Ne parliamo con un pizzico di ritardo, il disco essendo uscito la scorsa estate. In ogni caso, i più attenti lo avranno già capito, siamo al cospetto di una band che ha concluso con profitto la preparazione dell'esame di storia classica. Siamo a Woolton, dintorni di Liverpool, sobborgo dove, nel 1957, avvenne la prima collisione tra John Lennon e Paul McCartney. Il resto della vicenda dovrebbe essere piuttosto noto. Rob Clarke non ha incontrato né John né Paul, ma si è fatto bastare i Wooltones per creare un disco sì innamorato del Merseyside, ma che non disdegna affatto alcune capatine nella psichedelia americana degli anni sessanta, meglio se sulla costa occidentale.
"Putting The L In Wootones", come ormai dovrebbe essere chiaro, pesca a piene mani dal repertorio Beatles prima che i Fab Four firmassero contratti discografici, dal suono che allucinava le giovani menti a San Francisco dopo il 1966 e dal miglior rock'n'roll d'annata. Scrittore e analista sociale di un certo livello, Rob Clarke concede disimpegno ma pretende attenzione. L'apertura e la chiusura dell'album, rispettivamente affidate a Big Big Bad Bad John (che in coda si trasforma in un accorato "Big Bad Boris") e ad Alright! disperdono ognuna con il proprio stile schegge d'attacco al potere costituito, con particolare attenzione ai simboli costitutivi del fatidico impero britannico, scherzosamente rampognato nel corso dello spoken word pregno di luoghi comuni fanciulleschi di Countdown.
La summenzionata Big Big Bad Bad John, fomentata da una claustrofobica armonica, squarcia l'aria con i suoi guasti riff rhythm and blues di affannoso respiro Bo Diddley/ Duane Eddy, mentre la successiva Love And High emana luminescenze west coast e suadenti cambi di panorama. Adrian Henri, primo singolo del disco, è una delizia in cui le perfette melodie sixties pop sono messe in risalto dal contrasto con improvvise saettate fuzz: il grande poeta nato a Birkenhead ne sarebbe orgoglioso. I Fab Four pre-successo planetario, ma fors'anche prima della partenza direzione Amburgo, appaiono nel commendevole lentone The Forecast Near You e nella più celere Two Lane Blacktop, laddove Statue At The Pier Head si cala volentieri nella ghiotta zuppa Nuggets di Seeds e Third Men.
Nell'album non mancano gli azzardi, seppur costantemente riferiti alla materia classica, così Free pare un oscuro outtake di Strange Days. Tuttavia, le cose migliori rimangono legate alla comfort zone, valga come ultimo esempio il tenerissimo mid-tempo in salsa jangle-Beatles di It's Only You, sistemata alla penultima curva del disco. Poco di nuovo sotto il sole, ma questo blog non è stato pensato per parlare di avanguardie. E i classici occorre saperli capire, prima di poterli citare.
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