvi in un suadente viaggio lungo l'estate. Anche se deciderete di restare a casa. 

venerdì 31 maggio 2024

Valley Lodge "Shadows In Paradise"


I Valley Lodge, creatura dell'istrionico Dave Hill da New York City, arrivano a cinque. Autore, commediante da stand-up, artista (auto) ironico e pungentissimo, con la sua creatura power pop Mr. Hill nel 2005 regalò alla platea di aficionados uno dei dischi fondamentali del millennio. Ricordo ogni singolo passaggio della vicenda: la presentazione entusiasta di Bruce Brodeen nel classico pezzo dedicato alle novità settimanali sul sito della Not Lame; il conseguente ascolto del sample di un paio di pezzi; l'inclusione nel bimestrale ordine alla leggendaria label/distro dal Colorado; i ripetuti ascolti del medesimo in macchina. C'è stato un momento in cui ho seriamente pensato che il primo, omonimo disco dei Valley Lodge meritasse un posto nella top 10 nella classifica riguardante i migliori dischi power pop di tutti i tempi. Probabilmente esageravo - la vita è fatta di infatuazioni e di momenti - ma quell'album rimarrà nel cuore. Per la storia chissà.

Tra quel disco e "Shadows In Paradise" sono passati altri tre lavori lunghi, tutti caratterizzati da qualità altina, humor affilato e spericolatissime, ma riuscite, linee vocali. Tratti ormai distingubilissimi del patrimonio genetico dei Valley Lodge, ovviamente rintracciabili anche nei brani oggetto dell'odierna sbrodolata. "Shadows in Paradise" ha tutto quello che ci aspettiamo quando di mezzo c'è Dave Hill: canzoni di solidità granitica, melodie di varia foggia immancabilmente appiccicose e quel concentrato di bubblegum, glam, falsetti e armonie vocali spinte che da ormai due decenni ci costringono a un certo qual craving nell'attesa di sue nuove.

Il singolo-apripista Daylights è un sunto del classico suono Valley Lodge tra ganci melodici gravemente additivi, riffoni glitterati e un ritornello esagerato che mi ricorda il Brendan Benson più chitarristico periodo "Alternative To Love". Le stesse piste seguite dalle stupende Doorstep e dall'highlight Out Of Time, bomba a orologeria classica quanto volete ma com'è possibile resistere al botta e risposta del ritornello spiegatemelo voi. Hanging Around vagola su un giro di basso d'ispirazione Michael Dempsey per poi tenere altissimo il filo della tensione nell'alternanza compulsiva tra un delicato pianoforte e chitarroni da sbornia, mentre After School vira su sentieri più hard pop alla maniera dell'ultimissimo Kurt Baker.

Se c'è una cosa che Dave Hill e soci sanno fare benissimo è sparigliare le carte mantenendo una compattezza per nulla scontata: negli arrangiamenti ottanteschi di tastiera che dominano Dyin', per esempio, ma anche nelle ottave altissime agganciate da Hill nel 70's AM radio di Secret Lover, roba che farebbe godere i fan dei Bee Gees dell'epoca ma anche i Gibb Brothers stessi. Qualche conservatore potrebbe chiamarli eccessi, ma non avrebbe ancora sentito Dirty Dishes, che ai vocalizzi ispirati da chi sapete bene aggiunge un'atmosfera retro soul tarata su trame saltellanti che riportano alla mente addirittura i Supertramp. Nel complesso, "Shadows In Paradise" è un altro grande disco dei Valley Lodge tutto chitarre, brillantini e voci clamorosamente impeccabili nonostante le scelte spesso estreme, che farà felici, tutti insieme, i fanatici di Thin Lizzy, Bee Gees, del glam più ammiccante al gusto melodico e del pop rock radiofonico da programma mattutino degli anni '70.

 

martedì 14 maggio 2024

Bruce Moody "Popcycle"

 


"Qualcuno lo chiama power pop, io le chiamo canzoni. Mi piacciono le melodie interessanti, accompagnate da testi che raccontano storie vere". Il neorealista così presentatosi nell'autobiografia di spalla sulla pagina Bandcamp personale si chiama Bruce Moody, un signore impegnato nella musica da una sessantina d'anni che non ha mai smesso di sperare nelle possibilità evolutive della sua passione. Parafrasando la bella intervista rilasciata al magnifico blog Sweet Sweet Music, che qui ci permettiamo di linkare, passando dai primi tentativi di registrazione one take in un garage negli anni sessanta alle quattro piste dei due decenni successivi, fino ad arrivare alle infinite possibilità di sovraincisione che il mondo digitale consente a qualsiasi gestore di home studio un minimo avveduto, egli ha raggiunto la piena gioia nel costruire le proprie canzoni. Ora può abbozzarle e rifinirle e rimetterci mano quando credeva fossero finite perché gli è passata per la testa un'idea nuova durante la notte. L'infatuazione, e anche un po' di positiva smania, per la fase di gestazione delle sue creature trasuda da tutti i pori di Mr.Moody.


Come ogni Dante un pizzico improvvisato, anche Moody ha avuto bisogno di un suo Virgilio per arrivare a maneggiare le nuovissime diavolerie del creato tecnologico: il suo è stato Terry Carolan, più volte lodata guida e compagno di lunghissimo corso che l'ha portato al grande risultato di oggi: registrare un disco in completa autonomia, fatta eccezione per la presenza di alcuni graditi ospiti (uno è Jeff Tracy dei Blue Cartoon). Registrare? Forse sarebbe il caso di dire ri-registrare, per meglio far capire il senso del titolo del disco, "Popcycle", ingegnoso gioco di parole sorto dal combinato tra "Pop" e "Recycle", "riciclare". Delle tredici canzoni componenti l'album, dodici erano infatti già bozze negli anni '80 ora rifinite, riarrangiate e "chiuse" come l'autore avrebbe sperato di scolpirle all'epoca. La tredicesima, in veste di bonus, è un pezzo che negli eighties era già fatto e finito, qui riportato paro paro. 


L'epoca del concepimento si fa sentire eccome, ma l'album, per le ingegnose trovate che lo modulano, sta lo stesso in piedi alla grande. I'm Gonna Tell Her Tonite è distillato di pop superiore contrassegnato da voci abbaglianti e batteria corpacciuta: in apertura del disco ci sta benissimo. Shy Girls è pervasa da un'indeterminata atmosfera para-sunshine pop, filtrata da arrangiamenti ottanta e infiorata da un inaspettato ponte psichedelico. L'uso dei tasti in generale finisce per caratterizzare il disco sopra ogni altra cosa: synth, piano, tastierini, organetti, casiucci o riproduzioni fedeli di questi ultimi la fanno da padroni, non c'è alcun dubbio a riguardo. E allora il vagolante assolo al centro di Little By Little non è più di un gregario per l'organetto che ne regge la melodia stratosferica, It's Not Like Mine trae la propria forza da un creativo (e pervasivo) tappeto d'impetuosi sintetizzatori e una sorta di vintage casio-pop ammanta le succose Labels e Turn Away, quest'ultima pure lievemente lisergica.

 

Scavando altrove, The World Of Poison somiglia a una versione confidenziale di Marshall Crenshaw e aggiunge un tocco jangle presente anche in A Very Dull Girl, ma la Rickenbacker più incisiva, suonata da Kei Sato dei giapponesi Choosers, si fa apprezzare nel corso di Keep It Together, maxi pop in chiave 60s revival che sarebbe stata a pennello su un disco dei grandi e (spero non del tutto) dimenticati Winnerys. Grandi melodie guidate da un appropriato basso dominate governano I Can't Hurt For The World e Creepy People, mentre la conclusiva e acustica Houdini è pura narrativa Ray Davies. Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte a scelte di produzione oggigiorno non più convenzionali; io invece vi confermo che l'abbinamento con il plateau di canzoni offerto rende il tutto davvero gustoso (e credibile). A voi l'ardua sentenza, ma qui, gratta gratta, le canzoni ci sono.

lunedì 13 maggio 2024

The Reflectors "Going Out Of Fashion"

 



Le discussioni su cosa sia o non sia power pop ammorbano da anni la vita delle pagine dedicate al genere sui social media tra liste di proscrizione, esclusioni coatte e inclusioni forzate: tutto molto triste e anche abbastanza inutile, ma c'è qualcuno, ogni tanto almeno, in grado di mettere tutti d'accordo. Sì, perché i Reflectors da Los Angeles, già passati su queste pagine qualche anno fa per merito dell'album d'esordio "First Impression", sono dichiaratamente power pop, indiscutibilmente power pop, pervicacemente power pop. Anche iconograficamente, considerata la skinny tie messa in bella mostra sulla copertina del disco. Il quartetto californiano sembra a tratti pescato da tipiche compilation di genere alla "Shake It Up!" o "Starry Eyes", ma la capacità di mischiare le carte nella selezione delle pur circostanziate fonti d'ispirazione, il talento nello scrivere canzoni a presa istantanea e la qualità delle armonizzazioni ne evitano la caduta a precipizio nell'ampio calderone delle copie-carbone di Nerves, Buzzcocks e 20/20, gli eroi del gruppo apertamente enunciati.

 

Le sopracitate fonti d'ispirazione si possono chiaramente percepire ascoltando All The Way Down, I Gotta Run, What's Taking So Long e la strepitosa I Don't Know Anymore; tutte figlie della storia che conoscete, certo, ma fresche ed entusiasmanti grazie alla destrezza negli arrangiamenti e alla sensazionale qualità nel comporre spartiti vocali ingegnosi e meravigliosamente melodici. La sagoma disegnata a chitarre stoppate di Just Can't Get Enough Of It starebbe bene nel catalogo dei contraltari d'oltre oceano Speedways, mentre Living In A Dream ha domicilio nel territorio dei Rubinoos più chitarristici.

 

I Reflectors sono pure a proprio discreto agio quando alzano i ritmi e flirtano con più affilate, ma sempre melodiche, sonorità prossime al magico quadrato Buzzcocks-Boys-Undertones-Protex, e allora Silhouette, Going Out Of Fashion, Space and Time e Voices sono pronte per essere inserite nella vostra playlist estiva a tema powerpop-punk '79. Limitation pare un outtake di "The Kids Are The Same", e Time Is All I Have rappresenta una perfetta chiosa nostalgica a un disco che va a parare dove sapete, ma vi sorprenderà per le commendevolissime scelte armoniche sparse un po' ovunque. A dimostrazione imperitura dell'assioma secondo cui, quando si scrivono canzoni con qualità e consapevolezza, l'ostentare suggestioni immediatamente riconoscibili non è una scelta che si possa valutare in alcun modo negativamente.

martedì 7 maggio 2024

Big Stir Records e S.W. Lauden presentano... Generation Blue

 



Venerdì dieci maggio saranno passati trent'anni dall'uscita del primo disco dei Weezer, omonimo come molti altri che nei lustri l'hanno seguito ma passato alla storia con il nome di "Blue Album", per via dello sfondo della copertina colorato di brillantissimo turchese sul quale erano state sovrapposte le sagome di Rivers Cuomo, Brian Bell, Matt Sharp e Patrick Wilson, il quartetto primigenio della storia della band. Il "Blue Album" non fu unicamente un grande successo da tre milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti e tre dischi di platino; non solo un disco in grado di spalancare le finestre e cambiare l'aria stantia di una scena musicale rannicchiata sotto il cielo cupo che il vento del grunge aveva portato in tutte le recondite province d'America. Non solo un capolavoro, no. Il "Blue Album" è stato di più: un disco seminale, che ha prodotto nel giro di pochi anni centinaia di germogli, specie sul terreno fertile della South Cal.

Defunta da qualche anno la parrucconissima scena glam metal che affollava la Sunset Strip e in via di esaurimento il deteriore fenomeno bandanato dei Guns'n'Roses, i Weezer diventarono a sorpresa il gruppo di riferimento a LA. Sorpresa anche destata dalle loro scelte estetiche, non propriamente quelle opzionate dalle rock star in procinto di invadere lo star system. "Weezer? Il loro look è quello tipico dei perdenti che frequentano il liceo con il moccio al naso, non assomigliano certo a dei divi pronti a fare le onde su MTV". La considerazione è tratta dalla recensione del "Blue Album" apparsa sull'Enterteinment Weekly alla fine della primavera del '94, significativamente intitolata "The geek shall inherit the earth". Insomma, gli sfigati sarebbero stati destinati a ereditare il ruolo di guide della scena alternativa? A quanto pare, sì. Basta machismo, trucchi, capelli cotonati e pose da stelle inarrivabili. Era arrivato per i perdenti il momento del riscatto. 

 

L'album blu proiettò contro ogni pronostico i Weezer in un'altra dimensione, mentre una pletora di band cresciute insieme a loro, o susseguentemente impegnate nel tentativo di ricalcarne le orme, cominciarono a spuntare come funghi e a farsi valere in tutta la città, e in particolare a Hollywood: la Blue Generation, appunto. Quella scena, vissuta per poco poco più di un quinquennio tra la metà dei 90s e l'inizio del nuovo millennio, è sapientemente documentata in questo fantastico progetto messo a punto da due etichette-faro per la musica pop contemporanea, l'ormai celebre Big Stir e la Spyder Pop, con l'indispensabile ausilio dello scrittore S.W. Lauden (al secolo Steve Coulter), al tempo batterista titolare nei Ridel High - uno dei gruppi preminenti della generazione blu - e successivamente membro di eccellenti band come TSAR e Brothers Steve.

 

Il "pacchetto" comprende una compilation che raccoglie undici tracce rare o esclusive di alcune delle maggiori band del cosiddetto movimento "geek rock", secondo la fortunata definizione mutuata dal sopracitato articolo messo a punto da Entertainment Weekly, e un libro, "Generation Blue Oral History", in cui S.W. Lauden ha raccolto dai protagonisti dell'epoca molte interessantissime testimonianze sul momento d'oro dei primi Weezer e di tutto ciò che il fenomeno provocò nella California meridionale nei mesi e negli anni successivi. Ad arricchire la preziosa prefazione a cura di Karl Koch, da molti definito "il quinto Weezer" per i molti ruoli ricoperti attorno all'opera della band, al cospetto del taccuino di Lauden si sono presentati, tra gli altri, Matt Sharp (Weezer/Rentals), Adam Orth (Shufflepuck), Mike Randle (Baby Lemonade) e Parry Gripp (Nerf Herder). Una carrellata di nomi e curiosità illuminanti e a tratti sorprendenti. La playlist in vinile limitato accoglie bande minori, dimenticate o del tutto sconosciute come Shufflepuck, Baby Lemonade, Ozma, Nerf Herder e Supersport 2000, che insieme a un'altra manciata di gruppi disegnano un commovente quadro di un momento artistico davvero frizzante reggentesi su chitarroni distorti, linee melodiche indimenticabili, camiciole da scolaretti e occhiali con spessa montatura nera da irriducibili (e anche un po' orgogliosi) outsider. Un'epoca magari durata poco e geograficamente circoscritta, ma comunque molto importante per l'evoluzione della "nostra" musica.

 

"Generation Blue" è un prodotto di pregio, ma soprattutto un lavoro sentimentale. Una panoramica giornalisticamente ineccepibile pur redatta indossando gli occhiali rosa dell'amore, su un fenomeno che purtroppo, ci viene da pensare, non sarà in alcun modo replicabile.

Big Stir Records | Bandcamp

domenica 5 maggio 2024

Society Of Rockets "Tough Trip Through Paradise"




Ottavo disco per la mini orchestra da San Francisco della quale, mea culpa, conosco benino solo gli ultimi tre lavori. L'intenzione di sezionare anche gli altri, vista la qualità altina dei suddetti, è preminente. "Tough Trip Through Paradise" è un affare delicato, del tipo cantautorato orchestrale, anche se non mancano accelerate e cambi di tempo significativi. Un percorso vario, anche, pur legato spesso e volentieri a vocalizzi, uso degli attrezzi del mestiere e arrangiamenti affini alla sacra trimurti Nick Drake - George Harrison - Gene Clark.
 

Siccome nell'album nulla è scontato tanto vale mettere in chiaro le cose da subito, e allora Amen, anche semanticamente più adatta a una chiosa, apre il sipario con atmosfere che richiamano Nick Drake - se Nick Drake avesse accettato di farsi supportare da un gruppo di musicisti - e che solitamente siamo abituati a trovare al crepuscolo dei dischi. Il pezzo, sapientemente orchestrato, non è certamente un unicum nelle divagazioni dell'opera, e gli stessi stilemi si fanno rintracciare anche in Built To Last, che un po' richiama i Radar Bros del video con la corpulenta segretaria ingozzantesi di dolciumi, un po' gli Spiritualized in frac di "Let It Come Down" e un po', giusto per rimarcare l'appartenenza geografica, i Thrills nella loro versione più pervicacemente adesa ai sacri canoni del soft-pop tradizionale della costa occidentale californiana.


Su coordinate simili muove Smoke And Mirrors, anche se la costa ovest USA d'evidente appartenenza è in questo caso colorata da suoni decisamente più psichedelici sospinti da un portentoso organo. Abbiamo detto che le differenze impattanti su uno stile se vogliamo codificabile costituiscono la cifra primaria di "Tough Trip Through Paradise", e l'esempio migliore in questo senso lo garantisce Doors Are Opening, sorta di jangle sinfonico osservante l'insegnamento aureo del primo Gene Clark. Il pezzo è un autentico capolavoro di stile, meritevole di un posticino nella vostra playlist primaverile. Il pop acustico permeante le docili Don't Be Afraid e Getting Along ricorda i migliori Travis al rallentatore di "The Man Who", sperando che il paragone venga percepito come un grosso complimento, mentre Golden State, non immune da una certa verve estrosa alla Jeff Lynne, chiama inaspettatamente in causa il Marc Carroll periodo "Ten Of Swords", quello che riusciva a lucrare un tiro insospettabile dal combinato disposto di sei corde ora jangle, ora semplicemente acustiche.

 

The Other Side è un esempio di purissimo UK beat, utile a dare un'ulteriore spolverata di varietà a un disco che va ascoltato tutto per intero, e pazienza se lo span attenzionale dei nuovi fruitori non sarà abbastanza ampio: con il tempo impareranno a indossare le cuffiette e ad apprezzare mezz'oretta di musica pop sublime, senza dover necessariamente fare qualcos'altro nel frattempo.

mercoledì 1 maggio 2024

Radio Tangerine marzo/aprile 2024



La miglior musica nuova sulla faccia del pianeta Terra per la primavera 2024.

venerdì 26 aprile 2024

Jeremy "Footprints"

 



Jeremy Morris non è un signore che frequenta la scena: egli è uno dei pochi che la scena, ammesso e non concesso ce ne sia una, la sostiene. Vera e propria architrave del pop indipendente del midwest, Jeremy è autore prolificissimo, chitarrista virtuoso ma non autoreferenziale (memorabile lo show a cui ebbi la fortuna di assistere al Cavern Club di Liverpool una decina di anni fa) e proprietario di un'etichetta, la Jam Records, che negli ultimi trenta e più anni ha divulgato alcuni tra i migliori artisti power pop del globo (Phil Angotti, Ed James, Lolas, solo per citarne alcuni). "Footprints" dovrebbe essere il cinquantaduesimo album di una carriera solista iniziata nel 1984, ma potrei aver perso il conto pur astenendomi dal considerare nell'addizione le numerosissime collaborazioni: se di Robert Pollard ce n'è uno, Jeremy ha comunque sempre avuto un bel passo.

Il nuovo disco, che peraltro esce in contemporanea al nuovo Lemon Clocks di cui Jeremy è parte integrante e del quale vi renderemo conto nelle prossime settimane, è incentrato sul classico pop psichedelico a tinte lennoniane tipico dell'autore, ma il livello generale è quello dei tempi più ispirati. Le quindici tracce formano un nuovo compendio redatto dall'artista di Kalamazoo sull'essere felici, sul vivere la vita in modo positivo, sulle gioie della solidarietà sociale e insomma, sul sostegno tra esseri umani in generale. Soggetti che potrebbero sembrare banali, ma che in fondo in molti si rifiutano di affrontare, se addirittura non se ne vergognano.

Il suono è da subito quello che ci aspettiamo da un disco di Jeremy, già dall'apertura affidata alla Byrdsiana Everlasting Friend, pronta a calare l'ascoltatore nelle viscere della materia lirica e sonica. Won't Let You Down, Lay Your Burden Down e Feels Like A Dream sono piccoli spaccati di pop psichedelico non disdegnanti escursioni acide negli assoli, mentre piano - anche elettrico - e sintetizzatori dominano My Friend, ovattata nel suo soffice hippismo sessantottardo, e Life Is What You Make It.

Il clima, generalmente rilassato e delicatamente emotivo ancorché psichedelico, si surriscalda durante l'esecuzione di Heaven To Pay, segnata da un solo piuttosto impegnativo, ma torna subito docile e avvolgente nella title track - ballata alla Penny Lane che si giova di un perfetto arrangiamento per ottoni oltreché di un coinvolgente epilogo reiterato - e nella fatalista chiusura folk-psych This Is Our Destiny. Destino che non sappiamo cosa ci riserverà: una delle poche certezze è un prossimo, nuovo album di Jeremy. Di sicuro tra non molto tempo.

Jam Records | Amazon Music


domenica 21 aprile 2024

The Cynz "Little Miss Lost"



Duo dal New Jersey formato da Cyndi Dawson ed Henry Seiz, i Cynz calpestano i palchi da parecchio tempo, ma c'è voluta la lungimiranza dell'ottima Jem Records per dar loro il risalto che meritano. Personalmente ignoravo l'esistenza dell'ensemble, ma la figura di Cyndi Dawson mi era in qualche modo nota poiché la cantante, nel 2010, aveva dato alle stampe una bellissima raccolta di poesie intitolata "Outside Girl", in cui sviscerava i temi caldi e sofferti di un'esistenza vissuta al limite dentro e fuori la scena punk newyorchese negli anni '80. Temi che ritornano in qualche modo anche nel percorso di "Little Miss Lost"; ragazza perduta, in effetti, ma forse salvatasi in tempo dalla baraonda di eccessi, droghe, conoscenze pericolose e insomma da una generale condizione di perdurante impermanenza.

Aiutati nella stesura, nella produzione e nelle performance da alcuni noti mostri sacri del pop underground del nord-est USA come Michael Giblin (Cherry Twister, Parallax Prohect, Split Squad), Kurt Reil (Grip Weeds), Tommy Kristich (Jellybricks) e Jim Babjack (Smithereens), Dawson e Seiz portano a casa un disco scosso da una certa urgenza, in cui gli irremeabili istinti figli della conclamata storia gravitante attorno al mondo del punk rock sono però temperati da chitarre e arrangiamenti che richiamano abbastanza nettamente i suoni jangle diffusi sulla costa orientale americana di quarant'anni fa.

Si parte con Crowd-Haired Boys ed è subito power pop corpacciuto, ma già You Would Not Miss Me sposta le coordinate verso quello che sarà il centro nevralgico dell'album, un jangle pop di ispirazione ottanta in vari modi debitore di Let's Active, Feelies e Guadalcanal Diary che piacevolmente farà di tanto in tanto capolino durante i 37 minuti della corsa e in particolare nelle riuscite When We Were In Love e The Only One, quest'ultima anche ben ornata da un inaspettato sitar. Non troppo dissimile ma ancora più melodica grazie alle parti vocali stratificate e all'orgogliosa Rickenbacker dominante è la byrdsiana Break Me, e nel suo essere spumeggiante Narrow Hips può ricordare certe produzioni power pop australiane degli eighities alla Someloves.

Un paio di episodi leggermente tamarri come la title track e Fall Away forse non rendono troppo giustizia agli autori, ma Just a Boy ostenta un singalong ragguardevole e la scelta delle cover - Tell That Girl To Shut Up di Holly & The Italians e Room Without a View degli Smithereens, con tanto di chitarra solista affidata proprio Jim Babjsck - ci rassicura confermando che sì, ancora una volta siamo approdati in un porto sicuro. 

mercoledì 17 aprile 2024

Ducks Ltd. "Harm's Way"


"Tutto quello che facciamo è desiderare, mangiare, scopare, dormire e ripetere il tutto per sempre". Questo il concetto espresso appena la puntina cala sul polivinilcloruro, per esporre preoccupazioni psicosociali che innerveranno l'intero percorso. Riflessioni su un mondo che sta andando a scatafascio, cinismo spinto, amici sofferenti osservati da lontano ma impossibili da aiutare e insomma, rispetto al frasario dell'ultimo Yum Yums qui siamo un pizzico più sul cupo. Tom McGreevy e Evan Lewis, da Toronto via UK e Australia, sono i Ducks Ltd. Apparsi sulla scena nel 2021 con l'EP "Get Bleak" e - soprattutto - con l'album d'esordio "Modern Fiction", i due tormentati autori cambiano decisamente passo con il nuovo "Harm's Way", pur mantenendo i piedi ben piantati nel confortevole cortile di casa.

Straziati da una società sulla via dello sgretolamento, McGreevy e Lewis non lasciano tuttavia che le idee nere dipingano di toni foschi i loro affreschi sonori, in verità contraddistinti da ariosi fraseggi chitarristici riferiti senza alcuna remora o volontà di celare alcunché al jangle imperversante nelle radio collegiali nella metà degli anni '80. 

Senza stupore l'ascoltatore riconoscerà già a partire dalla traccia d'esordio Hollowed Out le sagome dei primi Go-Betweens, ma volendo anche di gruppi alla Mighty Lemon Drops privati di un certo allure psichedelico. Le chitarre sono sempre al centro del palco, si rincorrono e sembrano acquietarsi per poi ricomparire sfolgoranti; le linee di basso ostentano complessione pingue e le batterie, ora suonate, ora elettroniche, dettano sapientemente i tempi di un album breve (9 brani, 27 minuti), ma particolarmente denso di idee e percezioni. 

 

Evan e Tom sanno a cosa guardano, ma negli anni ritengono, con una certa ragione, di essersi ben equipaggiati per affrontare con personalità i mari in tempesta. "Prima, arrangiando un bridge, ci chiedevamo cosa avrebbero fatto gli Orange Juice," hanno avuto modo di dichiarare. "Adesso ci chiediamo cosa dovremmo fare noi". Tutto giusto, ma gli anni passati a frequentare quel particolare corso di studi non si possono cancellare con un colpo di spugna, e neppure è un male. Così A Girl, Running e Train Full Of Gasoline paiono registrazioni su nastro dimenticate in un cassetto degli uffici della Sarah Records, o della Postcard. Cathedral City non cade troppo lontano, con il suo giro a sei corde reminiscente di Pristine Christine. The Main Thing e On Our Way To The Rave innestano ritornelli luminosi, freschi e vivaci su ritmiche piuttosto sostenute, e Deleted Scene richiama persino certi Cure non impegnati nei loro sermoni tenebrosi.

 

Heavy Bag, sapientemente collocata in chiusura di percorso, sussurra alla Belle & Sebastian, per salutare un disco elegante, centrato, fresco nonostante il background ultra-classicheggiante e luccicante pur nel discorrere di argomenti piuttosto tetri. L'operazione chiaro/scuro è riuscita, quando succede è magia. Gli aficionados che dai tempi delle medie tormentano i vicini con ripetute sessioni d'ascolto di "Reckoning" potrebbero aver trovato uno dei loro dischi dell'anno.


venerdì 12 aprile 2024

The Yum Yums "Poppin' Up Again"



Un nuovo disco degli Yum Yums è la finestra di casa aperta sulla primavera dopo lunghi mesi di buio e freddo inverno norvegese; le gonne delle coetanee che si accorciano e si liberano dalla copertura ingombrante del piumone stagionale. È il gol della tua squadra del cuore in contropiede dopo novanta minuti in apnea. È la pizza vuncia con il birrone dopo il wash out imposto dal medico curante. È quel connubio magistralmente miscelato di power pop, pop punk e bubblegum music di cui, a cadenza tri o quadriennale, abbiamo disperatamente bisogno, e lo sappiamo.

Morten Henriksen e colleghi di turno mettono di nuovo la testa fuori dal guscio come suggerito dal titolo, al solito corredato da doppio senso poppettistico, e sono quelli di sempre. Tutti sanno cosa aspettarsi da loro, e gli Yummies non deludono. Sempre dichiaratisi sudditi devoti di Ramones, Real Kids, Plimsouls e Devil Dogs, nell'autocertificazione gli ex ragazzi da Moss non hanno mai tralasciato di indicare tra le muse ispiratrici gli Sweet (per la quota glam) e gli Ohio Express (per quella bubblegum). "Poppin' Up Again" è dunque un tubetto di concentrato pop ad alto contenuto energetico, che in quattordici tracce e mezz'oretta di puro divertimento raggiunge lo scopo prefissato dalla ragione sociale della casa: farvi stare bene.

Ricordate i riferimenti musical-culturali appena elencati? Bene, li conoscevate già, non c'era bisogno, avete ragione. E allora, le danze sono aperte da Vitamin U con un riff che sembra preso a prestito da Fox On The Run, e sono portate avanti da Got Me Good, il cui giro di chitarra in qualche modo richiama quello di Get Over You. Porti sicuri, siamo a casa. Baby Oh Baby, Steal My Heart Away e Sweeter Than You sono accademici esempi di grande power pop moderno e pure abbastanza tirato, mentre la traccia che regala il titolo all'album non poteva non essere un manifesto del suono Yum Yums tra sei corde stoppate, voci-laser e melodie senza tempo.

Si fatica parecchio a trovare lacerti debolucci, da qualunque angolatura si guardi l'album: Whole Lotta Kissin', Dance! e Foxy trascinano tutti nella più prossima balera, Come Back è un supremo frammento bubblegum che sarebbe stato a pennello nella raccolta "Right To Chews" e la deliziosa accoppiata Baby Doll/Candy pare uscita dallo studio di un Phil Spector rasserenato e senza la passione per le armi.

I testi, come tradizione vuole, sembrano ispirati alla Smemoranda del liceo, perché tutti invecchiamo, ma il romanticismo adolescenziale è uno stato della mente perdurante. Le turbe, però, qui sono prese con leggerezza, come sempre. "Poppin' Up Again" è un altro grandissimo disco di musica pop frutto della mente e della penna di uno  tra i più costanti (e consistenti) autori rock'n'roll contemporanei; un bellissimo album in grado di reggere il difficile paragone con il predecessore "For Those About To Pop", che a mio personalissimo parere resta il capolavoro supremo della banda: se avete ascoltato quell'opera, le conseguenze non sono difficili da trarre.

martedì 9 aprile 2024

Jose's Bad Day "Hi! Let's Eat"


Tim Reece è noto ai più, ma assolutamente ignoto a me, nelle vesti di leader di una seguita band da Oceanside, California, chiamata 40 Proof. Joe's Bad Day è il suo disegno nascosto; un angolo di relax con una poltrona e un tavolino e una penna per scrivere canzoni indossando la vestaglia di casa, in totale libertà. Le suona con gli amici e la famiglia - il figlio siede dietro ai tamburi - e i risultati non sono niente male.

Sbucato dal nulla, "Hi! Let's Eat" è un disco sorprendente in cui Reece compone libero eppure centrato nonostante le molte divagazioni sul genere; un lavoro elevato da liriche non banali e non consuete, suonato bene e in grado di emanare bagliori abbacinanti quando pesca il filone aurifero gravido di melodie che sembrano uscite dal pieno 1980. Due perfetti esempi del riferimento storico sono rappresentati dall'apertura Just Good Friends, sgorgante senza apparente sforzo da una chitarra jangle alla Don Dixon, e soprattutto dalla superba So Pretty I Lie, che pare un pezzo tagliato all'ultimo da "Get Happy" di Elvis Costello.


Per manifeste capacità evidentemente consigliato di posare i propri sguardi sugli spartiti di un pop chitarristico d'ispirazione new wave, Reece mantiene comunque saldo il proprio gusto nell'amalgama dei più tipici prodotti casalinghi: così How Will You Know? e Where Were You? tra dubbi irrisolti e domande senza risposta hanno le stigmate di certa americana ultra-retro marchiata dagli insegnamenti classici di Calvin Russell e Jerry Douglas, e persino la spericolata coppia Put Down The Bottle (And Pick Up The Phone)/Don't Make Me Pull Over muove passi sicuri pur arrischiandosi sullo spesso scivoloso terreno di un blues screziato da accordi d'organo che conferisce alla materia tinte para-soul.

 

Un frammento particolarmente commendevole nella degustazione di "Hi! Let's Eat" è di sicuro Say Anything, brano in cui Reece torna a pescare dal variopinto macrocosmo new wave della fine degli anni settanta, e dove le azzardate ma corpulente invenzioni melodiche dei 10cc si installano su chitarre d'andazzo reggae di cui Graham Parker avrebbe potuto servirsi in una versione rivisitata di Protection. Semaforo verde anche per Not Much To Write Home About e Drink The Water, difficili prove di minimalismo sentimentale per pianoforte e violoncello, ulteriori dimostrazioni della poliedricità di un autore atteso nel prossimo futuro su queste pagine con altro materiale di pari livello.

giovedì 4 aprile 2024

Jordan Jones "And I, You" (ep)


Quattro anni e mezzo sono passati dall'omonimo, sontuoso album d'esordio di Jordan Jones, un disco che fece andare in brodo di giuggiole la critica di settore. Ma è bene si sappia subito che tutto è cambiato, nel frattempo. Di quell'opera, in questo extended play nuovo di zecca, rimane poco o nulla, se non la straordinaria capacità scrittoria dell'autore da L.A. Quella sì, è ancora ben percepibile. Non più chitarre ringhianti e melodie vocali pronto-uso, e nemmeno inni powerpop neoclassici a presa istantanea. Quello era un lavoro eccezionale, finito ai piani alti della nostra classifica sul meglio del 2019, ma il compito, a volte faticoso, di chiunque si cimenti nel lavoro culturale è di sminare il campo rincuorante ma insidioso della precettistica. 

"And I, You" è un breve percorso in sette tracce durante il quale le sei corde lasciano spazio a ricchi e rilassati arrangiamenti per piano e archi, funzionali all'edificazione di un pop orchestrale e intricato con lo sguardo più orientato a Burt Bacharach che a Doug Fieger. Apre le danze l'elegantissima e strumentale Envelope Of Skin, ma la scena se la prende subito dopo il piano pop davvero entusiasmante di Listen. L'accoppiata Promise You/Forever-Adore You in qualche modo si ispira, non sappiamo se consapevolmente o meno, al soft rock ingiustamente dimenticato negli scatoloni da grande magazzino dedicati all' AOR americano degli anni settanta, con risultati che ripagano del notevole rischio, dobbiamo dire: i lussuosi arrangiamenti classicheggianti, ovviamente abbinati alle ispirate e sagaci linee vocali di Jones, non ci consentono di esimerci dal citare il ricordo di Steely Dan e Hall & Oates.

Can I Stay? alza leggermente i battiti del dischetto, ma è la sinfonia Love Song Of J - a detta dello stesso autore uno dei pezzi meglio riusciti della sua carriera - a stupire con la sua semplice eppure (o proprio per questo) indimenticabile linea melodica colta dai campi ubertosi di un paradigmatico pop per pianoforte e violini. Perché tutti abbiamo bisogno di certezze, e ci mancherebbe pure, ma la dispensa del comfort food è sempre ben fornita, e una divagazione inaspettata rappresenta un bonus che certo non guasta e aiuta a ricordare che gli orizzonti della musica pop sono vastissimi.

 

martedì 2 aprile 2024

Brent Seavers "Exhibit B"

 


Più di cinque lustri di pausa, dal 2001 al 2018, poi a Brent Seavers è tornata la voglia. Il capobanda dei clamorosi Decibels da Sacramento negli ultimi sei anni ha firmato cinque dischi; tre con il gruppo d'origine e altri due in solitaria. Dopo l'eccellente "BS Stands For", quinto nella classifica riguardante i nostri album preferiti del 2021, Brent è uscito dallo studio con un nuovo lavoro privato nuovo di zecca, che senza eccessiva sorpresa segnaliamo tra i migliori dischi usciti in questi primi quattro mesi della nuova stagione musicale.

L'autore che ormai quasi venticinque anni fa scrisse il leggendario capolavoro "The Big Sound Of The Decibels", sicuramente uno dei migliori album di genere pubblicati nel nuovo millennio, è un uomo abituato a darci tutte le sicurezze di cui abbiamo bisogno, ed "Exhibit B" è un' altra straordinaria opera in cui le istanze  power pop, mod, garage e rock'n'roll di chiara ispirazione sixties sono miscelate alla perfezione per creare canzoni destinate a essere memorizzate al primo ascolto.


La frizzantissima Roller Coaster Ride apre le danze con una sorta di doo wop accelerato dalle linee melodiche debitrici dei Monkees, che fa il paio con l' ugualmente energizzata No Perfect Way, perfetto esempio di quel sixties core che i Decibels si pregiano di aver portato negli anni su vette altissime e a tratti inesplorate. The Universe and I decora il miglior power pop della casa con intelligentissime linee di synth, mentre Till It's Over, nei suoi richiami beatlesiani, potrebbe essere scambiata per un pezzo prezioso del patrimonio Sloan per l'acribia messa negli arrangiamenti.


Certamente intonate al contesto, Push Me Down e Stumbling prendono la strada laterale di un garage per farfisa ottimamente congegnato - e sappiamo quanto sia difficile non risultare scontati in quell'ambito - laddove Lullaby è uno splendido lento soul dalle melodie cristalline. Il citaredo dalla California settentrionale brilla nel suo essere autore genialoide nella filastrocca The Noble Cause, intarsiata con graziosi strass di pianoforte, e dimostra la sua versatilità aggiungendo un po' di fuzz nella psichedelica Fuzz Off (per l'appunto), non dissimile da certe scritture dei grandi Telepathic Butterflies.


Brent Seavers, il quale ha ritenuto a ragione di concludere il percorso con la riproposizione del classico dei Decibels Raining In My Head, è un autore affidabile, nel senso più nobile dell'aggettivo: sai perfettamente ciò che troverai nel piatto, ed è esattamente quello di cui hai bisogno. "Exhibit B" è un lavoro che peraltro non teme di risultare scontato: Brent la materia la conosce bene, e la sa trattare come merita di essere trattata.

domenica 31 marzo 2024

Marc Valentine "Basement Sparks"



Marc Valentine ha l'aspetto un po' così, un po' Stiv Bators, e già questo è di buon auspicio. Non solo l'aspetto, peraltro, se ascoltiamo attentamente Strange Weather, traccia numero sette del nuovissimo "Basement Sparks": magari sognando, probabilmente idealizzando ma infine, ecco, non discostandoci troppo dalla realtà, la timbrica vocale in qualche modo rassomiglia quella dell'eroe nell'epoca "LA LA".

Scritturato dalla Wicked Cool di un Little Steven evidentemente folgorato dal predecessore "Future Obscure", Marc Valentine è uno degli autori più consistenti della scena, ammesso ne esista ancora una. "Basement Sparks" è il frutto di un artista di Norwich, ma il disco, figlio del combinato disposto tra riff di chitarre spesso intensi e voci zuccherose post-teenegeriali ha i connotati di un prodotto palesemente americano, sebbene non manchino contaminazioni est-atlantiche perlopiù riferibili a certo UK glam anni '70. Per dirla in altri termini, la sensazione è quella di un combo inglese che abbia metabolizzato le sacre dispense Poptopia e Yellow Pills: un esempio in tal senso sembra ben reso dall'apertura affidata a Complicated Sometimes, la quale pare un estratto di "Moustache", il disco d'esordio dei leggendari Farrah.

Skeleton Key e Strange Weather hanno i cori contagiosi che si sprigionano con inaspettate melodie dai riff corpulenti dei Marvelosus 3, e nel frattempo You Are One Of Us offre gli ormai (nostro malgrado) desueti stoppati nella strofa che spesso costituirono simbolo araldico del grande Paul Collins. Le divagazioni sulla trama base non mancano: così Ballad Of Watt e 3AM Anderson Drive sono ballate intriganti dal retrogusto anche un po' britpop, Tyrannical Wrecks incorpora un pizzico di sporcizia garage e Repeat Offender, nettamente debitrice di certa new wave dal Regno Unito, spariglia  le carte con prelibati stacchi para-reggae dal sapore Police.

I Wanna Be Alone riporta alla memoria certo pop USA che, nolente, è rimasto stipato negli scaffali dei grandi magazzini sotto il cartellone dell'alternative a metà prezzo ma avrebbe voluto (e potuto) essere radiofonico, e a un primo ascolto ricorderà agli appassionati le migliori opere di Copperpot, Rocket Summer e Jack's Mannequin, mentre le melodie irresistibili di Eve Of Distraction (titolo ingegnoso se ce n'è uno), foraggiate da tastierine apparentemente prese in prestito da "Panorama" dei Cars, chiariscono definendoli i tratti somatici di un disco che ogni appassionato di power pop anni '90 - pur sempre l'epoca storica in cui sembrava che qualcuno dei nostri ce l'avrebbe fatta - dovrebbe mettersi in casa, esultando di fronte a una speranza di un mondo migliore destinata a non morire mai.


domenica 17 marzo 2024

On The Runway "Tell Yourself It's Pretty"


David Norris è stato il motore principale di un gruppo power pop chiamato Crash Into June, attivo tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, e non dovesse sovvenirvi istantaneamente la citazione suggeriamo un urgente ripasso dei classici. Francamente ignorando come Norris abbia impiegato il proprio tempo negli ultimi vent'anni, festeggiamo l'agnizione manifestatasi sottoforma di una nuova band. On The Runway, da Memphis, Tennessee, provocheranno un sorriso nostalgico e compiaciuto in chi, molti anni fa, si è formato ascoltando di straforo le primissime college radio americane. "Tell Yourself It's Pretty", per l'appunto, è un disco giocato sulle diverse consistenze del jangle rock che negli anni '80, specie grazie a quattro ragazzotti di Athens, Georgia, è sembrato per un istante poter fare la voce grossa nelle classifiche. E allora, gli appassionati sanno dove stiamo andando a parare. 

La vena aurifera della musica indipendente diffusa dalle radio indipendenti nel sud degli Stati Uniti non restituiva nulla di scontato, da qualsiasi punto si osservassero le molte sfaccettature di un genere troppo spesso considerato dagli osservatori generalisti una mera e continua riproposizione degli stessi quattro arpeggi. Sono passati anni, ma gli eredi di quella storia ancora operano nella penombra, per ricordare ai più giovani che lo studio di Windbreakers, Church, Db's e Miracle Legion (non parlavamo forse di diverse sfaccettature degli 80's devoti alle chitarre?) non si traduce mai in tempo perso. In questo senso, "Tell Yourself It's Pretty" si offre come utilissimo Bignami, peraltro messo insieme da un tizio che le canzoni le sa scrivere molto bene, ché poi è il fattore decisivo per nobilitare non solo il jangle rock, ma qualsiasi forma d'arte preveda l'utilizzo di una penna.

 

Loser Of The Year e Bring Yourself Down, opportunamente poste in apertura e chiusura dell'album, suonano come coerenti manifesti di quanto scritto finora; due canzoni inzuppate di jangle sudista che avrebbero fatto una figura eccellente nella programmazione delle emittenti universitarie USA dell'epoca. Consolation Prize e This Will Be Your Year giocano su un doppio livello: un riff memore della potenza cristallina - che già di per sé è un ossimoro ma neanche troppo - dei Gin Blossoms a prendere il centro della scena, mentre a reggere la struttura dolci cascate di fragili arpeggi jangle si intrecciano nel sottofondo. Stuck On You, che trascinata da una melodia memorabile è forse il brano più vicino ai Crash Into June di "Another Vivid Scene", a tratti ricorda la grazia scintillante dei Church, mentre Lifeline, riff da circoletto rosso, spolvera il ricordo dei Teenage Fanclub del secondo periodo, quello di "Howdy!", per farci capire. 

 

I Teenage Fanclub, spesso citati a sproposito quando ci si riferisce a un certo sottogenere di pop chitarristico, sono invece un esempio perfetto per inquadrare la meravigliosa This Charade, melanconica e con gli occhi umidi, che sarebbe potuta stare su "Man-Made", così come i primi R.E.M. non possono non essere tirati in ballo parlando di House is Not a Home, altra perla di un disco che sarà  vera e propria manna per chi dal jingle jangle diffuso nel sud-est degli Stati Uniti quarantacinque anni fa è stato (e rimasto) irrimediabilmente segnato.


venerdì 15 marzo 2024

Mark & the Clouds "Machines Can't Hear You"

 


Si legge il nome di Marco Magnani e si sa a cosa si va incontro. Non si ricordassero i dati anagrafici, del resto, basterebbero le copertine. Marco da Bologna, già negli Avvoltoi a cavallo degli anni '90 ma residente a Londra da ormai numerosi anni, nel tempo si è costruito una solida carriera d'affidabilissimo menestrello psych pop. Tra i più continui e dotati autori nel sempre stipato stanzone sixties-revivalista, Magnani ha avvicinato l'apice della scena intorno alla metà del primo decennio del secolo, quando fondò i folgoranti Instant Flight che, oltre a un disco di debutto divenuto un sottoclassico di genere, di lì a poco si misero a giare con Arthur Brown, simbolo e leggenda di un'epoca e della trasposizione postuma della stessa.

Mark & the Clouds, trio che al fianco di Magnani schiera l'ex Instant Flight John O'Sullivan e Shin Okajima, sono arrivati al quarto album della carriera mantenendo la barra dritta e i gioielli di casa sempre ben riconoscibili. "Machines Can't Hear You" in qualche modo prosegue sulla strada tracciata dai predecessori "Blue Skies Opening" (2014), "Cumulus" (2016) e "Waves" (2021), offrendo al preparatissimo ascoltatore una rassicurante miscela di pop psichedelico con giacca floreale e pantaloni a strisce, eterei frammenti folk e alcune spericolate cavalcate quasi progressive. Abbastanza per soddisfare i cultori della materia, anche quelli più ortodossi, come sempre, ma le essenze pop nebulizzate qui e là, più frequentemente e con maggior ispirazione rispetto alla discografia antecedente, permettono all'album di ingranare una marcia superiore e di rimanere costantemente vivo nonostante la considerevole lunghezza (17 tracce).

Tanto vale rafforzare il concetto, dunque: i pezzi più strettamente pop della combriccola, ossia Swearing At The Moon con il suo incedere prossimo ai territori UK beat, Walking Dead Man dalle atmosfere colte dei primi REM e soprattutto l'indimenticabile Graves For You And Me, jangle pop adesivo come al meglio del genere può capitare, rappresentano tre decisi salti in alto propedeutici a un cambio di status di un album altrimenti destinato a rimanere un buon album di genere. Non che si vogliano mettere in discussione approccio filologico, interpretazione della materia cantautorale e capacità scrittorie di Magnani, che anzi conosce i suoi polli e sa maneggiare benissimo la sostanza sixties folk. Ma lo preferisco colorato e giocatore d'azzardo quando in What Can I Do? associa il Donovan di Barabajagal ad alcune spericolate chitarre fuzz, piuttosto che stretto nel confortevole paltò del crooner folk - bravo, bravissimo, per l'amor del cielo! - che aleggia durante Underground e Soul Of Nature, anche se gli arrangiamenti di archi nella prima e d'ottoni nella seconda sono certamente azzeccati.

 

Cercando altrove, meglio lo stupendo pop psichedelico alla Tomorrow di The Sun Goes Down del tentativo classic rock di The World Is Falling, un po' Come Together, un po' southern blues. La passione per il cantautorato folk di Magnani brilla quando è associato a costumi psichedelici e certamente l'assunto è comprovato dalla finale Two Minds In My Head, mentre le pulsioni prog, appena abbozzate in The Shadow e liberamente sfogate nel corso di The Age Of Clowns (undici minuti!) le lascerei valutare a qualcuno più competente di me sul tema. 

 

"Machines Can't Hear You" è un disco che ingrana la quarta quando non teme di lasciar scorrere liberamente la propria vena melodica, oppure il suo spirito paradossale. Succede in circa la metà dei pezzi, che meritano un gran voto. L'altra metà, per buona parte abbondantemente folk solo a tratti lisergico e per il resto acidognola e persino progressiva, soddisferà soprattutto gli appassionati più legati a quelle sonorità. Nell'insieme, un disco godibile nel complesso e a tratti eccellente. Ognuno ha le proprie preferenze, e naturalmente anche noi le nostre, ma obiettivamente Magnani la materia la conosce e la sa trattare. Avercene, di divulgatori così.

mercoledì 13 marzo 2024

Liquid Mike "Paul Bunyan's Slingshot"



Ho avuto modo di ascoltare l'omonimo album di Liquid Mike lo scorso anno. A differenza della stragrande maggioranza dei dischi omonimi che conosco, quello di Mike Maple da Marquette, Michigan, non era affatto un album d'esordio, ma addirittura il quarto della serie. Scelta inusuale, che in effetti importa poco. Sarà la città di provenienza, Marquette, luogo isolato per antonomasia, ad averlo tenuto fuori dal giro; non dico dal giro grosso, ma pure dagli ascolti standard di noi aficionados. Qualcuno, molto addentro a un certo tipo di questioni, deve averlo scovato per poi parlarne sui social che, vivaddio, qualche funzione encomiabile ancora la conservano. "Paul Bunyan's Slingshot" non incontrerà per questo i favori delle masse, ma almeno, adesso, se ne parla in giro. E a buona ragione, perché il ragazzo sa quello che fa. 

La materia qui è facilmente classificabile: 13 brani in 25 minuti di intenso, concentrato, reattivo alternative rock con i piedi ben piantati nelle classifiche di genere di 25 anni fa. Molto ispirata nelle soluzioni melodiche, mi azzardo a dire che la collezione, pur tradendo un certo qual debito con alcuni personaggi altamente sospetti, a tratti ne corregge persino i difetti che ai tempi me li avevano fatti apprezzare solo a tratti, o per nulla. Rumoroso, sì; derivativo, anche, ma se a vari stadi avete provato a farvi piacere come vi dicevano fosse doveroso i Dinosaur Jr. oppure i Foo Fighters, scontrandovi, voi amanti delle armonie fatte come dio comanda, con le voci di J. Mascis e Dave Grohl, qui c'è una chiave di volta. Si parla di costruzioni pop, non di paragoni, mi capirete.

Non mi perito di dichiarare che Drinking And Driving ricorda una versione più ristretta, melodica e meglio cantata dei Foo Fighters meno tamarri. Da aggiungere all'insieme dei grandi miti che mai, guardato male da tutti i miei coltissimi amici, sono riuscito a godermi fino in fondo, ci sono le varie esperienze di Bob Mould, del quale, scusate, ho sempre trovato indigesta la voce. Non le chitarre vagamente caotiche e nemmeno - giammai! - l'architettura dei brani; giusto l'impostazione armonica, che stupende saette come Works Bomb, /// e la title track in qualche modo sistemano.

 

Ho invece venerato e tuttora venero Evan Dando, e Town Ease in effetti ricorda una versione più sonica dei Lemonheads, mentre Mouse Trap e Pacer somigliano a degli American Hi-Fi più sporchi e meno presi da loro stessi. Altrove, AM è un lodevole frammento Weakerthans, e la superba Drug Dealer, più collegiale, è una gemma power pop di marca indipendente che ha assorbito anche la lezione dei sommi Nada Surf. 

 

Mike Maple, che nella vita di tutti i giorni fa il postino, nel corso delle tredici tracce narra con grande acume di isolamento, gentrificazione, di estati sprecate e - perché no? - anche un po' d'amore. Notevole, anche quando tutto ammanta di un sapido, caustico umorismo. Così nel corso di K2, che musicalmente ricorda un astuto mix tra i Nada Surf (ancora loro) e una versione più melodica e accelerata dei Built To Spill, a un certo punto della strofa non teme ripercussioni dai legali di Chris Martin mentre recita "You fell down when you passed out / A rush of blood straight to the head / pissed your pants and they were all yellow". Non così raffinato, direte voi. Grazioso, però. 

 

"Paul Bunyan's Slingshot" è un album breve, intenso e soprattutto molto ispirato. Io qualche indicazione ho provato a darla, ma se da questa stramba cornucopia ho pescato Lemonheads, Foo Fighters, Built to Spill e Bob Mould laddove voi riconoscerete Mascis, Jawbreaker e Weezer non ci sono errori di sistema. Abbiamo ragione tutti, è una questione di sensazioni (e indirizzi) globali. E, soprattutto, ha ragione Mike Maple. Da bere tutto in un sorso.

mercoledì 6 marzo 2024

Emperor Penguin "Gentlemen Thieves"



Tornano gli Emperor Penguin, ed è ovviamente una bella notizia. "Sunday Carvey" era stata una folgorazione per noi che già li conoscevamo per merito dello strabiliante "Corporation Pop" di cui a suo tempo parlammo su queste pagine, ma colpevolmente mai avevamo davvero approfondito una discografia ora giunta a sette album in quattordici anni di carriera. Quel disco traboccava effervescenza istrionica molto seventies - ma anche un bel po' XTC metà anni ottanta - con tutte le invenzioni e le bricconaggini del caso, mentre "Gentlement Thieves", disco di nuovissimo conio, sposta l'orizzonte temporale un decennio più indietro. Resta comunque difficile confinare gli Emperor Penguin all'interno di un territorio precisamente demarcato, e se il campo base in questione può dirsi più o meno battere bandiera UK beat, il costrutto generale è si, al solito, molto britannico, ma le influenze spuntano dal nulla e si irradiano verso le più imprevedibili destinazioni.

"Gentlemen Thieves" è un'opera dotta che narra storie di ladri e cita WB Yeates, ma non è un concept album. Le canzoni, come tradizione vuole, si reggono benissimo in piedi da sole, con la solita propensione alla dimensione singolo, almeno potenziale. L'ironia in qualche modo vittoriana pervade il contesto lirico e strumentale, con i soliti numi tutelari Costello e XTC ancora ben saldi nel pantheon.

That's The Worst It Could Happen, con i suoi bizzarri eco, riverberi e persino spruzzate di fuzz cela richiami power pop ante-litteram che occhieggiano alla beatlemania, mentre Silver Apples, con i suoi rimandi letterari, e Three More Years, posta in chiusura di percorso, definiscono le diversità di cittadinanza del suono con azzardate ma riuscite divagazioni di synth in un contesto piacevolmente proto-progressivo.

Eterogeneità che non si peritano di rimarcare Town Called Gone e Driving Blind, più corpulente: la prima strutturata su un disegno angolare da cui scaturisce un grande ritornello secondo un'architettura resa di grande successo dai Guided By Voices; la seconda, sempre caratterizzata da un lussuoso chorus, lambisce addirittura i territori di certo glam rock anni '70. Sonnez Les Matines, audace, parte con giro simil-reggae e viene trasportata da bassi compulsivi verso una sorta di eastern dance americana miscelata a certo madchester sound, e la strepitosa Pipistrelle è una gemma che evoca l'idolo Partdrige ornata da un astuto toy piano.

 

I libri classici del retroterra sciovinista britannico vengono ripassati nelle dispense titolate The Persuaders, traboccante dalla stretta intercapedine che separa Rubber Soul da Revolver, e You And Me, che sembra invece un outtake di Sgt. Peppers's con i suoi arrangiamenti a base di corni.

Disco eccezionale, sì, ma non sono ancora stati citati gli episodi migliori: uno di questi emana dalle chitarre tormentose e dalla batteria rotonda di Ladybird, grande power pop per palati fini; gli altri due dalla compartecipazione della solita Lisa Mychols, la quale eminentemente duetta con la voce di un preteso ma credibile Evan Dando intento a coverizzare Costello nel corso di I Would't Point It Like That, d'ispirazione vagamente jangle, e poi evoca la dea Kirsty MacColl nella lievemente psichedelica You Are My Atmosphere.

   

La manifesta idolatria per le prodezze musicali britanniche comprese tra il primo e il secondo Impero non si tramutano mai nella copia carbone di qualcos'altro. Le evidentissime capacità compositivo-scrittorie e il solito coraggio nel prendere la tangente imprevista fanno di "Gentlemen Thieves" un altro grande album degli Emperor Penguin, che ci permettiamo di pronosticare molto in alto in parecchie classifiche di fine anno, quando arriverà il momento.

Kool Kat | Bandcamp