Tim Reece è noto ai più, ma assolutamente ignoto a me, nelle vesti di leader di una seguita band da Oceanside, California, chiamata 40 Proof. Joe's Bad Day è il suo disegno nascosto; un angolo di relax con una poltrona e un tavolino e una penna per scrivere canzoni indossando la vestaglia di casa, in totale libertà. Le suona con gli amici e la famiglia - il figlio siede dietro ai tamburi - e i risultati non sono niente male.
Sbucato dal nulla, "Hi! Let's Eat" è un disco sorprendente in cui Reece compone libero eppure centrato nonostante le molte divagazioni sul genere; un lavoro elevato da liriche non banali e non consuete, suonato bene e in grado di emanare bagliori abbacinanti quando pesca il filone aurifero gravido di melodie che sembrano uscite dal pieno 1980. Due perfetti esempi del riferimento storico sono rappresentati dall'apertura Just Good Friends, sgorgante senza apparente sforzo da una chitarra jangle alla Don Dixon, e soprattutto dalla superba So Pretty I Lie, che pare un pezzo tagliato all'ultimo da "Get Happy" di Elvis Costello.
Per manifeste capacità evidentemente consigliato di posare i propri sguardi sugli spartiti di un pop chitarristico d'ispirazione new wave, Reece mantiene comunque saldo il proprio gusto nell'amalgama dei più tipici prodotti casalinghi: così How Will You Know? e Where Were You? tra dubbi irrisolti e domande senza risposta hanno le stigmate di certa americana ultra-retro marchiata dagli insegnamenti classici di Calvin Russell e Jerry Douglas, e persino la spericolata coppia Put Down The Bottle (And Pick Up The Phone)/Don't Make Me Pull Over muove passi sicuri pur arrischiandosi sullo spesso scivoloso terreno di un blues screziato da accordi d'organo che conferisce alla materia tinte para-soul.
Un frammento particolarmente commendevole nella degustazione di "Hi! Let's Eat" è di sicuro Say Anything, brano in cui Reece torna a pescare dal variopinto macrocosmo new wave della fine degli anni settanta, e dove le azzardate ma corpulente invenzioni melodiche dei 10cc si installano su chitarre d'andazzo reggae di cui Graham Parker avrebbe potuto servirsi in una versione rivisitata di Protection. Semaforo verde anche per Not Much To Write Home About e Drink The Water, difficili prove di minimalismo sentimentale per pianoforte e violoncello, ulteriori dimostrazioni della poliedricità di un autore atteso nel prossimo futuro su queste pagine con altro materiale di pari livello.
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