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venerdì 26 aprile 2024

Jeremy "Footprints"

 



Jeremy Morris non è un signore che frequenta la scena: egli è uno dei pochi che la scena, ammesso e non concesso ce ne sia una, la sostiene. Vera e propria architrave del pop indipendente del midwest, Jeremy è autore prolificissimo, chitarrista virtuoso ma non autoreferenziale (memorabile lo show a cui ebbi la fortuna di assistere al Cavern Club di Liverpool una decina di anni fa) e proprietario di un'etichetta, la Jam Records, che negli ultimi trenta e più anni ha divulgato alcuni tra i migliori artisti power pop del globo (Phil Angotti, Ed James, Lolas, solo per citarne alcuni). "Footprints" dovrebbe essere il cinquantaduesimo album di una carriera solista iniziata nel 1984, ma potrei aver perso il conto pur astenendomi dal considerare nell'addizione le numerosissime collaborazioni: se di Robert Pollard ce n'è uno, Jeremy ha comunque sempre avuto un bel passo.

Il nuovo disco, che peraltro esce in contemporanea al nuovo Lemon Clocks di cui Jeremy è parte integrante e del quale vi renderemo conto nelle prossime settimane, è incentrato sul classico pop psichedelico a tinte lennoniane tipico dell'autore, ma il livello generale è quello dei tempi più ispirati. Le quindici tracce formano un nuovo compendio redatto dall'artista di Kalamazoo sull'essere felici, sul vivere la vita in modo positivo, sulle gioie della solidarietà sociale e insomma, sul sostegno tra esseri umani in generale. Soggetti che potrebbero sembrare banali, ma che in fondo in molti si rifiutano di affrontare, se addirittura non se ne vergognano.

Il suono è da subito quello che ci aspettiamo da un disco di Jeremy, già dall'apertura affidata alla Byrdsiana Everlasting Friend, pronta a calare l'ascoltatore nelle viscere della materia lirica e sonica. Won't Let You Down, Lay Your Burden Down e Feels Like A Dream sono piccoli spaccati di pop psichedelico non disdegnanti escursioni acide negli assoli, mentre piano - anche elettrico - e sintetizzatori dominano My Friend, ovattata nel suo soffice hippismo sessantottardo, e Life Is What You Make It.

Il clima, generalmente rilassato e delicatamente emotivo ancorché psichedelico, si surriscalda durante l'esecuzione di Heaven To Pay, segnata da un solo piuttosto impegnativo, ma torna subito docile e avvolgente nella title track - ballata alla Penny Lane che si giova di un perfetto arrangiamento per ottoni oltreché di un coinvolgente epilogo reiterato - e nella fatalista chiusura folk-psych This Is Our Destiny. Destino che non sappiamo cosa ci riserverà: una delle poche certezze è un prossimo, nuovo album di Jeremy. Di sicuro tra non molto tempo.

Jam Records | Amazon Music


domenica 21 aprile 2024

The Cynz "Little Miss Lost"



Duo dal New Jersey formato da Cyndi Dawson ed Henry Seiz, i Cynz calpestano i palchi da parecchio tempo, ma c'è voluta la lungimiranza dell'ottima Jem Records per dar loro il risalto che meritano. Personalmente ignoravo l'esistenza dell'ensemble, ma la figura di Cyndi Dawson mi era in qualche modo nota poiché la cantante, nel 2010, aveva dato alle stampe una bellissima raccolta di poesie intitolata "Outside Girl", in cui sviscerava i temi caldi e sofferti di un'esistenza vissuta al limite dentro e fuori la scena punk newyorchese negli anni '80. Temi che ritornano in qualche modo anche nel percorso di "Little Miss Lost"; ragazza perduta, in effetti, ma forse salvatasi in tempo dalla baraonda di eccessi, droghe, conoscenze pericolose e insomma da una generale condizione di perdurante impermanenza.

Aiutati nella stesura, nella produzione e nelle performance da alcuni noti mostri sacri del pop underground del nord-est USA come Michael Giblin (Cherry Twister, Parallax Prohect, Split Squad), Kurt Reil (Grip Weeds), Tommy Kristich (Jellybricks) e Jim Babjack (Smithereens), Dawson e Seiz portano a casa un disco scosso da una certa urgenza, in cui gli irremeabili istinti figli della conclamata storia gravitante attorno al mondo del punk rock sono però temperati da chitarre e arrangiamenti che richiamano abbastanza nettamente i suoni jangle diffusi sulla costa ovest americana quarant'anni fa.

Si parte con Crowd-Haired Boys ed è subito power pop corpacciuto, ma già You Would Not Miss Me sposta le coordinate verso quello che sarà il centro nevralgico dell'album, un jangle pop di ispirazione ottanta in vari modi debitore di Let's Active, Feelies e Guadalcanal Diary che piacevolmente farà di tanto in tanto capolino durante i 37 minuti della corsa e in particolare nelle riuscite When We Were In Love e The Only One, quest'ultima anche ben ornata da un inaspettato sitar. Non troppo dissimile ma ancora più melodica grazie alle parti vocali stratificate e all'orgogliosa Rickenbacker dominante è la byrdsiana Break Me, e nel suo essere spumeggiante Narrow Hips può ricordare certe produzioni power pop australiane degli eighities alla Someloves.

Un paio di episodi leggermente tamarri come la title track e Fall Away forse non rendono troppo giustizia agli autori, ma Just a Boy ostenta un singalong ragguardevole e la scelta delle cover - Tell That Girl To Shut Up di Holly & The Italians e Room Without a View degli Smithereens, con tanto di chitarra solista affidata proprio Jim Babjsck - ci rassicura confermando che sì, ancora una volta siamo approdati in un porto sicuro. 

mercoledì 17 aprile 2024

Ducks Ltd. "Harm's Way"


"Tutto quello che facciamo è desiderare, mangiare, scopare, dormire e ripetere il tutto per sempre". Questo il concetto espresso appena la puntina cala sul polivinilcloruro, per esporre preoccupazioni psicosociali che innerveranno l'intero percorso. Riflessioni su un mondo che sta andando a scatafascio, cinismo spinto, amici sofferenti osservati da lontano ma impossibili da aiutare e insomma, rispetto al frasario dell'ultimo Yum Yums qui siamo un pizzico più sul cupo. Tom McGreevy e Evan Lewis, da Toronto via UK e Australia, sono i Ducks Ltd. Apparsi sulla scena nel 2021 con l'EP "Get Bleak" e - soprattutto - con l'album d'esordio "Modern Fiction", i due tormentati autori cambiano decisamente passo con il nuovo "Harm's Way", pur mantenendo i piedi ben piantati nel confortevole cortile di casa.

Straziati da una società sulla via dello sgretolamento, McGreevy e Lewis non lasciano tuttavia che le idee nere dipingano di toni foschi i loro affreschi sonori, in verità contraddistinti da ariosi fraseggi chitarristici riferiti senza alcuna remora o volontà di celare alcunché al jangle imperversante nelle radio collegiali nella metà degli anni '80. 

Senza stupore l'ascoltatore riconoscerà già a partire dalla traccia d'esordio Hollowed Out le sagome dei primi Go-Betweens, ma volendo anche di gruppi alla Mighty Lemon Drops privati di un certo allure psichedelico. Le chitarre sono sempre al centro del palco, si rincorrono e sembrano acquietarsi per poi ricomparire sfolgoranti; le linee di basso ostentano complessione pingue e le batterie, ora suonate, ora elettroniche, dettano sapientemente i tempi di un album breve (9 brani, 27 minuti), ma particolarmente denso di idee e percezioni. 

 

Evan e Tom sanno a cosa guardano, ma negli anni ritengono, con una certa ragione, di essersi ben equipaggiati per affrontare con personalità i mari in tempesta. "Prima, arrangiando un bridge, ci chiedevamo cosa avrebbero fatto gli Orange Juice," hanno avuto modo di dichiarare. "Adesso ci chiediamo cosa dovremmo fare noi". Tutto giusto, ma gli anni passati a frequentare quel particolare corso di studi non si possono cancellare con un colpo di spugna, e neppure è un male. Così A Girl, Running e Train Full Of Gasoline paiono registrazioni su nastro dimenticate in un cassetto degli uffici della Sarah Records, o della Postcard. Cathedral City non cade troppo lontano, con il suo giro a sei corde reminiscente di Pristine Christine. The Main Thing e On Our Way To The Rave innestano ritornelli luminosi, freschi e vivaci su ritmiche piuttosto sostenute, e Deleted Scene richiama persino certi Cure non impegnati nei loro sermoni tenebrosi.

 

Heavy Bag, sapientemente collocata in chiusura di percorso, sussurra alla Belle & Sebastian, per salutare un disco elegante, centrato, fresco nonostante il background ultra-classicheggiante e luccicante pur nel discorrere di argomenti piuttosto tetri. L'operazione chiaro/scuro è riuscita, quando succede è magia. Gli aficionados che dai tempi delle medie tormentano i vicini con ripetute sessioni d'ascolto di "Reckoning" potrebbero aver trovato uno dei loro dischi dell'anno.


venerdì 12 aprile 2024

The Yum Yums "Poppin' Up Again"



Un nuovo disco degli Yum Yums è la finestra di casa aperta sulla primavera dopo lunghi mesi di buio e freddo inverno norvegese; le gonne delle coetanee che si accorciano e si liberano dalla copertura ingombrante del piumone stagionale. È il gol della tua squadra del cuore in contropiede dopo novanta minuti in apnea. È la pizza vuncia con il birrone dopo il wash out imposto dal medico curante. È quel connubio magistralmente miscelato di power pop, pop punk e bubblegum music di cui, a cadenza tri o quadriennale, abbiamo disperatamente bisogno, e lo sappiamo.

Morten Henriksen e colleghi di turno mettono di nuovo la testa fuori dal guscio come suggerito dal titolo, al solito corredato da doppio senso poppettistico, e sono quelli di sempre. Tutti sanno cosa aspettarsi da loro, e gli Yummies non deludono. Sempre dichiaratisi sudditi devoti di Ramones, Real Kids, Plimsouls e Devil Dogs, nell'autocertificazione gli ex ragazzi da Moss non hanno mai tralasciato di indicare tra le muse ispiratrici gli Sweet (per la quota glam) e gli Ohio Express (per quella bubblegum). "Poppin' Up Again" è dunque un tubetto di concentrato pop ad alto contenuto energetico, che in quattordici tracce e mezz'oretta di puro divertimento raggiunge lo scopo prefissato dalla ragione sociale della casa: farvi stare bene.

Ricordate i riferimenti musical-culturali appena elencati? Bene, li conoscevate già, non c'era bisogno, avete ragione. E allora, le danze sono aperte da Vitamin U con un riff che sembra preso a prestito da Fox On The Run, e sono portate avanti da Got Me Good, il cui giro di chitarra in qualche modo richiama quello di Get Over You. Porti sicuri, siamo a casa. Baby Oh Baby, Steal My Heart Away e Sweeter Than You sono accademici esempi di grande power pop moderno e pure abbastanza tirato, mentre la traccia che regala il titolo all'album non poteva non essere un manifesto del suono Yum Yums tra sei corde stoppate, voci-laser e melodie senza tempo.

Si fatica parecchio a trovare lacerti debolucci, da qualunque angolatura si guardi l'album: Whole Lotta Kissin', Dance! e Foxy trascinano tutti nella più prossima balera, Come Back è un supremo frammento bubblegum che sarebbe stato a pennello nella raccolta "Right To Chews" e la deliziosa accoppiata Baby Doll/Candy pare uscita dallo studio di un Phil Spector rasserenato e senza la passione per le armi.

I testi, come tradizione vuole, sembrano ispirati alla Smemoranda del liceo, perché tutti invecchiamo, ma il romanticismo adolescenziale è uno stato della mente perdurante. Le turbe, però, qui sono prese con leggerezza, come sempre. "Poppin' Up Again" è un altro grandissimo disco di musica pop frutto della mente e della penna di uno  tra i più costanti (e consistenti) autori rock'n'roll contemporanei; un bellissimo album in grado di reggere il difficile paragone con il predecessore "For Those About To Pop", che a mio personalissimo parere resta il capolavoro supremo della banda: se avete ascoltato quell'opera, le conseguenze non sono difficili da trarre.

martedì 9 aprile 2024

Jose's Bad Day "Hi! Let's Eat"


Tim Reece è noto ai più, ma assolutamente ignoto a me, nelle vesti di leader di una seguita band da Oceanside, California, chiamata 40 Proof. Joe's Bad Day è il suo disegno nascosto; un angolo di relax con una poltrona e un tavolino e una penna per scrivere canzoni indossando la vestaglia di casa, in totale libertà. Le suona con gli amici e la famiglia - il figlio siede dietro ai tamburi - e i risultati non sono niente male.

Sbucato dal nulla, "Hi! Let's Eat" è un disco sorprendente in cui Reece compone libero eppure centrato nonostante le molte divagazioni sul genere; un lavoro elevato da liriche non banali e non consuete, suonato bene e in grado di emanare bagliori abbacinanti quando pesca il filone aurifero gravido di melodie che sembrano uscite dal pieno 1980. Due perfetti esempi del riferimento storico sono rappresentati dall'apertura Just Good Friends, sgorgante senza apparente sforzo da una chitarra jangle alla Don Dixon, e soprattutto dalla superba Just Good Friends, che pare un pezzo tagliato all'ultimo da "Get Happy" di Elvis Costello.


Per manifeste capacità evidentemente consigliato di posare i propri sguardi sugli spartiti di un pop chitarristico d'ispirazione new wave, Reece mantiene comunque saldo il proprio gusto nell'amalgama dei più tipici prodotti casalinghi: così How Will You Know? e Where Were You? tra dubbi irrisolti e domande senza risposta hanno le stigmate di certa americana ultra-retro marchiata dagli insegnamenti classici di Calvin Russell e Jerry Douglas, e persino la spericolata coppia Put Down The Bottle (And Pick Up The Phone)/Don't Make Me Pull Over muove passi sicuri pur arrischiandosi sullo spesso scivoloso terreno di un blues screziato da accordi d'organo che conferisce alla materia tinte para-soul.

 

Un frammento particolarmente commendevole nella degustazione di "Hi! Let's Eat" è di sicuro Say Anything, brano in cui Reece torna a pescare dal variopinto macrocosmo new wave della fine degli anni settanta, e dove le azzardate ma corpulente invenzioni melodiche dei 10cc si installano su chitarre d'andazzo reggae di cui Graham Parker avrebbe potuto servirsi in una versione rivisitata di Protection. Semaforo verde anche per Not Much To Write Home About e Drink The Water, difficili prove di minimalismo sentimentale per pianoforte e violoncello, ulteriori dimostrazioni della poliedricità di un autore atteso nel prossimo futuro su queste pagine con altro materiale di pari livello.

giovedì 4 aprile 2024

Jordan Jones "And I, You" (ep)


Quattro anni e mezzo sono passati dall'omonimo, sontuoso album d'esordio di Jordan Jones, un disco che fece andare in brodo di giuggiole la critica di settore. Ma è bene si sappia subito che tutto è cambiato, nel frattempo. Di quell'opera, in questo extended play nuovo di zecca, rimane poco o nulla, se non la straordinaria capacità scrittoria dell'autore da L.A. Quella sì, è ancora ben percepibile. Non più chitarre ringhianti e melodie vocali pronto-uso, e nemmeno inni powerpop neoclassici a presa istantanea. Quello era un lavoro eccezionale, finito ai piani alti della nostra classifica sul meglio del 2019, ma il compito, a volte faticoso, di chiunque si cimenti nel lavoro culturale è di sminare il campo rincuorante ma insidioso della precettistica. 

"And I, You" è un breve percorso in sette tracce durante il quale le sei corde lasciano spazio a ricchi e rilassati arrangiamenti per piano e archi, funzionali all'edificazione di un pop orchestrale e intricato con lo sguardo più orientato a Burt Bacharach che a Doug Fieger. Apre le danze l'elegantissima e strumentale Envelope Of Skin, ma la scena se la prende subito dopo il piano pop davvero entusiasmante di Listen. L'accoppiata Promise You/Forever-Adore You in qualche modo si ispira, non sappiamo se consapevolmente o meno, al soft rock ingiustamente dimenticato negli scatoloni da grande magazzino dedicati all' AOR americano degli anni settanta, con risultati che ripagano del notevole rischio, dobbiamo dire: i lussuosi arrangiamenti classicheggianti, ovviamente abbinati alle ispirate e sagaci linee vocali di Jones, non ci consentono di esimerci dal citare il ricordo di Steely Dan e Hall & Oates.

Can I Stay? alza leggermente i battiti del dischetto, ma è la sinfonia Love Song Of J - a detta dello stesso autore uno dei pezzi meglio riusciti della sua carriera - a stupire con la sua semplice eppure (o proprio per questo) indimenticabile linea melodica colta dai campi ubertosi di un paradigmatico pop per pianoforte e violini. Perché tutti abbiamo bisogno di certezze, e ci mancherebbe pure, ma la dispensa del comfort food è sempre ben fornita, e una divagazione inaspettata rappresenta un bonus che certo non guasta e aiuta a ricordare che gli orizzonti della musica pop sono vastissimi.

 

martedì 2 aprile 2024

Brent Seavers "Exhibit B"

 


Più di cinque lustri di pausa, dal 2001 al 2018, poi a Brent Seavers è tornata la voglia. Il capobanda dei clamorosi Decibels da Sacramento negli ultimi sei anni ha firmato cinque dischi; tre con il gruppo d'origine e altri due in solitaria. Dopo l'eccellente "BS Stands For", quinto nella classifica riguardante i nostri album preferiti del 2021, Brent è uscito dallo studio con un nuovo lavoro privato nuovo di zecca, che senza eccessiva sorpresa segnaliamo tra i migliori dischi usciti in questi primi quattro mesi della nuova stagione musicale.

L'autore che ormai quasi venticinque anni fa scrisse il leggendario capolavoro "The Big Sound Of The Decibels", sicuramente uno dei migliori album di genere pubblicati nel nuovo millennio, è un uomo abituato a darci tutte le sicurezze di cui abbiamo bisogno, ed "Exhibit B" è un' altra straordinaria opera in cui le istanze  power pop, mod, garage e rock'n'roll di chiara ispirazione sixties sono miscelate alla perfezione per creare canzoni destinate a essere memorizzate al primo ascolto.


La frizzantissima Roller Coaster Ride apre le danze con una sorta di doo wop accelerato dalle linee melodiche debitrici dei Monkees, che fa il paio con l' ugualmente energizzata No Perfect Way, perfetto esempio di quel sixties core che i Decibels si pregiano di aver portato negli anni su vette altissime e a tratti inesplorate. The Universe and I decora il miglior power pop della casa con intelligentissime linee di synth, mentre Till It's Over, nei suoi richiami beatlesiani, potrebbe essere scambiata per un pezzo prezioso del patrimonio Sloan per l'acribia messa negli arrangiamenti.


Certamente intonate al contesto, Push Me Down e Stumbling prendono la strada laterale di un garage per farfisa ottimamente congegnato - e sappiamo quanto sia difficile non risultare scontati in quell'ambito - laddove Lullaby è uno splendido lento soul dalle melodie cristalline. Il citaredo dalla California settentrionale brilla nel suo essere autore genialoide nella filastrocca The Noble Cause, intarsiata con graziosi strass di pianoforte, e dimostra la sua versatilità aggiungendo un po' di fuzz nella psichedelica Fuzz Off (per l'appunto), non dissimile da certe scritture dei grandi Telepathic Butterflies.


Brent Seavers, il quale ha ritenuto a ragione di concludere il percorso con la riproposizione del classico dei Decibels Raining In My Head, è un autore affidabile, nel senso più nobile dell'aggettivo: sai perfettamente ciò che troverai nel piatto, ed è esattamente quello di cui hai bisogno. "Exhibit B" è un lavoro che peraltro non teme di risultare scontato: Brent la materia la conosce bene, e la sa trattare come merita di essere trattata.

domenica 31 marzo 2024

Marc Valentine "Basement Sparks"



Marc Valentine ha l'aspetto un po' così, un po' Stiv Bators, e già questo è di buon auspicio. Non solo l'aspetto, peraltro, se ascoltiamo attentamente Strange Weather, traccia numero sette del nuovissimo "Basement Sparks": magari sognando, probabilmente idealizzando ma infine, ecco, non discostandoci troppo dalla realtà, la timbrica vocale in qualche modo rassomiglia quella dell'eroe nell'epoca "LA LA".

Scritturato dalla Wicked Cool di un Little Steven evidentemente folgorato dal predecessore "Future Obscure", Marc Valentine è uno degli autori più consistenti della scena, ammesso ne esista ancora una. "Basement Sparks" è il frutto di un artista di Norwich, ma il disco, figlio del combinato disposto tra riff di chitarre spesso intensi e voci zuccherose post-teenegeriali ha i connotati di un prodotto palesemente americano, sebbene non manchino contaminazioni est-atlantiche perlopiù riferibili a certo UK glam anni '70. Per dirla in altri termini, la sensazione è quella di un combo inglese che abbia metabolizzato le sacre dispense Poptopia e Yellow Pills: un esempio in tal senso sembra ben reso dall'apertura affidata a Complicated Sometimes, la quale pare un estratto di "Moustache", il disco d'esordio dei leggendari Farrah.

Skeleton Key e Strange Weather hanno i cori contagiosi che si sprigionano con inaspettate melodie dai riff corpulenti dei Marvelosus 3, e nel frattempo You Are One Of Us offre gli ormai (nostro malgrado) desueti stoppati nella strofa che spesso costituirono simbolo araldico del grande Paul Collins. Le divagazioni sulla trama base non mancano: così Ballad Of Watt e 3AM Anderson Drive sono ballate intriganti dal retrogusto anche un po' britpop, Tyrannical Wrecks incorpora un pizzico di sporcizia garage e Repeat Offender, nettamente debitrice di certa new wave dal Regno Unito, spariglia  le carte con prelibati stacchi para-reggae dal sapore Police.

I Wanna Be Alone riporta alla memoria certo pop USA che, nolente, è rimasto stipato negli scaffali dei grandi magazzini sotto il cartellone dell'alternative a metà prezzo ma avrebbe voluto (e potuto) essere radiofonico, e a un primo ascolto ricorderà agli appassionati le migliori opere di Copperpot, Rocket Summer e Jack's Mannequin, mentre le melodie irresistibili di Eve Of Distraction (titolo ingegnoso se ce n'è uno), foraggiate da tastierine apparentemente prese in prestito da "Panorama" dei Cars, chiariscono definendoli i tratti somatici di un disco che ogni appassionato di power pop anni '90 - pur sempre l'epoca storica in cui sembrava che qualcuno dei nostri ce l'avrebbe fatta - dovrebbe mettersi in casa, esultando di fronte a una speranza di un mondo migliore destinata a non morire mai.


domenica 17 marzo 2024

On The Runway "Tell Yourself It's Pretty"


David Norris è stato il motore principale di un gruppo power pop chiamato Crash Into June, attivo tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, e non dovesse sovvenirvi istantaneamente la citazione suggeriamo un urgente ripasso dei classici. Francamente ignorando come Norris abbia impiegato il proprio tempo negli ultimi vent'anni, festeggiamo l'agnizione manifestatasi sottoforma di una nuova band. On The Runway, da Memphis, Tennessee, provocheranno un sorriso nostalgico e compiaciuto in chi, molti anni fa, si è formato ascoltando di straforo le primissime college radio americane. "Tell Yourself It's Pretty", per l'appunto, è un disco giocato sulle diverse consistenze del jangle rock che negli anni '80, specie grazie a quattro ragazzotti di Athens, Georgia, è sembrato per un istante poter fare la voce grossa nelle classifiche. E allora, gli appassionati sanno dove stiamo andando a parare. 

La vena aurifera della musica indipendente diffusa dalle radio indipendenti nel sud degli Stati Uniti non restituiva nulla di scontato, da qualsiasi punto si osservassero le molte sfaccettature di un genere troppo spesso considerato dagli osservatori generalisti una mera e continua riproposizione degli stessi quattro arpeggi. Sono passati anni, ma gli eredi di quella storia ancora operano nella penombra, per ricordare ai più giovani che lo studio di Windbreakers, Church, Db's e Miracle Legion (non parlavamo forse di diverse sfaccettature degli 80's devoti alle chitarre?) non si traduce mai in tempo perso. In questo senso, "Tell Yourself It's Pretty" si offre come utilissimo Bignami, peraltro messo insieme da un tizio che le canzoni le sa scrivere molto bene, ché poi è il fattore decisivo per nobilitare non solo il jangle rock, ma qualsiasi forma d'arte preveda l'utilizzo di una penna.

 

Loser Of The Year e Bring Yourself Down, opportunamente poste in apertura e chiusura dell'album, suonano come coerenti manifesti di quanto scritto finora; due canzoni inzuppate di jangle sudista che avrebbero fatto una figura eccellente nella programmazione delle emittenti universitarie USA dell'epoca. Consolation Prize e This Will Be Your Year giocano su un doppio livello: un riff memore della potenza cristallina - che già di per sé è un ossimoro ma neanche troppo - dei Gin Blossoms a prendere il centro della scena, mentre a reggere la struttura dolci cascate di fragili arpeggi jangle si intrecciano nel sottofondo. Stuck On You, che trascinata da una melodia memorabile è forse il brano più vicino ai Crash Into June di "Another Vivid Scene", a tratti ricorda la grazia scintillante dei Church, mentre Lifeline, riff da circoletto rosso, spolvera il ricordo dei Teenage Fanclub del secondo periodo, quello di "Howdy!", per farci capire. 

 

I Teenage Fanclub, spesso citati a sproposito quando ci si riferisce a un certo sottogenere di pop chitarristico, sono invece un esempio perfetto per inquadrare la meravigliosa This Charade, melanconica e con gli occhi umidi, che sarebbe potuta stare su "Man-Made", così come i primi R.E.M. non possono non essere tirati in ballo parlando di House is Not a Home, altra perla di un disco che sarà  vera e propria manna per chi dal jingle jangle diffuso nel sud-est degli Stati Uniti quarantacinque anni fa è stato (e rimasto) irrimediabilmente segnato.


venerdì 15 marzo 2024

Mark & the Clouds "Machines Can't Hear You"

 


Si legge il nome di Marco Magnani e si sa a cosa si va incontro. Non si ricordassero i dati anagrafici, del resto, basterebbero le copertine. Marco da Bologna, già negli Avvoltoi a cavallo degli anni '90 ma residente a Londra da ormai numerosi anni, nel tempo si è costruito una solida carriera d'affidabilissimo menestrello psych pop. Tra i più continui e dotati autori nel sempre stipato stanzone sixties-revivalista, Magnani ha avvicinato l'apice della scena intorno alla metà del primo decennio del secolo, quando fondò i folgoranti Instant Flight che, oltre a un disco di debutto divenuto un sottoclassico di genere, di lì a poco si misero a giare con Arthur Brown, simbolo e leggenda di un'epoca e della trasposizione postuma della stessa.

Mark & the Clouds, trio che al fianco di Magnani schiera l'ex Instant Flight John O'Sullivan e Shin Okajima, sono arrivati al quarto album della carriera mantenendo la barra dritta e i gioielli di casa sempre ben riconoscibili. "Machines Can't Hear You" in qualche modo prosegue sulla strada tracciata dai predecessori "Blue Skies Opening" (2014), "Cumulus" (2016) e "Waves" (2021), offrendo al preparatissimo ascoltatore una rassicurante miscela di pop psichedelico con giacca floreale e pantaloni a strisce, eterei frammenti folk e alcune spericolate cavalcate quasi progressive. Abbastanza per soddisfare i cultori della materia, anche quelli più ortodossi, come sempre, ma le essenze pop nebulizzate qui e là, più frequentemente e con maggior ispirazione rispetto alla discografia antecedente, permettono all'album di ingranare una marcia superiore e di rimanere costantemente vivo nonostante la considerevole lunghezza (17 tracce).

Tanto vale rafforzare il concetto, dunque: i pezzi più strettamente pop della combriccola, ossia Swearing At The Moon con il suo incedere prossimo ai territori UK beat, Walking Dead Man dalle atmosfere colte dei primi REM e soprattutto l'indimenticabile Graves For You And Me, jangle pop adesivo come al meglio del genere può capitare, rappresentano tre decisi salti in alto propedeutici a un cambio di status di un album altrimenti destinato a rimanere un buon album di genere. Non che si vogliano mettere in discussione approccio filologico, interpretazione della materia cantautorale e capacità scrittorie di Magnani, che anzi conosce i suoi polli e sa maneggiare benissimo la sostanza sixties folk. Ma lo preferisco colorato e giocatore d'azzardo quando in What Can I Do? associa il Donovan di Barabajagal ad alcune spericolate chitarre fuzz, piuttosto che stretto nel confortevole paltò del crooner folk - bravo, bravissimo, per l'amor del cielo! - che aleggia durante Underground e Soul Of Nature, anche se gli arrangiamenti di archi nella prima e d'ottoni nella seconda sono certamente azzeccati.

 

Cercando altrove, meglio lo stupendo pop psichedelico alla Tomorrow di The Sun Goes Down del tentativo classic rock di The World Is Falling, un po' Come Together, un po' southern blues. La passione per il cantautorato folk di Magnani brilla quando è associato a costumi psichedelici e certamente l'assunto è comprovato dalla finale Two Minds In My Head, mentre le pulsioni prog, appena abbozzate in The Shadow e liberamente sfogate nel corso di The Age Of Clowns (undici minuti!) le lascerei valutare a qualcuno più competente di me sul tema. 

 

"Machines Can't Hear You" è un disco che ingrana la quarta quando non teme di lasciar scorrere liberamente la propria vena melodica, oppure il suo spirito paradossale. Succede in circa la metà dei pezzi, che meritano un gran voto. L'altra metà, per buona parte abbondantemente folk solo a tratti lisergico e per il resto acidognola e persino progressiva, soddisferà soprattutto gli appassionati più legati a quelle sonorità. Nell'insieme, un disco godibile nel complesso e a tratti eccellente. Ognuno ha le proprie preferenze, e naturalmente anche noi le nostre, ma obiettivamente Magnani la materia la conosce e la sa trattare. Avercene, di divulgatori così.

mercoledì 13 marzo 2024

Liquid Mike "Paul Bunyan's Slingshot"



Ho avuto modo di ascoltare l'omonimo album di Liquid Mike lo scorso anno. A differenza della stragrande maggioranza dei dischi omonimi che conosco, quello di Mike Maple da Marquette, Michigan, non era affatto un album d'esordio, ma addirittura il quarto della serie. Scelta inusuale, che in effetti importa poco. Sarà la città di provenienza, Marquette, luogo isolato per antonomasia, ad averlo tenuto fuori dal giro; non dico dal giro grosso, ma pure dagli ascolti standard di noi aficionados. Qualcuno, molto addentro a un certo tipo di questioni, deve averlo scovato per poi parlarne sui social che, vivaddio, qualche funzione encomiabile ancora la conservano. "Paul Bunyan's Slingshot" non incontrerà per questo i favori delle masse, ma almeno, adesso, se ne parla in giro. E a buona ragione, perché il ragazzo sa quello che fa. 

La materia qui è facilmente classificabile: 13 brani in 25 minuti di intenso, concentrato, reattivo alternative rock con i piedi ben piantati nelle classifiche di genere di 25 anni fa. Molto ispirata nelle soluzioni melodiche, mi azzardo a dire che la collezione, pur tradendo un certo qual debito con alcuni personaggi altamente sospetti, a tratti ne corregge persino i difetti che ai tempi me li avevano fatti apprezzare solo a tratti, o per nulla. Rumoroso, sì; derivativo, anche, ma se a vari stadi avete provato a farvi piacere come vi dicevano fosse doveroso i Dinosaur Jr. oppure i Foo Fighters, scontrandovi, voi amanti delle armonie fatte come dio comanda, con le voci di J. Mascis e Dave Grohl, qui c'è una chiave di volta. Si parla di costruzioni pop, non di paragoni, mi capirete.

Non mi perito di dichiarare che Drinking And Driving ricorda una versione più ristretta, melodica e meglio cantata dei Foo Fighters meno tamarri. Da aggiungere all'insieme dei grandi miti che mai, guardato male da tutti i miei coltissimi amici, sono riuscito a godermi fino in fondo, ci sono le varie esperienze di Bob Mould, del quale, scusate, ho sempre trovato indigesta la voce. Non le chitarre vagamente caotiche e nemmeno - giammai! - l'architettura dei brani; giusto l'impostazione armonica, che stupende saette come Works Bomb, /// e la title track in qualche modo sistemano.

 

Ho invece venerato e tuttora venero Evan Dando, e Town Ease in effetti ricorda una versione più sonica dei Lemonheads, mentre Mouse Trap e Pacer somigliano a degli American Hi-Fi più sporchi e meno presi da loro stessi. Altrove, AM è un lodevole frammento Weakerthans, e la superba Drug Dealer, più collegiale, è una gemma power pop di marca indipendente che ha assorbito anche la lezione dei sommi Nada Surf. 

 

Mike Maple, che nella vita di tutti i giorni fa il postino, nel corso delle tredici tracce narra con grande acume di isolamento, gentrificazione, di estati sprecate e - perché no? - anche un po' d'amore. Notevole, anche quando tutto ammanta di un sapido, caustico umorismo. Così nel corso di K2, che musicalmente ricorda un astuto mix tra i Nada Surf (ancora loro) e una versione più melodica e accelerata dei Built To Spill, a un certo punto della strofa non teme ripercussioni dai legali di Chris Martin mentre recita "You fell down when you passed out / A rush of blood straight to the head / pissed your pants and they were all yellow". Non così raffinato, direte voi. Grazioso, però. 

 

"Paul Bunyan's Slingshot" è un album breve, intenso e soprattutto molto ispirato. Io qualche indicazione ho provato a darla, ma se da questa stramba cornucopia ho pescato Lemonheads, Foo Fighters, Built to Spill e Bob Mould laddove voi riconoscerete Mascis, Jawbreaker e Weezer non ci sono errori di sistema. Abbiamo ragione tutti, è una questione di sensazioni (e indirizzi) globali. E, soprattutto, ha ragione Mike Maple. Da bere tutto in un sorso.

mercoledì 6 marzo 2024

Emperor Penguin "Gentlemen Thieves"



Tornano gli Emperor Penguin, ed è ovviamente una bella notizia. "Sunday Carvey" era stata una folgorazione per noi che già li conoscevamo per merito dello strabiliante "Corporation Pop" di cui a suo tempo parlammo su queste pagine, ma colpevolmente mai avevamo davvero approfondito una discografia ora giunta a sette album in quattordici anni di carriera. Quel disco traboccava effervescenza istrionica molto seventies - ma anche un bel po' XTC metà anni ottanta - con tutte le invenzioni e le bricconaggini del caso, mentre "Gentlement Thieves", disco di nuovissimo conio, sposta l'orizzonte temporale un decennio più indietro. Resta comunque difficile confinare gli Emperor Penguin all'interno di un territorio precisamente demarcato, e se il campo base in questione può dirsi più o meno battere bandiera UK beat, il costrutto generale è si, al solito, molto britannico, ma le influenze spuntano dal nulla e si irradiano verso le più imprevedibili destinazioni.

"Gentlemen Thieves" è un'opera dotta che narra storie di ladri e cita WB Yeates, ma non è un concept album. Le canzoni, come tradizione vuole, si reggono benissimo in piedi da sole, con la solita propensione alla dimensione singolo, almeno potenziale. L'ironia in qualche modo vittoriana pervade il contesto lirico e strumentale, con i soliti numi tutelari Costello e XTC ancora ben saldi nel pantheon.

That's The Worst It Could Happen, con i suoi bizzarri eco, riverberi e persino spruzzate di fuzz cela richiami power pop ante-litteram che occhieggiano alla beatlemania, mentre Silver Apples, con i suoi rimandi letterari, e Three More Years, posta in chiusura di percorso, definiscono le diversità di cittadinanza del suono con azzardate ma riuscite divagazioni di synth in un contesto piacevolmente proto-progressivo.

Eterogeneità che non si peritano di rimarcare Town Called Gone e Driving Blind, più corpulente: la prima strutturata su un disegno angolare da cui scaturisce un grande ritornello secondo un'architettura resa di grande successo dai Guided By Voices; la seconda, sempre caratterizzata da un lussuoso chorus, lambisce addirittura i territori di certo glam rock anni '70. Sonnez Les Matines, audace, parte con giro simil-reggae e viene trasportata da bassi compulsivi verso una sorta di eastern dance americana miscelata a certo madchester sound, e la strepitosa Pipistrelle è una gemma che evoca l'idolo Partdrige ornata da un astuto toy piano.

 

I libri classici del retroterra sciovinista britannico vengono ripassati nelle dispense titolate The Persuaders, traboccante dalla stretta intercapedine che separa Rubber Soul da Revolver, e You And Me, che sembra invece un outtake di Sgt. Peppers's con i suoi arrangiamenti a base di corni.

Disco eccezionale, sì, ma non sono ancora stati citati gli episodi migliori: uno di questi emana dalle chitarre tormentose e dalla batteria rotonda di Ladybird, grande power pop per palati fini; gli altri due dalla compartecipazione della solita Lisa Mychols, la quale eminentemente duetta con la voce di un preteso ma credibile Evan Dando intento a coverizzare Costello nel corso di I Would't Point It Like That, d'ispirazione vagamente jangle, e poi evoca la dea Kirsty MacColl nella lievemente psichedelica You Are My Atmosphere.

   

La manifesta idolatria per le prodezze musicali britanniche comprese tra il primo e il secondo Impero non si tramutano mai nella copia carbone di qualcos'altro. Le evidentissime capacità compositivo-scrittorie e il solito coraggio nel prendere la tangente imprevista fanno di "Gentlemen Thieves" un altro grande album degli Emperor Penguin, che ci permettiamo di pronosticare molto in alto in parecchie classifiche di fine anno, quando arriverà il momento.

Kool Kat | Bandcamp

 

giovedì 29 febbraio 2024

Radio Tangerine gennaio/febbraio 2024

 


In teoria avrei pensato di pubblicare una playlist con il meglio ascoltato negli ultimi trenta giorni circa alla fine di ogni mese, con pezzi in massima parte tratti da dischi recensiti sul blog. La realtà dice invece che sono subito partito con il piede sbagliato, e dunque la prima raccolta del 2024 è bimestrale, con la speranza di collocare le prossime a cadenza mensile. Questa riguarda le cose migliori finite sotto al radar di UTTT tra gennaio e febbraio di quest'anno. Fatene buon uso.

venerdì 23 febbraio 2024

The Maureens "Everyone Smiles"


Finalmente, a primavera de facto, cominciamo a parlare dei dischi in via d'uscita quest'anno.

Ho fatto per la prima volta conoscenza con gli olandesi Maureens nel corso dell'International Pop Overhtrow 2015 a Liverpool, dove Hendrik-Jan de Wolff e sodali si esibirono in un paio di show che mi lasciarono senza parole. Comprai il disco. La band mi vide mentre mi aggiravo per il Cavern Club con in mano il loro album di debutto. I ragazzi si davano di gomito lanciandomi sguardi tra il riconoscente e l'esterrefatto, come se ritenessero perlomeno bizzarro che qualcuno volesse mettersi in casa la loro opera prima. Ciò che mi colpì del gruppo in quell'occasione, oltre all'evidentissima capacità compositiva, furono i detonanti impasti armonici creati dagli intrecci delle loro voci. Qualcosa che non si ascolta proprio tutti i giorni.

Da quella trasferta sono passati quasi dieci album e altri tre dischi: "Everyone Smiles" è l'ultimo, pubblicato un mesetto fa a cinque anni di distanza dal precedente "Something In The Air". I Maureens centellinano, ma qualità e caratteristiche sono una gradevole costante. Il gioco, vincente, è quello di sempre: pop vocale di categoria superiore lucidato da armonie multistrato e da chitarre che in linea di massima tenderebbero al jangle, ora inclini a sfolgoranti escursioni verso il sole delle coste californiane, ora prodighe di richiami al retroterra folk e americana dei Jayhawks più melodici.

 

Il trittico iniziale formato da Stand Up!, Lost and Found e Sunday Driver fiorisce chiaramente in un microclima jangle pop, ma laddove la prima si dirama persino in rigoli che sanno di post brit pop dilatato alla Out Of My Hair, e la seconda vola su ritmi più alti di stampo indie pop, la terza occhieggia al PaulMcCartney periodo Rubber Soul. I Beatles, ma toh, nello specifico quelli più gentilmente dilavati da soffici chitarre acustiche, reggono le trame di Do You, Motherless Bird, Start Again e Only Child, mentre la carta classica della casa ispirata al sixties sunshine pop più tiepido propone piatti di gran pregio come Fell In Love, Alison e High & Dry In The Backseat, che lasciano percepire sintomatici umori Byrds, Left Banke e Billy Nichols.

Fuori dai sottoinsiemi, che sempre lasciano il tempo che trovano, si collocano Rainy Day, eccezionale spaccato di popicana tra Jayhawks e Long Ryders, e soprattutto il pezzo favorito della collezione: Warning Sign è né più né meno una luminescente gemma di power pop armonico che una volta sarebbe finita sulla classica cassettina, mentre oggi, essendo nostro malgrado cambiati i tempi, è destinata a essere pubblicata sul prossimo volume di Radio Tangerine. Per il resto, se gli intrecci vocali di lusso sono tutto quello che cercate, "Everyone Smiles" offre discreti spunti per godervela. Produce Frans Hagenaars, quello che ha messo l'oliva nel Martini in svariati dischi di leggende olandesi quali Daryll-Ann e Johan (a proposito di questi ultimi, aspettatevi novità a breve).

Meritorio Records | Bandcamp

domenica 18 febbraio 2024

2023, quello che ci siamo persi in diretta, piccolo riassunto in ritardo.

Stiamo strenuamente tentando di difenderci dall'irresistibile tentazione di non mantenere le promesse e dunque riproviamoci, a tenere il blog aggiornato: anche se ormai è primavera, ci sono rimasti nello scantinato quattro dischi 2023 di cui vorremmo parlarvi in breve, ancorché in sommo ritardo. L'idea sarebbe stata quella di scrivere pezzi singoli per ogni disco, ma nel frattempo le novità si stanno affastellando sulla scrivania e dunque bando alle ciance, essendo comunque la scusa classica sempre disponibile pronto uso: la musica non ha tempo, vabbè.

Cupid's Carnival "Rainbow Child"

Terzo disco per la band inglese dedita alla restaurazione filologica dell'epopea dei Fab Four. I Cupid's Carnival negli anni sono diventati beniamini tra gli appassionati di sixties pop, e a buona ragione. Addirittura pubblicati dalla Sony in Giappone, dove sono delle star minori, con tanto di colonnina dedicata nelle Fnac dei maggiori centri cittadini. "Rainbow Child" è un'opera scritta da appassionati per appassionati, e se già i precedenti "Everything Is Love" e "Color-Blind" rivelavano una certa competenza nell'approccio all'intero spettro musicale beatlesiano, le canzoni che popolano il nuovo album sono addirittura meglio riuscite, qualunque aspetto della british invasion prendano come spunto direzionale. Tanto quello d'estetica hippie e caleidoscopica della lennoniana Flower-Power Revolution, quanto quello dell'era "Help!"- "Rubber Soul" di cui sono certamente debitrici la ballata You're So Cool, l'acustica Thinking About You Girl e la splendidamente melodica Every Single Day. Miss You So Much, imporporata da sitar e slide guitar, aggiunge il necessario quid George Harrison al lotto, mentre Everything You Do è imperniata sul miglior jangle post-sixties rintracciabile su piazza. Chitarre Gretsch e Rickenbacker, basso Hofner, tamburi Ludwig. Sapete a cosa andate incontro. Sony Music Japan | Kool Kat

Angel Face "Angel Face"

Cambiamo decisamente registro, mantenendo decisamente alto il livello di entusiasmo. Angel Face è la nuova band messa insieme da Fink dei leggendari Teengenerate (ma anche di Raydios e Firestarter), in compagnia di Toyozo (Fadeaways), della signora Rayco e di tal Hercules, cantante dallo pseudonimo opinabile ma abrasivo il giusto al microfono. L'omonimo disco di debutto è decisamente imperniato su schiette sonorità punk settantasettine, per la verità non prive di una commendevole vena melodica per quanto sempre deviante verso il rauco. Dieci rapidi brani per una ventina di minuti scarsi d'ascolto e un irrefrenabile concentrato di power pop '79 suonato con ferocia punk un po' ovunque; Dictators in speed nelle entusiasmanti Bad Feeling e Big City; Stiv Bators con i pezzi del periodo caschetto e Rickenbacker suonati però all'epoca dei Dead Boys; ferraglia arrugginita eppure, o forse proprio per questo, irrimediabilmente irresistibile (un ascolto a Bring Me Back, conviene) e persino una spruzzata di doo wop al cianuro nell'esilarante I Can't Stop. Amore incondizionato. Slovenly Recordings | Bandcamp

The James Clark Institute "Under The Lampshade"

Da Toronto, Ontario, un album di quelli di una volta, come recita il press kit a più riprese replicato da agenzie di stampa e recensori vari: "Un disco fatto seguendo i comandamenti. Registrato in studio, con una band che suona dopo aver provato per mesi i pezzi. Con un ingegnere del suono di qualità e un grafico che sa il fatto suo. Taglio da tot papabili canzoni alle dieci elette che finiranno sui canonici 150 grammi di plastica nera. Copertina gatefold. Decine e decine di date per promuovere il tutto". Un lavoro laborioso e raffinato, che merita il secondo, il terzo e il quarto ascolto. Non così immediato, "Under The Lampshade" è un disco che "cresce addosso", se mi è consentito mutuare il tragico gergo dei giornalisti musicali. Tra numeri sixties pop guidati da inattaccabili organetti, ballate che tradiscono antichi dottorati in materia e momenti sinceramente trascinanti come la splendida e meravigliosamente intitolata Waiting On The Waitress, James Clark all'istituto fa la figura del secchione. Certi arrangiamenti vocali di stampo un po' soul sparsi in un paio di curve non sono per tutti ma tutti dovrebbero dar loro una chance. Altrimenti, assaporata una coltre di archi qua, un'indomita farfisa là, si può tornare alla casa madre, quella di Tom Petty e dei REM di "Fables Of The Reconstruction", che poi è la casa di tutti. Il nome scritto sul citofono è Black Licorice, Red Lips, stella di un disco che ha ottenuto tutta l'attenzione che meritava dai suoi stessi autori. Non vedo perché non dovremmo accordargliela anche noi. Official Website | Bandcamp

No Tears "Heart Shaped Eyes"

Uno degli highlight del mio 2023 è stato senza ombra di dubbio il concerto dei Velvet Crush a cui ho avuto l'onore di assistere nel corso dello straconsigliato Caravaca powerpop festival. Il leggendario gruppo di Paul Chastain e Rick Mench nell'occasione del breve tour in Spagna festeggiava i trent'anni del capolavoro "Teenage Symphonies To God", recentemente ristampato. Quest'introduzione per dire cosa? Che Christoffer Karlsson, nome di battesimo del tizio che in solitaria si cela dietro lo pseudonimo No Tears, ha scritto un disco che definiremmo "teenage rock'n'roll to God". O forse sarebbe meglio dire "teenage glam-pop to God". Fate voi. Ma non solo per questo, no. Strepitose perle di entusiasmo para-teenageriale come I Wanna Be With You (Tonight) - titolo sintomatico, capirete - e Broken Mirror, splendidamente arrangiate con tastierine Casio appropriate ancorché fuori tempo, ricordano molto da vicino le rare e geniali pubblicazioni dei Choo Choo Train, guarda caso la band che Chastain e Mench misero in piedi negli anni '80 prima di traslocare da Chicago al Rhode Island. Dreaming, Get Away e il potenziale, irresistibile singolo On 45 sono irrinunciabili spaccati garage pop non distanti nell'approccio dai lavori degli amati e misconosciuti Blips e persino - almeno nei momenti più melodici, e si prenda l'affermazione con le pinze - degli eroi nostrani Bee Bee Sea, se il loro retroterra culturale, nettamente punk, fosse contaminato da lunghe settimane passate ad ascoltare Quick, Milk'n'Cookies e Nick Gilder. Il disco, uscito lo scorso anno solo in formato digitale, è stato appena stampato in vinile, e in un certo senso potrebbe essere considerato eleggibile per le classifiche del 2024. Facezie burocratiche a parte, Christoffer Karlsson è uno degli "hot childs in the city", sperando apprezziate la citazione. Luftslott Records | Bandcamp


lunedì 29 gennaio 2024

2023, quello che ci siamo persi in diretta: Duncan Reid and The Big Heads "And It's Goodbye From Him"

 


Quando i vecchi eroi ricompaiono sulle mensole dei negozi di dischi il sentimento è sempre duplice: la gioia per la scoperta almeno potenziale di nuovi, inestimabili tesori si affianca al terrore dell'autoinflitto vilipendio e insomma, vorremmo ricordarceli giovani, belli e ispirati come ai tempi d'oro. Come tutti saprete, Duncan Reid è stato a suo tempo Kid Reid, basso e voce nella seminale - per una volta l'abusato aggettivo non mi pare usato a sproposito - band inglese The Boys, il famigerato e leggendario primo gruppo di area punk rock a essere scritturato da una major, nonché ensemble di sgangherati ma talentuosissimi figliocci di Brian Epstein.

Chiusa l'esperienza con la storia, Duncan Reid negli ultimi dieci anni ha dato vita ai testoni, The Big Heads, di cui "And It's Goodbye From Him" è il quinto e - come il titolo suggerisce - ultimo album di studio. Se per gli autori di I Don't Care, First Time, Weekend e decine di altri capolavori provate una vera e propria venerazione, il disco oggetto di queste righe dovrebbe rappresentare per voi un piacevole salto nel passato, oltre che una gradita fonte di delizia. Il meraviglioso incrocio tra power pop e punk che ha reso leggendaria la band di Duncan Reid, Matt Dangerfield e Casino Steel è qui tirato a lucido, tappeto sonoro con intelligenti ingegnosità scrittorie non lontane dal territorio Squeeze per testi riflessivi anche quando situazionisti, specchio degli ultimi disastrati anni.

Se l'apertura affidata a Lost Again, sorta di arena-power-pop un pizzico eccessivo, non convince del tutto, il disco esplode dalla traccia due, Funaggedon Time, provvista di intensi riff settanteschi e soprattutto di coretti che sospettiamo possano sviluppare un alto livello di tolleranza. Just Try To be Kind è classico power pop della casa, cui fanno seguito due tra i momenti migliori della collezione: Can I Go Out Now Please, un evidente allusione al confinamento coatto imposto dagli anni della pandemia, è sospinta da chitarre memorabili e da uno storytelling, per l'appunto, figlio della lezione Tillbrook/Difford, gli autori dello stesso compendio studiato per partorire It's Going So Well, midtempo di respiro sixties e d'azzardato, eppure riuscito, arrangiamento con tanto di violini.

Le perle sono disseminate un po' ovunque, e non sempre aderiscono in toto al menù standard: così Oh My My ha un involucro più moderno, non dissimile dal power pop radiofonico di Click Five e Ok Go, mentre Real Good Time prosegue sullo stesso canovaccio ma con impostazione più rock'n'roll e melodie zuccherose alla Yum Yums. Would I Lie To You? è un'inaspettata ballata folk decorata addirittura con violini zigani, It Rains On The Good ha scorza più coriacea alla Well Wishers e la conclusiva Singing With The Beach Boys porta a casa il disco alla grande grazie al memorabile ritornello e a un titolo che spiega molte cose. "And It's Goodbye From Him", certo. Ma dopotutto, ce lo si permetta, "Goodbye" vuol dire "arrivederci".

venerdì 26 gennaio 2024

2023, quello che ci siamo persi in diretta: SLD "Like Sunshine"


"Lost", il precedente disco di studio della coppia formata da Tom Parisi e Paul Costanza, uscì nel settembre del 2020, ma le registrazioni dei primi vagiti di quello che diventerà di lì a tre anni "Like Sunshine" iniziarono addirittura prima, nel febbraio dello stesso anno, giusto qualche giorno prima che il mondo si fermasse per la pandemia Covid. Una gestazione strana e tribolata, culminata con la scomparsa di Parisi nell'ottobre del 2022. Non potendo, com'è ovvio, incontrarsi di persona, Parisi e Costanza hanno proceduto scambiandosi mail, telefonate, bozze incise su messaggi di testo. Non che ciò differisse troppo dal loro metodo di lavoro usuale, a dire la verità. "Like Sunshine", nel suo risultato finale, è comunque un lavoro di significativo bricolage: alcuni brani sono stati scritti da Paul Costanza negli anni '90 e poi riarrangiati in vista del nuovo album; altri risalgono al periodo delle prime collaborazioni della coppia nel 2013; il resto è stato messo insieme a mo' di romantico collage tra il 2020 e il 2022.

 

Il risultato? Riuscito, concorderanno gli appassionati di certo pop a tinte tenui figlio degli anni sessanta, dove le trovate armoniche di certo McCartney al crepuscolo dei fab 4 pascolano in una bruma lievemente psichedelica e sapientemente si mescolano agli arrangiamenti al limite anche bizzarri degli XTC periodo "English Settlement". Hiding, Anita e la sublime Cold Level Heart sono per l'appunto ballate d'area psych folk tutto giocato sull'asse XTC-Macca, con il faccione ora occhialuto di Andy Partridge a far capolino anche - e soprattutto - nelle linee melodice di No Way Back e nell'improvvisa apertura melodica di cui beneficia l'ottima Friend of A Friend, lussureggiante brano che non troverà obiettori nel sempre nutrito gruppo di fans dei mitici Nines. A perfect Day, che poi dell'album sarebbe l'aperura, è tutta fiorita di chitarre e armonie Badfinger, mentre la title track, insieme alla più ambiziosa Matter of Time (non male l'uso del piano, qui) beneficiano di interessanti interscambi tra accordi maggiori e minori, specie quando inaspettati. Se nella filologicamete inappuntabile sequenza di influenze codificate deraglia una canzone, quella è certo N Train Song, un tempo medio molto bello per pianoforte, finache un pizzico straniante nel suo stacco adornato di synth spaziali.

 

Non fossimo stati sufficientemente chiari, ci premuriamo di chiudere ribadendo il concetto, magari sintetizzandolo: se di Paul McCartney, Andy Partridge e Pete Ham non vi stancate mai di cibarvi, qui c'è un tavolone imbandito di piatti di grandissima qualità, cucinati da quattro mani che sapevano maneggiare alla perfezione gli ingredienti della scuola classica.

giovedì 18 gennaio 2024

2023, quello che ci siamo persi in diretta: All Day Sucker "Feel Better"

 


Così corriamo il rischio di dare ragione ai molti che storcono il naso di fronte alle inevitabili classifiche di fine anno. Inutili, dannose, chi siete voi per stabilire voti, gerarchie, premi. Sono bignamini, compendi, redatti da appassionati tra loro differenti, rispondiamo noi, ognuno utile a colmare le lacune del prossimo suo. Suggerimenti, niente di più e niente di meno. Incomplete, le charts di fine anno, lo sono per loro stessa natura. Impossibile intercettare tutto lo scibile, anche se ci si limita a un campo d'interesse molto ristretto. Qualche disco l'abbiamo perso anche noi, umilmente ci cospargiamo il capo di cenere. Più di qualcuno, in verità. I migliori dunque meritano qualche battuta sulle pagine di UTTT, per festeggiare il ritorno alle cronache di questo blog in modo anomalo: non uno scritto sui migliori dischi dell'anno appena andato in archivio; non una panoramica sulle prospettive del 2024. Lo spazio se lo prendono i dimenticati d'una certa importanza, che rischiavano seriamente - non che d'ora in avanti possano ambire al disco d'oro - di passare inosservati.

"Feel Better", il nuovo disco degli All Day Sucker uscito a metà novembre, avrebbe avuto la possibilità di issarsi fino alla top 30, per quanto importa, e cioè poco più di zero. Jordan Summers (produzione e tastiere) e Marty Coyle (voce) bazzicano la scena pop di Los Angeles da tempo immemorabile, e insieme sono stati e sono protagonisti dei progetti FF5 e F.O.C.K.R.s. Il nuovo album, prodotto addirittura da Dave Way (dietro la consolle anche per Foo Fighters, Beck e Pink, per dire il personaggio) esce a otto anni di distanza dal predecessore "Denim Days", e rappresenta un passo - se avanti o indietro lo deciderà la storia - molto importante per il duo, soprattutto dal punto di vista esistenziale. Se non altro, si cresce: qui si narra delle complicazioni della seconda fase della vita adulta e quindi di divorzi, di perdite affettive, di figli e figlie da accudire, meglio che si può. Come non è difficile immaginare, del resto, l'involucro sonoro di cotanta responsabilità collegata all'esistenza non è cupo, anzi. O meglio, gli episodi amari, specie sul calare del disco (The Hell You Don't Know e Hardly Any Wonder) ci sarebbero pure, ma "Feel Better" rimane nella memoria per via di un pop complesso e sofisticato, a tratti perfino eccentrico, più luminoso che no.

E così Silent Island, la traccia d'apertura, rischia di scoprirsi retrospettivamente uno dei migliori brani dell'anno trascorso; un pezzo power pop micidiale, con melodie indovinatissime che si fregiano di arrangiamenti spudorati e di un drumming parecchio corpulento. I'm not Tired trasuda speranza, evidentemente, attraverso uno storytelling reminiscente di Chris Difford e Jeff Lynne che tornerà sovente con l'andare nelle tracce e che ritroviamo con piacere nella strepitosa Wilt, dove l'uptempo più Squeezy flirta con la pregevolissima trama di synth per sostenere la struttura di un grandissimo ritornello. Il brano, che ci perdonerete se definiremo neo-barocco, ricorda due sodalizi ingiustamente minori ben noti su queste pagine come Skeleton Staff ed Emperor Penguin. Bitter, il primo singolo estratto dall'album, viaggia in tempo medio con un pianoforte e uno stile di canto che fanno molto Macca fine settanta, e Last Night At Gladstones è un'altra meraviglia pop gemmata da genialoidi controcanti in falsetto che racchiude lo spirito del disco: "Non ho l'energia per portare avanti il lavoro", canta Coyle, "ma se tra noi è la fine immagino che il mondo andrà comunque avanti".

Il resto dell'album è trapunto di ballate, ora figlie della lezione sunshine, del resto siamo in California, altre feconde di un immaginario seventies, sia per produzione, alquanto radiofonica - una volta si parlava di adult oriented rock, anche se non ho mai capito cosa ben volesse dire - sia per alcune spericolatissime trovate musicali (il basso di Sidewalk Hearts, roba da febbre funky per un venerdì sera del 1975, riesce comunque a non intaccare la coerenza di un cristallino soft pop dal retrogusto vintage coltivato in involucro moderno).

Si cresce, ci sono complicazioni, ma alla fine ci si assesta. "Feel better", dicono i nostri. Ci sono stati momenti peggiori. Una storia di Los Angeles. Una, anzi due, come tante. Poi tutto dipende da come le si racconta, le storie. "Questo disco è un omaggio alla nostra personalissima chiesa", ha chiosato Coyle in coda a un'intervista, "un inno al tempio della nostra musica. Abbiamo cercato di scrivere canzoni che ci sopravviveranno". Con qualche orecchio attento in più, non dovrebbe essere un obiettivo impossibile.