Non capita spesso che un disco di power pop riesca a evitare il pantano dell’imitazione e, insieme, a restituire freschezza a una forma tanto frequentata quanto abusata. Ma il secondo album dei Drugs in Sport ci riesce, e con un’agilità sorprendente. Il titolo – If Only We Could Use These Powers For Good – suona come una battuta lasciata a metà tra sarcasmo e autoconsapevolezza, ma in realtà è tutto il contrario: questo disco usa i suoi poteri benissimo. E lo fa giocando pulito, senza nostalgia pelosa né posture da falsi outsider.
Il gruppo viene da Newcastle, Australia, e aveva già fatto parlare di sé col debutto omonimo del 2022, ma qui mostra un altro passo: la scrittura è più matura, la produzione (di Geoff Mullard, con master di Nick Franklin) più rifinita senza perdere grana, e l’intesa tra i membri evidente fin dal primo minuto. In un tempo in cui troppe band confondono lo-fi con trascuratezza, i Drugs in Sport puntano invece su nitore, economia e precisione.
Cooked apre con decisione, un mid-tempo nervoso che imposta il tono: chitarre compresse ma brillanti, batteria quadrata, melodia che si accende a metà. Ma è con Snuffed che si entra nel vivo: riff circolare, coro a presa rapida, bridge che taglia netto — power pop alla maniera dei primi Fountains of Wayne, ma con una certa ruvidità da garage australiano che lo tiene lontano dalla caricatura.
Frequently Sideways vira su un tono più ironico, una via di mezzo tra lo Slack Pop dei Pavement meno slabbrati e certe cose dei Fastbacks: una canzone che sembra disordinata finché non ci si accorge di quanto sia costruita bene. Squander the Day, già uno degli highlight in sede live, è un piccolo inno generazionale mascherato da episodio jangle-pop: malinconico, luminoso, tutto in levare.
Troll and Trigger è la più ruvida del lotto, quasi punk-pop nei modi, mentre Elites and Deletes torna su un registro più articolato, con cambi di ritmo che ricordano certi momenti meno lineari dei Redd Kross. Il riff di Gravitational Crush è puro caramello elettrico, e il ritornello è di quelli che restano in testa senza chiedere il permesso — power pop come si dovrebbe insegnare nei conservatori, se ne esistessero.
Burning Churches è forse il brano più melodicamente ricco del disco, con una tensione sottopelle che non si risolve mai del tutto, e A Touch Too Rough rallenta i giri senza perdere precisione: si intravede qui una vena alla Matthew Sweet, ma meno sdolcinata, più concreta. La chiusura è affidata a Embrace Absurdity, che è esattamente quello che il titolo promette: un’esortazione a stare nel caos con dignità pop e una melodia che sale, sale, e poi non cede.
Nessun brano sfora i quattro minuti, eppure il disco non ha fretta: ogni traccia è lavorata come un piccolo singolo, con attenzione ai dettagli, ai finali, ai ponti — tutte cose che chi ama davvero il pop sa riconoscere e apprezzare. È un album che riesce a far coesistere energia e riflessione, leggerezza e mestiere, e che conferma i Drugs in Sport come una delle band più solide e intelligenti della scena indie-pop contemporanea.
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