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venerdì 22 gennaio 2010

Disco del Giorno 22-01-10: The Beat Rats - A Cellar Full of Rats (2009; Kool Kat)

Quando il promoter musicale scozzese Andi Lothian coniò il termine beatlemania nel 1963, con tutta probabilità alludeva ad un fenomeno più che altro di costume. Enorme, uno dei più devastanti della storia, ma pur sempre un fenomeno sociologico e di antropologia culturale, come è stato sempre definito. Mi spiego. Ancorchè contenitore di un periodo fatto di folle adoranti, caos positivo, urla ai concerti, pianti e svenimenti di massa, la beatlemania, così come la si è sempre intesa, non aveva particolari connessioni con la faccia artistica dei Beatles. Ciò che sto cercando di dire è che, probabilmente, lo stesso Lothian non si aspettava che il beat incendiario dei primi Beatles, e mi si perdoni il gioco di parole, avrebbe fatto proseliti a quasi mezzo secolo di distanza da quei primi giorni di giubilo. E invece.

Gli ultimi cinquant'anni di storia della musica sono colmi di grandi nomi associati alla beatlemania postuma, e dal momento che detti esempi rappresentano una buona fetta del pantheon di questo blog trovo sia inutile nominare i più importanti. Basta e avanza dire che oggi, grazie al solito patrocinio del sommo Ray Gianchetti e della sua Kool Kat records, possiamo urlare, strapparci i capelli e svenire nel nostro piccolo ascoltando A Cellar Full of Rats, l'album di debutto dei newyorkesi Beat Rats. Un disco che, grazie ad un percorso filologico ineccepibile, si presenta proprio come ci si aspetterebbe: poderoso beat'n'roll da balera, quando la balera era una cosa seria. Talmente furibondo, assassino e madido di sudore da ricordare davvero quei giorni ad Amburgo nel 1961. Merseybeat, certamente, ma di quello originale, molto più devoto ai fab four quando in realtà erano i fab five, con Stu Sutcliffe al basso e Pete Best seduto dietro ai tamburi. Un'orgia di musica popolare, ma veramente popolare, marchiata a fuoco dall'esperienza r'n'b e drogata da una carica armonica che ne rende consigliato l'ascolto a tutti i lettori di UTTT.

Ci siamo capiti, credo, e per una volta non è nemmeno necessario citare le singole canzoni, perchè ciò che qui conta è il feeling generale, la debordante carica energetica, il sapore di una storia che parte da lontano e che tuttavia ancora e soprattutto oggi vanta radici molto profonde. Chitarre sferraglianti, entusiasmo giovanilista all'ennesima potenza, drumming devastante. Il rock'n'roll di Buddy Guy e Boo Diddley filtrato dall'esperienza dei primi Pretty Things e dal fiume Mersey in un giorno di piena. Non solo. Un'esperienza che quando sfocia nei roventi assalti strumentali riporta in vita anche Link Wray. Uno dei dischi più divertenti ascoltati in tutto il 2009.

mercoledì 13 gennaio 2010

Guardando il 2009 dallo specchietto retrovisore...

Tre dischi 2009 per iniziare alla grande il 2010!

John Lefler - Better By Design (2009; autoprodotto). Chi avrebbe mai detto che dentro al cuore emo dei Dashboard Confessional si nascondesse un talento powerpop di questa portata? Nessuno, ad occhio e croce. Invece non si vive di solo Chris Carrabba, e dietro le quinte si cela un autore che a nostro modo di vedere è di molto superiore al capo. Si tratta di John Lefler, che nelle pause tra un tour ed un album dei Dashboard Confessional ha registrato dodici pezzi di gaudente ed entusiasta powerpop di quello che piace tanto da queste parti. I riferimenti sono palesi ma garbati: Dream Your Life Away sgorga essenza Jellyfish ancorchè spuria, Afraid Anymore vanta una serie di somiglianze con i racconti dei Fountains Of Wayne periodo Welcome Interstate Managers e la title track è un chiaro tributo a Mr Blue Sky degli ELO. C'è spazio anche per un prezioso brano jangler come Lucy e per la stupenda Helplessly, che ricorda - soprattutto a livello di stile vocale - alcuni tra i migliori cantautori powerpop degli ultimi due anni come Justin Kline, Devlin Murphy e Adrian Whitehead. Plauso finale alla danzereccia ed impagabile Ordinary Boy, gravida di una trasognata ironia che farà sicuramente piacere ai tanti fans degli Squeeze. Senza ombra di dubbio una delle grandi sorprese del 2009, ed un valido contendente ad un posto nella top 10 di fine anno. (www.myspace.com/johnlefler)

Kevin McAdams - It's My Time To Lose My Mind (2009; autoprodotto). I batteristi sono un pò come i portieri. Solitari, particolari, un pizzico fuori di testa. Kevin batterista lo è di professione, e presta da anni i propri servigi dietro ai tamburi presso svariati complessi di stanza a Nuova York, ma da qualche tempo ha deciso di fare il grande passo e di piazzarsi dietro ad un microfono e ad un taccuino, dove ha annotato i primi istinti di songwriter agli esordi. Passione e volontà gli hanno infine permesso di mettere insieme un lp chiamato It's My Time to Lose My Mind ed uscito verso la metà dello scorso anno. Il disco è, diciamolo, bizzarro ed ambiziosetto. Difficile da capire ai primi ascolti se si fa eccezione per l'introduttiva Start Over Again (azzardo: i Daryll-Ann in piena deriva modernista?), It's My Time to Lose My Mind difficilmente farà breccia entro i primi 5 ascolti, ma se avrete costanza sarete premiati. Il disco infatti è lodevole perchè - anche se McAdams probabilmente non ha ancora di preciso capito ciò che vuole - presenta una manciata di brani molto interessanti sospesi tra melodie rassicuranti ed ardite sperimentazioni. Nel girotondo si trovano brani elettropop e pianocentrici, profumi degli ELO anni '80 ed influenze neocantautorali classiche alla Falkner/Yorn completamente destrutturate. Personale, atipico e parecchio strano. Qualche ascolto ci vuole, ma non ve ne pentirete. (www.myspace.com/kevinmcadams)

Reno Bo - Happenings and Other Things (2009; Electric Western). E' proprio la giornata dei sidemen, delle seconde linee che sembrano essere - al giorno d'oggi - le vere anime melodiche di un sacco di formazioni indipendenti e non. E se John Lefler rappresenta la parte melodica dei Dashboard Confessional, Reno Bo è il suo equivalente nei Mooney Suzuky e soprattutto nella touring-band di Albert Hammond Jr. (si, quello degli Strokes). Proprio come Better By Design di Lefler, Happenings and Other Things è l'esordio da solista di Reno Bo, e volendo proseguire con i parallelismi dobbiamo dire che entrambi entrano di diritto nel novero delle più grandi sorprese del 2009. Quello del buon Reno è un grande disco di ampio respiro americano, e le ondivaghe influenze tratte dalla terra di provenienza si infiltrano anche in brani dal respiro britpop come l'apertura There's A Light. Per il resto, c'è un sacco di Tom Petty un pò dappertutto, ma i brani più importanti sono quelli dove Reno non pone freni inibitori alla melodia. In particolare, You Don't Know potrebbe essere un outtake del medio Matthew Sweet, mentre Here Right Now, la vera perla del disco, è un fenomenale spaccato di jangle-rock che pare estratto da Sonic Flower Groove, quando i Primal Scream pregavano all'altare dei Byrds. Altro disco inaspettato e molto gradito, grazie Reno! (www.myspace.com/renobo)

giovedì 24 dicembre 2009

Disco del Giorno 24-12-09: Fate Lions - Good Enough for You (2009; autoprodotto)

E' buffo, molto buffo. E' quasi Natale e sono attorniato da prati e montagne innevate, mentre fuori dalla finestra basse e cupissime nuvole scaricano una leggera ed insistente pioggerella filtrata dalle luminarie e dai jingle-bells della festa. Ma io penso al Texas. Nella sua accezione più classica. Sole. Caldo. Distese sconfinate di nulla. Oppure improvvise metropoli, che mai dimenticano la propria collocazione geografica all'interno di un territorio strano, ampio, di frontiera. Dove anche i suoni più evoluti e progressisti sempre devono fare i conti con una tradizione antica, forte, che segue il trascorrere degli anni come un'ombra e tuttavia non opprime, capace com'è di adattarsi al presente e, ne siamo sicuri, al futuro. Ed è vero, di gruppi che si cibano di tradizione ne escono ancora a frotte, ancora oggi, da tutti gli angoli degli States e soprattutto qui, nella culla della musica americana per come noi oggi la intendiamo. Ma ci sono sodalizi che nonostante tutto fuoriescono dalla massa con dischi assolutamente degni di nota. Uno di questi è Good Enough For You, album primogenito dei Fate Lions.

Ecco, adesso vi aspetterete che i Fate Lions siano un gruppo country. E invece no. Perchè i suoni delle radici fanno parte del bagaglio culturale della band, ma non ne dominano il suono. Sono radici nascoste eppure, irrimediabilmente, influenzano un album che poi in sostanza è indie rock. La produzione è opera di Salim Nourallah e ogni tanto, in effetti, sembra di sentire l'eco di alcuni suoi dischi, anche se bisogna dire che i Fate Lions sono fautori di un sound decisamente più dinamico. Inoltre, anche se non sempre è obbligatorio esagerare con i riferimenti materiali, mi sento di citare un album recente che, se qualcuno lo ricordasse, potrebbe essere di buon esempio: era il 2006 e in molti - io per primo - etichettavamo This Car Is Big, il primo disco dei Molenes, come uno dei migliori lavori di americana pura degli ultimi anni. Qualora non aveste idea di che cosa stia parlando, sappiate comunque che i riferimenti che facevano grande quel disco sono qui presenti in forze.

Per essere chiari, brani come Seen It All, Shining Places, la meravigliosa ed evocativa The Queen Himself, ma soprattutto come All You Do Is Crazy e Hard Swallow sono colpi clamorosamente riusciti di indie rock filtrato da contaminazioni rurali, dove le centrifughe liriche e musicali che fanno tanto Wilco e Son Volt sono accompagnate dal carattere forte dei mitici Say Zu Zu. Ma, lo dicevamo prima, la forza di questo disco consiste nella complessa storia che ognuna delle tracce presenti porta dietro di se. Una storia lunga oltre quarant'anni di musica a stelle e strisce. Un percorso capace di unire le concezioni soniche dei progenitori ed associarle con estrema naturalezza alla rivoluzione indie anni '80 e primi '90. Così un brano come Astronaut ricorda i REM degli esordi e The Girls Are Alright è imperniata su girotondi simil-jangle molto Teenage Fanclub, mentre la sublime Calendar Girls porta subito alla mente i migliori Lemonheads, senza scherzi. Good Enough for You? Si, direi proprio di si.

venerdì 18 dicembre 2009

Disco del Giorno 19-12-09: The Corner Laughers - Ultraviolet Garden (2009; Popover Corps)

"Irriverente, solare e sfacciata pop music per il passato, il presente ed il futuro". Questo si legge, sul sito di CD Baby, nella pagina di presentazione di Ultraviolet Garden, il secondo album di studio dei Corner Laughers. Se vi ricordate, non è la prima volta che parliamo del quartetto di Frisco su UTTT. Quasi due anni fa, oramai, scrivevamo ottime cose riguardo a Tomb Of Leopards, che dei Corner Laughers era l'album di debutto. Ora, se non rimembrate, potreste prendervi una pausa e ricominciare da quegli scritti così, a mò di ripasso. In ogni caso sappiate, e statene certi, che Ultraviolet Garden rappresenta un triplo salto mortale in avanti, rispetto allo spassoso debutto del 2006. Le caratteristiche base sono poi le stesse: sensazionale twee pop di chiara matrice eighties, riposizionato nel nuovo millennio ed aggregato a sensazioni pop-girl anni '90. Il risultato è più o meno quello che ci si aspetterebbe ascoltando Lisa Marr spalleggiata dagli Heavenly. Tanta roba. Stavolta, però, c'è qualcosa in più. Karla Kane e Angela Silletto, le ragazze terribili alla guida della band, danno sfogo a tutta la loro passione per la musica delle radici americane, e così Ultraviolet Garden risulta essere uno dei migliori dischi alt.country/pop che mi sia capitato di sentire ultimamente.

La meravigliosa voce di Karla esplode da Shrine of the Martyred Saint, traccia numero uno del disco, che fa subito capire il senso della definizione utilizzata per aprire questa recensione: "musica pop per il passato, il presente, il futuro". Ed un'altra questione di primaria importanza si palesa immediatamente. I testi navigano in quello spazio tra il fine umorismo e i raffinati riferimenti culturali che spostavano gli equilibri già ai tempi del disco di debutto. Questa volta le ragazze spaziano tra catacombe romane e preoccupazione per la fauna californiana in via d'estinzione. Tra dissertazioni sui villaggi Mayan e ragazzi che sono perfetti idioti. Il pop delle Laughers poi, è sempre uno sballo. E se lo scatenato twee di brani come Thunderbird, Yellow Jackets e soprattutto della gigantesca The Commonest Manifesto fa saltare sulla sedia, stavolta gli episodi più illuminanti sono quelli intrisi di ukulele e profumati di praterie per una popicana al femminile tra le migliori del decennio. Per esserne sicuri, vi basterà dare un sommario ascolto alla sontuosa Half a Mile e soprattutto a Dark Horse, un manifesto di esistenzialismo contemporaneo da cameretta ("I Saved your last e-mail, i couldn't bring myself to delete it") che entra istantaneamente, e di diritto, tra i brani migliori dell'anno.

In regia siede Allan Clapp degli Orange Peels (anche per loro un nuovo, discreto disco appena uscito), fatto che sta a certificare la garanzia del prodotto: pop d'autore, anzi, d'autrice di primissima qualità. Intenso, profondo ma solare e felice allo stesso tempo, come i Corner Laughers sanno fare alla perfezione. Poi dai, è quasi Natale, e Ultraviolet Garden è il perfetto sottofondo per l'atmosfera di festa. Disco da top 10, senza indugi.

giovedì 3 dicembre 2009

Disco del Giorno 03-12-09: Bill Donati - Never Like This (2007; Manlia Music)

"Le canzoni dei Beatles sono magiche, trascendono il tempo in cui furono scritte. Vederli dal vivo ha rappresentato per me una sorta di epifania". Cosi parlò Bill Donati, il protagonista del nostro "disco del giorno", rispondendo ad una domanda dell'intervista fattagli da Fab Four Radio, una stazione radiofonica online che ogni fan dei Beatles dovrebbe conoscere. A quanto si apprende leggendo il comunicato inviatomi dall'emittente, "Fab 4 Radio trasmette principalmente le canzoni dei Beatles. Per il resto siamo abbastanza selettivi, e solo le migliori canzoni nuove sono ammesse". Donati, cuore e sangue italiano trapiantati dapprima a Memphis ed oggi a Las Vegas, ha visto giusto qualche mesa fa una propria traccia, intitolata Studio 2, essere scelta come canzone del giorno nella programmazione della radio dei suoi sogni. Sono soddisfazioni enormi. Del resto se le merita, Bill, perchè è uno di quei personaggi che dei Beatles e della musica pop ha fatto la propria ragione di esistere. E vediamo perchè.

Bill Donati nei primissimi anni settanta lavorava agli Ardent Studios di Memphis, una vera e propria istituzione della musica americana e non solo. Tra le mura degli studios hanno registrato veri e propri mostri sacri come Led Zeppelin e Cat Power. Come REM e ZZ Top. Ma non vorrei portare fuori strada chi fosse digiuno di informazioi a riguardo. Perchè se gli Ardent studios rappresentarono un eclettico centro di registrazione ambito un pò da tutti, la Ardent label nacque con lo specifico intento di tradurre in musica la prosa inebriante che giungeva sottoforma di invasione dalla lontana Inghilterra. Una sorta di chioccia che si impegnò a proteggere e divulgare (attraverso la potente e sodale Stax records) i pruriti popolari e neopsichedelici che continuavano a divampare nel sud degli Stati Uniti d'America. E sebbene molti valorosi artisti contribuirono a formare la gioiosa comunità Ardent, bisogna dire che il nome che marchiò a fuoco l'intera combriccola fu uno soltanto: quello dei Big Star. Mamma Ardent cullò i primi esperimenti di Alex Chilton e Chris Bell, prima di patrocinare il loro disco d'esordio sotto l'insegna dello Stellone. Ci videro lungo, e Number 1 Record fu uno dei piu' importanti lavori in assoluto, in quel periodo ed oltre.

"Lavoravo agli studios mentre i Big Star registravano il loro primo disco e ho avuto la fortuna di conoscere Chris Bell. Beh, quelle sono esperienze che ti segnano" mi ha scritto Bill Donati nell'e-mail spedita ad UTTT la scorsa estate. Come dargli torto. Detto da uno che della scena musiale di Memphis negli anni '70 è stato parte integrante fa un certo effetto. Un appassionato di "pop e melodia" che negli anni gloriosi della Ardent ha collaborato, nelle vesti di batterista, con artisti quali Lawson & Four More, Wallabies e Terry Manning. E che nel 2007, quasi quarant'anni dopo, ha dato il proprio benestare alla Marlia music per pubblicare in una raccolta intitolata Never Like This dieci pezzi composti e registrati dallo stesso Donati ai tempi della Ardent.

Come ci si potrebbe aspettare, i brani grondano passione sincera e cognizione estrema. Un omaggio alla teoria Beatlesiana ed al credo britannico fatto con gusto e rispetto, applicazione e tanto talento. Si potrebbe contestare a Bill la tempistica, visto che un disco del genere negli anni in cui fu composto avrebbe ottenuto maggior successo di quello che potrebbe conquistare oggi, ma tant'è. Noi che del pop, quando è buono, non facciamo mai una questione anagrafica, ci commuoviamo facilmente davanti alle istanze beatlemaniacali della title track e di Catherine, oppure al cospetto della deliziosa fillastrocca popolaresca e pianistica I'm Not Saying. Rispettiamo profondamente il semplice e dignitoso sentimentalismo di Come What May e l'omaggio di If You've Nothing To Lose al sunshine pop piu' erudito. Addirittura ringraziamo esultanti quando arriva l'ora di un piccolo gioiello devoto al Magical Mystery Tour come A Love Gone Mad.

"Posseggo ancora tutti i dischi dei Beatles. Il miglior gruppo della storia, a mio parere". Questa frase, scritta in un italiano un pò incerto ma comunque superiore al livello medio di molti nostri connazionali, chiudeva la lettera che Bill Donati mi ha inviato. E' persino troppo semplice essere d'accordo con lui e constatare che, ogni giorno che passa, è fantastico sentirsi parte della nostra piccola comunità pop. Ed è doveroso rendere omaggio a minuscoli artisti come Bill senza i quali, forse, un sito come questo non esiterebbe nemmeno. POP ON!

(NB: A quanto risulta, Bill Donati non ha un proprio sito internet, né tantomeno una pagina MySpace. Never Like This è comunque reperibile attraverso i migliori retailers powerpop come Not Lame, Kool Kat e Cd Baby).

lunedì 16 novembre 2009

e.p. del Giorno 16-11-09: Violect Vector and the Lovely Lovelies - EP II (2009; Color Wheel)

Hipsters d' Italia e del mondo unitevi ed aspettatevi una grossa sorpresa. Una sorpresa multicolore e vestita di seta sgargiante confezionatavi da una bella fanciulla sudista di nome Amanda Brooks. Costei, insieme ai propri sodali, è approdata al secondo ep di studio accreditato allo pseudonimo Violet Vector and the Lovely Lovelies (esiste un nome più freak, al giorno d'oggi?), uno dei migliori dischetti di quest'anno che farà innamorare all'istante tutti i fans dei primi Pink Floyd e del vintage pop dal cantato femminile.

I VVLL sono in sei (quattro donne e due maschietti), sono prodotti dalla Color Wheel records (già distintasi su queste pagine lo scorso anno per aver timbrato il secondo lp degli Ideal Free Distribution) e, dietro ad un rassicurante aspetto da congrega hippy alloggiata nel sud americano, nascondono una capacità innata di riprodurre con competenza sorprendente sonorità molto spesso affascinate dalla cultura melodic-psych del 1967. E per essere sicura di centrare il bersaglio grosso, la compagine di Chapel Hill ha deciso di non rischiare la lunga distanza ma di giocare forte su un quintetto di brani dalla facilità d'ascolto spaventosa e dal songwriting tanto semplice quanto eccellente.

Grass Is Glowing e Technicolor Electric (l'apertura e la chiusura del disco) rappresentano la componente più "acida" del gruppo, grazie a chitarre che flirtano con il fuzz, ad un sepiente uso dell' organo Whitehall e ad un incedere nel tempo - a prescindere dalla durata comunque contenuta dei brani - che rievoca logiche care ad antiche suite in miniatura e alle spezie acide che ispirarono il primissimo Barrett. I testi, fedeli alla tradizione e quindi pregni di riferimenti esoterici e colmi di stupore per le magie che la natura nonostante tutto continua a produrre, si muovono a proprio agio anche durante gli episodi centrali del disco, quelli più pop.

La trilogia poppy (e peppy, molto peppy) dell'ep si apre con What's Going On In Your World, brano che raccoglie il meglio dell'entusiamo contagioso che le girls-band sapevano trasmettere così bene nei sixties. Poi c'è la notevole Applesweet, di stampo decisamente più moderno, a ricordare quanto ci si possa divertire ascoltando un pezzo di classico vintage twee. Sunshine In Space, infine, si apposta sulle gloriose barricate di un powerpop un pò scassato e minimale che riporta alla mente eccezionali bands al femminile degli anni '90 come Go Sailor, Heavenly e Cub.

Sapete cosa vi dico? Nella classifica di fine anno riguardante gli ep, i VVLL faranno un figurone. E se del pop con fiocco rosa e sgargianti tonalità vintage siete innamorati, Amanda Brooks e psichedelica compagnia non aspettano altro che ricambiarvi.

giovedì 5 novembre 2009

Disco del Giorno 05-11-09: Parallax Project - I Hate Girls (2009; Kool Kat)

Michael Giblin è uno dei miei tanti piccoli eroi personali. Perchè? Per un motivo, essenzialmente. Mike, stimatissimo musicista proveniente dalla Pennsylvania con decine di esaltanti esperienze alle spalle, alla fine degli anni '90 è stato la spalla fondamentale di Steve Ward nella realizzazione di At Home With, il secondo album dei Cherry Twister, uno dei miei dischi powerpop preferiti di tutti i tempi. Dal 2002 Giblin ha avviato una sorta di progetto solista chiamato Parallax Project. Inizialmente la cosa aveva tutti i crismi dell'estemporaneità, ed un nucleo di musicisti abbastanza vasto si era reso disponibile per aiutare Michael nella registrazione del primo disco, intitolato Oblivious. In realtà poi le cose vanno come vanno, e messa assieme una band giusto per suonare al party di presentazione dell'album, i ragazzi si sono accorti di non essere niente male. Ne è nato un gruppo vero e proprio, che suona regolarmente nel nord-est americano e che prima di questo terzo lavoro di studio ha prodotto un altro disco, Perpetual Limbo, uscito nel 2005.

Il povero Mike deve avere problemi di cuore, se consideriamo che l'album di cui ci occupiamo oggi si intitola I Hate Girls. Ne più ne meno. Ma a differenza di quello che ci si potrebbe aspettare, il disco non è niente affatto cupo nè tantomeno malinconico. I Hate Girls, prodotto da Don Dixon (nientemeno) è un divertentissimo spaccato di powerpop vecchia scuola che pesca in pari misura dall'invasione britannica di Beatles e Who e dalla tradizionale scena americana a cavallo tra la fine dei settanta e i primi anni ottanta. Un lavoro estremamente solido che non ci metterà molto a rallegrare le vostre ore nel mezzo di questi primi giorni di autunno vero.

La starting track si chiama All The Same ed è un colpo di cannone, dove un riff palesemente beatlesiano viene sporcato da pura energia Faces. The Day After Tomorrow, traccia numero due, è intrisa di quel tipico storytelling concettuale che fa molto Tillbrook, mentre Easy è semplice, puro ed incondizionato pop con la P maiuscola, nudo come mamma l'ha fatto e perfetto per uno sfrenato sing-along. Gli Squeeze sembrano essere un'influenza imprescindibile per Mike da Mechanicsburg, che in ogni caso non riesce a levarsi di dosso la scimmia dei sixties targati union jack. Ne escono così prelibatezze come la title track e Waiting To Pull The Trigger, dove si possono immaginare gli onnipresenti Tillbrook e Difford capeggiare un'oscura formazione sessantista in debito con gli Who.

Grande merito dell'album è quello di non scendere di tono man mano che i brani passano. Perchè You & Me e la spettacolare Half intonacano di freschezza Costelliana le pareti dell'album, e Coming Around è un viscerale omaggio fatto di old school powerpop alla propria storia di turnista aggregato ai leggendari Plimsouls. Chicca finale, una grandiosa cover di Needle In A Haystach originariamente di Martha and the Vandella's.

L'album è licenziato dalla Kool Kat e la cosa è un'ulteriore garanzia di qualità. Superfluo dire che se acquisterete I Hate Girls dalla label di Ray Gianchetti riceverete in omaggio un cd-r ascoltando il quale potrete apprezzare i Parallax Project coverizzare alcuni gloriosi brani di Kinks, Velvet Underground, XTC e molti altri (grandissima la cover di A Well Respected Man!). Non esitate!