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giovedì 27 febbraio 2020

Addio David Roback, sei stato tra quelli grandi per davvero.



Se n'è andato giovane, a soli sessantuno anni, ucciso dal cancro. David Roback è stato uno dei figli prediletti dei Nuggets, padri a loro volta di quella che con orgoglio noi nipoti possiamo chiamare "la nostra musica". Era nato a Los Angeles il 4 aprile del 1958, e i primi vagiti li espresse insieme al fratello bassista Steven e a Susanna Hoffs - sì, quella Susanna Hoffs - negli Unconscious. Di lì a poco diede vita con Matt Piucci ai grandi Rain Parade, band cardine del variopinto movimento passato alla storia come paislay underground di cui incarnavano la componente più psichedelica.



Roback mollò il gruppo subito dopo il leggendario disco d'esordio "Emergency Third Rail Power Trip" e insieme a tutte le autorità della scena, rappresentanti di Dream Syndicate, Three O'Clock, Bangles, Green On Red, costruì il progetto Rainy Day, durato un disco e nove cover, per poi buttarsi insieme a Kendra Smith nell'avventura Opal.

I Mazzy Star, forse il suo outlet più famoso, nacquero quando Kendrà lasciò, sostituita da Hope Sandoval nel 1988. Per la coppia tre album tra il '90 e il '96 e uno iato di anni diciassette prima dell'ultimo vagito del 2013, il tutto segnato dalle chitarre lisergiche di Roback, dalla voce eterea e melodiosa di Sandoval e dal timido successo, peraltro non richiesto, del singolo Fade Into You tratto dal secondo album di studio "So Tonight that i Might See".

"Non cerchiamo da nessuna parte il successo, perché il nostro obiettivo è essere completamente liberi", questo il Roback-pensiero rispondendo a una domanda sulle prospettive di vendita dei Mazzy Star. Parafrasando Susanna Hoffs, "ci mancherai eternamente".



mercoledì 26 febbraio 2020

Disco del Giorno: Råttanson - I'd Much Rather Be With the Noise (2020; Kool Kat)


Cosa si diceva qualche giorno fa? La Scandinavia è la terra promessa del pop chitarristico e, guardate un po', i fatti continuano a dar ragione alla suddetta tesi. Da quando siamo ripartiti con gli aggiornamenti in maniera un minimo strutturata, due novità su tre sono arrivate da quelle parti: prima furono i finlandesi Pastis, ora è la volta di Mister Henrik Aspeborg, pressoché solitario gestore dell'ottimo disegno chiamato Råttanson. "I'd Much Rather Be With the Noise" è il secondo album sotto il presente pseudonimo per l'autore già noto alle cronache locali nelle vesti di leader dei poppettari Fanscene e del combo garage Rawhides, e l'edizione che qui presentiamo è nuova di zecca.

Il disco era originariamente uscito nel 2019 edito dalla Open Mind Records di Upssala - la stessa casa degli eccezionali In Deed, il cui "Everest" rimane una delle migliori produzioni swede-pop degli ultimi tempi - la quale aveva optato per le opzioni vinile e download digitale. Mancava l'operazione cd, e la lacuna è stata colmata qualche giorno fa dalla benemerita, dovremmo forse chiamarla leggendaria, Kool Kat Records del grande Ray Gianchetti. Discorsi relativi a formati e supporti a parte, l'album in questione meritava in effetti una maggior diffusione oltreoceano: sospeso tra power pop, garage lo-fi e rock'n'roll da sordida bettola, "I'd Much Rather Be With the Noise" colpisce dritto al cuore sin dall'apertura affidata a Small Venue Concert, già dal titolo imprescindibile per chi come il sottoscritto gestisce e frequenta da una vita esclusivamente locali di quella risma. Il pezzo, dal ritornello adesivo, insieme a Hometown Out-of-Towner, Dancing on the Head of Snakes e Want You Around rappresenta il contingente più puramente pop del disco, con risultati molto più che apprezzabili.
 

Altrove, si prendano a esempio In a Peak State With You e Risking My Heart, il clima cambia e l'ambiente diventa quello del vostro abbeveratoio preferito, mentre la colonna sonora è fornita da una band invasata di Bo Diddley e Willy DeVille. Il lato garage del profilo caratteriale di Aspeborg è manifesto in episodi quali Rathole Guest e Sixgun Smile, in cui pare di sentire i Seeds capeggiati da Ray Davies al posto di Sky Saxon, e una menzione a parte la merita No Best of Me, di inclinazione simile ma dalla componente melodica più accentuata: pensate ai celeberrimi Coral, i primi, se non avessero avuto soldi sufficienti a pagarsi lo studio di registrazione.
   
Il banjo immerso in una salsa soft-punk che avrebbero potuto cucinare i Pansy Division apprezzabile nel corso di Sure Of My Doubts e il jangle di Kiss This Year Goodbye infiocchettano un album che, l'avessi scoperto nella sua prima versione, avrebbe fatto forse parte della top 25 dell'anno passato. Poco male, Ray Gianchetti ci ha concesso la possibilità di rimediare, e quando sarà tempo del consuntivo 2020 con ogni probabilità ne riparleremo.

lunedì 24 febbraio 2020

Too Little Time Podcast!


Tra le altre cose, ultimamente insieme ad antico sodale s'è dato vita a un Podcast dove grossomodo si chiacchiera di musica. Anche di power pop, ovviamente. Le uscite saranno più o meno a cadenza settimanale, dategli un ascolto!

Ascolta "Too Little Time - Ep. 1" su Spreaker.

giovedì 20 febbraio 2020

Disco del Giorno: Anton Barbeau - Kenny vs Thrust (2020; Big Stir)


Da qualche lustro Anton Barbeau, vecchio menestrello da Sacramento, gode nel mettere in difficoltà archivisti e storici della musica tutti. Gli album da solista, partendo dall'esordio "The Horse's Tongue" creato insieme al sodalizio Joy Boys e immatricolato nel 1992, dovrebbero essere quindici, essendo il condizionale obbligatorio. Se espandiamo il campo a duetti, maxi-collaborazioni e insomma alle uscite in cui il Nostro è stato fondamentale protagonista i conti tendono a farsi complessi alquanto: c'è chi sussurra che le tre decine siano state superate, e pare che il margine di approssimazione non sia lontanissimo dalla realtà.

Il 2020, grazie al patrocinio dell'inarrestabile Big Stir, etichetta californiana che detiene ormai lo scettro di miglior power pop label in circolazione, ci regala l'ennesimo episodio della saga, chiamato "Kenny vs Thrust". Ma chi sono Kenny e Thrust, i protagonisti dell'immaginario duello inscenato dal mago Anton? Molto semplicemente, si tratta delle due band che lo accompagnano sui palcoscenici di mezzo globo: l'una (Kenny) durante i tour negli Stati Uniti; l'altra (Thrust) per quelli sulla nostra sponda dell'Atlantico. Nato e cresciuto in California ma attualmente residente con vista su un canale berlinese, egli ha scelto di non trascurare alcuna delle sue due anime mentre affronta il pubblico tra vecchio e nuovo continente.

"Kenny vs Thrust" è un nuovo lp ma non è un vero e proprio disco nuovo. Sarà eleggibile per le classifiche di fine anno, questo è sicuro, ma in quel senso è meticcio. "Si tratta di un tributo ai due gruppi di amici che mi accompagnano in tour da secoli, per questo ho scelto di chiamare il disco in questo modo", ha dichiarato Mr. Barbeau nelle opportune note che accompagnano il comunicato stampa. "Suoniamo dal vivo molti pezzi in scaletta da tempo immemorabile e alcuni di essi non sono mai stati registrati, mentre altri compaiono disseminati su vecchi dischi in versioni che non mi hanno mai convinto. Era l'occasione buona per mettere tutto insieme e pubblicare, grazie al placet della grande Big Stir, un nuovo album".

Musicalmente, per tornare al fulcro della discussione, siamo al solito concentrato di pop psichedelico di ispirazione Hitchcock-Partridge-Frond con quel tocco cantautorale pazzerello che Anton elargisce senza parsimonia e che da sempre lo rende personale. Se è vero che le influenze sono palpabili, è ancor più vero che un suo pezzo è un pezzo suo e non lo confondereste con quello di nessun altro autore. Quindi, fatte le dovute premesse, l'apertura Wire From the Wall e Beautiful Bacon Dream paiono delle outtakes ridisegnate del repertorio Soft Boys e anche Haunted in Fenland, dall'andazzo comunque un po' dylanesque, richiama l'essenza del nostro Robyn preferito.


Il registro cambia sensibilmente nel corso di Back to Balmain, dove compaiono anche alcuni deliziosi synth a far da tappeto a una struttura armonica-vocale di matrice marcatamente Lennon che l'erede Harrison - Robert, non George - ha riportato ai più meritati fasti nell'opera The Big Picture. I testi classici dei Beatles epoca Sergente Pepper traspaiono pure da Mahjong Dijon, mentre Clean Clothes in a Dirty Bag varia in un rock'n'roll che odora di Stiff. Un passaggio negli highlight del disco lo merita infine Popsong 99, sghemba, dalle variazioni di ritmo imprevedibili e dall'incedere travolgente, qui in versione restaurata rispetto alla prima apparizione del 2006 all'interno dell'album "What if it Works?" registrato insieme all'indimenticata Loud Family di Scott Miller.


Anton Barbeau quasi trant'anni e trent'album dopo continua a impersonare il genietto psichedelico libero da convenzioni sociali, dotato di uno stile che ci ricorda i nostri cari eppure unico, con l'autorità di intervenire sulle questioni sociali più disparate senza risultare stucchevole grazie a un wordplay alla Difford che non si compra e non si insegna. Teniamocelo stretto.

mercoledì 12 febbraio 2020

Disco del Giorno: Pastis - Circles (2019; Stupido Rec.)


La Scandinavia, da sempre, è fonte inesauribile della miglior musica pop in circolazione. Anche inspiegabilmente, se vogliamo, da quelle parti il power pop, o pop chitarristico, non stiamo a fossilizzarci su etichette con poca ragione d'essere appiccicate, ha attecchito in maniera spaventosa, specie negli anni '90. Qualità media? Altina. Il centro dell'impero, con fiori all'occhiello tipo Merrymakers, Beagle, Grass-Show, Popsicle e ampia compagnia, era senza dubbio la Svezia, ma la benefica influenza si è spesso propagata qualche chilometro più a est oltre il Golfo di Botnia, per consentire ad alcune apprezzate band finlandesi di fiorire.

I più famosi di tutti, per il contesto che ci interessa, dovrebbero essere i grandi Lemonator, autori a cavallo del cambio di secolo di alcuni album che ricordiamo con grande piacere, ma di roba buona è continuata a circolarne parecchia e per mancanza di tempo ci limitiamo a ricordare, a titolo di prova, i Tunes del celeberrimo "Bright Yellow Sun", uno dei dischi più riusciti dell'anno di grazia 2005.

I Pastis, bizzarro nome anzichenó, sono in cinque e vengono da Helsinki a ricordarci per l'ennesima volta che le classifiche sui migliori dischi dell'anno non andrebbero fatte a gennaio, ma ad aprile inoltrato. Uscito nel 2019, "Circles" è il loro album di debutto e un posto nelle prime dieci piazze della mia sindacabile classifica sul meglio degli scorsi dodici mesi l'avrebbe trovato di sicuro. Fortunati poiché provvisti di un istinto pop che non si compra, i finnici hanno messo insieme undici tracce scritte da Dio, ammesso che Dio si sia mai cimentato nello scrivere pop tunes, abilmente sospese tra power pop e brit pop: una volta, prima che il termine perdesse ogni senso a causa dei gravi abusi di cui è stato vittima, l'avremmo chiamato indie pop. Tenero, delicato, caro vecchio indie pop.

"Circles" parte con Around Here, di deliziose chitarre e sghemba costruzione, permeato da melodia irresistibile e chorus trascinante, se mi perdonate l'incauto eufemismo, e vale come dichiarazione d'intenti. Si incomincia bene e si procede meglio, poiché The King and the Good Hangman estasia con un crescendo melodico disumano che fa imprevedibile pendant con la delicatezza, che quasi chiameremmo timidezza, dei sublimi controcanti. Si vola in generale su vette di notevole altezza e di riempitivi non se ne scorge l'ombra. Tra i tanti episodi meritevoli urge segnalare Got a Light, soffice jangle dal sapore sognante che collega alla memoria di Leigh Gregory e dei purtroppo dimenticati Mellow Drunk, l'altro potenziale estratto Sheepskin Girl con le sue chitarre una tantum sferraglianti e senza dubbio Barrack Street, dedicata allo sfortunato esploratore vittoriano David Livingstone, dal tenore sunshine pop un po' Lovin' Spoonful.


Amazon, addirittura singolo apparso in sette pollici nel 2018, è stato comprensibilmente scelto come modello da mettere in vetrina, con il gang-chorus che si ritrova, ma i ragazzi ci tengono a far sapere di essere abili anche a maneggiare la forma-lento, come dimostra l'encomiabile Valour Valour. Una menzione speciale la merita la Ballad of Franz Reichelt, l'inventore che si sfracellò al suolo dopo aver sperimentato infruttuosamente il paracadute di sua invenzione: più wave e cupa, essa differisce dai toni generali dell'album per aprirsi in un anomalo ritornello al limite del commovente. La title track, posta in chiusura, ventidue anni fa sarebbe stata una brit pop anthem minore, poiché davvero ne possiede il phisque du role, ed è la degna conclusione di un album delizioso e per giunta reperibile anche in vinile. In casi come questo si va abbastanza sul sicuro.