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Bruce Brodeen ha fondato la Not Lame records sedici anni fa, nel 1994, con la precisa intenzione di diffondere il verbo powerpop, quando in pochissimi ne parlavano e - come dichiarato da Jordan Oakes, intervistato su queste pagine il mese scorso - quando chi ne parlava bene non ci faceva esattamente una bella figura. Bruce operava su due livelli: la Not Lame, infatti, è stata un'etichetta discografica, meravigliosa, con più di duecento uscite in catalogo comprendenti una sostanziosa parte della crema del pop chitarristico anni '90. Al contempo, la Not Lame era un mail order, che nel corso degli anni ha aiutato migliaia e migliaia di artisti indipendenti a "far vedere alla propria musica la luce del sole". Non sono mai stato bravo a quantificare, ma se dico che dalla Not Lame ho comprato centinaia di dischi dico il vero. Ricordi, tanti. In primis, l'attesa e l'eccitazione dei miei lunedì e venerdì sera, classiche vigilie settimanali dell'aggiornamento del sito. Ora è tutto finito. Bruce, con un video indirizzato ai suoi supporters, ha confermato che il 24 Novembre 2010, mercoledì prossimo, sarà l'ultimo giorno di vita per la leggendaria etichetta di Ft. Collins, Colorado. Le motivazioni alla base della dolorosa scelta sono molte, ma si intuisce che la crisi del settore discografico (che nel mondo delle piccole etichette sta mietendo vittime in serie) ha la responsabilità più elevata.
La notizia è una solenne mazzata per chi, come il sottoscritto, è stato un fedele ed ortodosso discepolo di Bruce. E non so che dire, se non grazie, di cuore, per aver contribuito in modo fondamentale alla mia crescita culturale, in ambito musicale e non solo. Senza la Not Lame, probabilmente Under the Tangerine Tree non sarebbe stato lo stesso blog.
Buona fortuna, Bruce, e grazie di tutto.
Povero blog, troppo poco tempo per lui, neanche gli ho fatto gli auguri per il terzo compleanno. E troppi dischi giacciono sulla scrivania in attesa di attenzioni che tardano ad arrivare. Troppe, infine, ed ormai consuete, scuse da far pervenire agli artisti che pazientemente aspettano da UTTT un segno di vita. Portate pazienza, per ora è così, più avanti speriamo vada meglio. Non è che nel frattempo i dischi belli abbiano smesso di uscire, anzi. Quello di cui finalmente riesco a parlare oggi, infatti, è una meraviglia totale, un raggio intenso di luce, un arcobaleno imprevisto nel bel mezzo di questo fradicio autunno. Manco a dirlo, il timbro sul retrocopertina reca l'effige della Kool Kat, label che, noncurante della crisi del settore, continua a rilanciare con uscite sempre più incantevoli.
Ma chi è William Duke? William è il nocchiere del progetto Bye Bye Blackbirds, poppers californiani che già un paio di volte, recentemente, hanno avuto modo di farsi apprezzare da queste parti. Già autore anni orsono di un riuscito album solista (The Ghost That Would Not Be - 2005), William deve avere nel tempo accumulato tonnellate di materiale d'alto pregio e non deve aver trovato buone ragioni per non pubblicare un altro disco in intimità, accompagnato da pochi amici fidati e trovando un sicuro alleato nel nel nobile animo di Ray Gianchetti. Risultato? Pop californiano erudito, luminescente, arioso. Scritto da Dio. E viene da pensare che questo 2010, che inaspettatamente è in pratica già finito, abbia avuto un occhio di particolare riguardo per il sunshine pop d'avanguardia, essendo i lavori di Seth Swirsky e quello di William nostro due mirabili candidati a posti d'eccellenza quando sarà tempo di compilare le classifiche di fine anno.
The Sunrise and the Night, dunque. Pop californiano che accarezza i territori sunshine senza però risultare precisamente identificabile, setacciato da momenti di serena introspezione che conferiscono al lavoro un nonsochè di intimo, di personale, di magico. It's Only the Beginning non poteva che aprire il disco, in modo soffice, grondando sentimento ed umori acustici. Formando, in coppia con The Great Escape, traccia numero tre, un binomio di ambientazione sixties folk come non ne se ne sentiva da tempo immemore. Tuttavia, il lato introverso di William è compensato dalle esplosioni colorate che fanno di Sunrise and the Night, come anticipavamo, un disco essenzialmente "California pop". Pop californiano mai eccessivamente faceto ma comunque estremamente brillante, tinteggiato da mille idee e decine di rivoli armonici. Tra le perle della collezione, svetta senz'altro Keep Me In Your Thoughts, calata nelle atmosfere del Golden State negli anni 70 ma reinterpretata alla maniera di Linus of Hollywood. Poi, citazioni più che doverose per A Moment in the Sun e per la title-track, che insieme compongono un'accoppiata west-coast sound da perdere la testa; per The Impending Happiness, che come prima immagine evoca Lennon, se Lennon dopo i Beatles si fosse trasferito a Frisco invece che a New York; per la sublime You're Young and You'll Forget, precisa intersezione tra atmosfere sunshine ed istinti country alla maniera dei migliori Pernice Brothers.
The Sunrise and the Night è un disco intenso, che non molla le emozioni dall'inizio alla fine; viscerale e al limite un pizzico frammentario, ma proprio per questo teso ed emozionante come poche altre cose quest'anno. Un disco che potrebbe fallire, attenzione, al primo tentativo, ma sul quale non insistere sarebbe criminale. Un tesoro nascosto. Forse quello nascosto meglio tra i migliori dischi in assoluto di quest'anno.
Da un pò di tempo pensavo di istituire una sezione interviste sul blog, ma un pò per mancanza di tempo, un pò per pigrizia, ho continuato a rimandare il proposito. Nonostante tutto alla fine mi sono deciso, e le prime domande le ho rivolte a Jordan Oakes. Chi è Jordan Oakes? Semplicemente, colui che negli anni '90 creò la fanzine Yellow Pills, la prima rivista in assoluto dedicata esclusivamente al powerpop. Yellow Pills fu seminale, e permise a centinaia di appassionati in giro per il globo di scoprire artisti sconosciuti, ma soprattutto pose le basi per quella che pochi anni dopo - con l'avvento del web - diventò una sorta di comunità pop. Ispirati dalla fanzine, nacquero i 4 volumi (più uno "postumo") delle omonime compilations, che a detta di molti - ed a buona ragione - in brevissimo tempo diventarono la bibbia del suono powerpop. Jordan Oakes e Yellow Pills, una storia che è già leggenda. Sono orgoglioso di iniziare da lui il "capitolo interviste".
Under the Tangerine Tree: Immagino che tu sia un fan, prima di essere un giornalista musicale. La domanda che faccio sempre in questi casi è: come sei cresciuto "musicalmente"? Voglio dire, c'erano appassionati nella tua famiglia o sei un "autodidatta"?
Jordan Oakes: I miei genitori avevano a casa alcune colonne sonore incredibili come quella di "Midnight Cowboys" ed erano dei discreti appassionati di Burt Bacharach. Il primo album tutto mio, avuto in regalo, è stato "Why" di Donny Osmond! Nello stesso periodo misi le mani su un paio di album della K-Tel (etichetta internazionale nata negli anni '70 con base in Canada - ndr), ed in questo senso mi innamorai perdutamente di una particolare versione del classico "I Think I Love You", rifatta dai Funnies, un oscuro gruppo K-Tel dell'epoca, molto meglio dell'originale della Partridge Family. Inoltre, sempre parlando della prima adolescenza, ricordo di aver amato alla follia la colonna sonora di "The Jungle Book", mentre il primo gruppo pop che amai veramente furono i Carpenters. Il comun denominatore delle mie preferenze è sempre stata la melodia. Ho sempre adorato le melodie ossessive, ma non ho avuto niente a che fare con il rock'n'roll fino ai 17 anni, quando per la prima volta ho sentito i Beatles, che da allora - immagino non sia una sorpresa - sono rimasti il mio gruppo preferito.
UTTT: Ti sei laureato in giornalismo all'università Webster di St. Louis. Quando hai capito che scrivere di musica sarebbe stato il tuo vero lavoro?
JO: Beh, mi è sempre piaciuto scrivere, ed ho sempre pensato che scrivere è estremamente più facile quando l'oggetto trattato rappresenta anche una grande passione. Ho iniziato a scrivere per piccole fanzine, e 16 anni fa è stato quando sono stato pagato per la prima volta. Da allora ho sempre fatto quello per vivere.
UTTT: Hai creato Yellow Pills nell'estate del 1990. Com'era la scena pop a quel punto? Molti appassionati ritengono che il tuo giornale sia stato uno dei motivi principali della rinascita di "quel" tipo di pop music negli anni '90, ed io, naturalmente, concordo in pieno.
JO: Innanzitutto grazie mille. Beh, semplicemente notai che non esisteva nessun magazine completamente dedicato al powerpop in quel periodo e, sapendo quanto fossero (e siano tutt'ora) fanatici gli appassionati di un certo tipo di pop, mi sembrò il momento buono per fare uscire Yellow Pills. Ho iniziato il progetto con il mio amico Rich Osmond (che poi se ne andò dopo il terzo numero) e subito notai che in qualche modo il nostro giornale servì per connettere alcuni punti sparsi della scena. Voglio dire che molti grandissimi appassionati di powerpop, che prima coltivavano la propria mania in privato, grazie a Yellow Pills arrivarono a conoscersi. E' molto importante specificare che questo avvenne ben prima che iniziasse l'era del web, e la mia fanzine anticipò quella che poi sarebbe diventata una sorta di comunità powerpop su internet. Se internet fosse arrivato qualche anno prima, oppure se avessi iniziato a pubblicare la fanzine qualche anno dopo, probabilmente Yellow Pills non sarebbe stata necessaria. Ma è stato fantastico, davvero, perchè quando tutti hanno iniziato ad usare la rete, i più grandi fans del powerpop già si conoscevano tutti grazie alla mia rivista. Se mi permetti una battuta, diciamo che internet è servito ad "ingoiare le pillole"!
UTTT: Yellow Pills, sin dal momento della prima uscita, creò un incredibile entusiasmo all'interno della comunità pop. Hai qualche ricordo in tal senso? Ricordo di aver letto da qualche parte che la gente ti considerava il custode dello scrigno powerpop.
JO: Si, qualcuno in effetti ogni tanto lo dice e ovviamente fa piacere sentirlo, ma non mi sono mai sentito un pioniere in ogni caso. Mi sono ispirato, e tutt'ora mi ispiro, ai giornalisti delle riviste che mi hanno influenzato nel corso degli anni come il New Yorker, Trousers Press e Greg Shaw, che tutti conoscete per aver creato il seminale magazine Bomp! Penso che l'evoluzione del powerpop sia un meccanismo lento e produttivo a lungo termine, ed io sono stato solo un ingranaggio. Ma sono orgoglioso del fatto che Yellow Pills sia stato il primo magazine espressamente dedicato al powerpop, in un periodo in cui il termine non era per niente visto bene. Ho sempre e solo voluto ripristinare il rispetto dovuto ad una forma d'arte splendida, e mi piace pensare di essere stato il collegamento tra la scena originale e la nuova era incentrata su internet.
UTTT: Immediatamente tutte le bands del settore volevano essere recensite da te, so che ricevevi centinaia di dischi per ogni numero. Come entravano in contatto con te in un' era ancora priva delle comodità del web? E quali erano i tuoi gruppi preferiti in quel momento?
JO: Non saprei dire con precisione come facessero a trovarmi, ma in qualche modo mi trovarono. All'inizio tutto derivava dal mio lavoro di scouting: cercavo di trovare i numeri di telefono dei miei eroi, se sapevo dove vivevano. Poi, ad un certo punto, abbiamo iniziato a ricevere tantissimo materiale promozionale, tra cui un sacco di cassette. Penso che ciò sia indicativo per far capire quanto tempo sia passato. Mi ricordo di quando ricevetti il nuovo demo dei 20/20, uno di quei momenti che ti ripagano di tutto il lavoro duro (ricordo che Yellow Pills è proprio il titolo di una canzone dei 20/20 di Tulsa, Oklahoma - ndr). Ma di momenti indimenticabili ce ne sono stati tanti. Ricordo con grande piacere le telefonate che ricevetti da Dwight Twilley e da Eric Carmen. Essendo un giornalista, anche al di fuori dell'esperienza di Yellow Pills ho avuto modo di intervistare personaggi del calibro di Hall & Oates, Todd Rundgren, persino Neil Sedaka e Martin Hamlisch, perciò ho sempre amato parlare con gli artisti che ammiro, perchè ciò mi ha dato la possibilità di chiedere loro tutto quello che avrei voluto sapere da fan. In quel periodo i miei gruppi preferiti credo fossero gli Shoes, i 20/20, i Big Star e i Game Theory. Per me, questi erano i giganti del pop, e ciò avvenne subito prima della successiva ondata di grandi gruppi come Material Issue e Posies. I Material Issue mi piacevano in particolare: il loro suono conteneva quella gioia incontrollabile che il pop dovrebbe sempre racchiudere. In quello stesso momento, poi, in giro c'erano anche gruppi come Redd Kross e Jellyfish, che interpretavano alla grande sfaccettature del powerpop completamente diverse. A quei tempi ero un fan incredibile di un album di Bill Lloyd chiamato "Feeling the Elephant" e di alcune grandi opere di Jim Basnight tipo "Need Your Love".
UTTT: C'era qualcun altro impegnato a far circolare il powerpop a quell'epoca?
JO: Sinceramente, non credo ci fossero altri magazine pop, davvero. Tutte le pubblicazioni musicali, tipo The Musician e Rolling Stone, erano di stampo "generalista", e le grandi fanzines come Bomp! e Trouser Press erano morte già da qualche anno. C'è stato un periodo di vuoto totale, diciamo.
UTTT: Bene, parliamo un pò delle compilations allora. Come ti è venuta l'idea e soprattutto: chi ti ha dato la possibilità di realizzare il progetto? Tra i fans è opinione comune pensare a quei cd come ad un'ipotetica "stele di rosetta sonica" per un'intera generazione di nuovi appassionati di powerpop. Inutile dire che, anche in questo caso, sono totalmente d'accordo.
JO: Grazie ancora. Le compilations arrivarono quando fui contattato dall'etichetta Newyorchese Big Deal. Trovarono il mio magazine in un'edicola dell'East Village e mi chiesero di selezionare le tracce per una serie di raccolte powerpop che avevano pensato di fare. Già prima avevo avuto l'idea di fare una compilation, ma sono riuscito a fare solo una cassetta a causa del ridotto budget. In ogni caso, io ho curato la parte artistica mentre l'etichetta ha pensato alle licenze, anche se, a dire la verità, il grosso del lavoro l'ho fatto io parlando con gli avvocati dei gruppi eccetera.
UTTT: La storia di Yellow Pills si è esaurita lungo dodici numeri della fanzine e quattro raccolte. Come mai hai deciso di terminare quell'esperienza? E come hai deciso di tornare nel 2004 curando la compilation intitolata "Yellow Pills:Prefill"?
JO: Guarda, credo che dopo il quarto volume le raccolte avessero portato a termine il loro compito, in quel momento non vedevo la necessità di farne un'altra. E' vero, ho smesso di occuparmi di Yellow Pills ma ho continuato ad essere presente nella comunità pop da semplice appassionato, anche se ciò può non sembrare evidente. Prefill è stato fatto per le stesse ragioni e con le medesime modalità delle precedenti raccolte, ma per una diversa etichetta. Tuttavia, credo che Prefill sia andato fuori stampa da qualche mese e che sia esaurito (vero, alcune copie compaiono di tanto in tanto su eBay a prezzi da paralisi - ndr). Ne esistono due edizioni, pensa che sulla copertina della prima c'è la mia cassetta delle lettere!
UTTT: Esistono ancore copie disponibili della fanzine?
JO: Credo di avere da qualche parte alcune copie degli ultimi numeri. I primi sono tutti andati.
UTTT: E' il 2010 ed il mondo della musica mainstream è dominato dall'hip-hop, da Lady Gaga e dall'immondizia che spaccia MTV, ma nonostante tutto ci sono ancora in giro un sacco di artisti validi. Quali sono i tuoi preferiti attualmente?
JO: Onestamente, sento di non essere così tanto "in contatto" con la miglior musica pop attuale come dovrei essere, per diverse ragioni. Considera questo: ai tempi di Yellow Pills non era facile trovare dischi powerpop. Era difficile conoscere gruppi oscuri, bands locali ed era molto difficile trovare gli album perchè tantissime cose erano fuori stampa. Le ricerche avvenivano specialmente ai mercatini dei collezionisti o dell'usato, e ricercare 45 giri powerpop era sempre un brivido. Ora tutto si è spostato nella direzione opposta: ci sono tantissimi gruppi pop e alcune tra le vecchie glorie stanno ancora registrando. Ci sono festival powerpop molte volte all'anno (pensate all'International Pop Overthrow di David Bash) ed almeno due compagnie discografiche sopravvivono vendendo esclusivamente powerpop. Penso che tutto ciò sia fantastico, ma per me è difficile restare al passo con tutto. Perciò penso che ci siano in giro moltissimi grandi gruppi e tantissimi artisti talentuosi, ma non riesco a pensare all'esempio perfetto. Capisci cosa intendo? Devo dire che sono ancora molto più legato alle cose vecchie e non mi sono mai "evoluto" davvero.
UTTT: Nella comunità powerpop la tua collezione di dischi è quantomeno famosa...Vuoi dirci qualcosa a riguardo?
JO: Allora, ho talmente tanti dischi che recentemente ho deciso di iniziare a vendere molte cose su eBay. Ci sono moltissimi dischi da cui non mi separerò mai, ma ho anche tante cose che reputo superflue, mentre ci sono dischi che mi piacciono ma di cui posso a fare a meno. Credo si tratti di una sorta di ridimensionamento, voglio essere compatto, come una pop song!
UTTT: In conclusione, ringraziandoti, vorrei conoscere...I migliori 10 album powerpop secondo Jordan Oakes!
JO: Se ti devo dire la verità, per me la musica pop è sempre stata fatta più per i singoli che non per gli album...In ogni caso, in ordine casuale, i successivi sono i miei dieci LPs powerpop preferiti:
Dwight Twilley "Sincerly"
20/20 "st"
The Shoes "Tongue Twister"
The Db's "Stands for Decibels"
Big Star "Radio City"
Badfinger "Wish You Were Here"
Game Theory "Real Nighttime"
Il Greatest Hits dei Raspberries
Material Issue "International Pop Overthrow"
The Smithereens "Especially for You"
Vorrei poi citare altri tre dischi che adoro, come "1+1" di Grin, l'omonimo album degli Electric Hippies e "Where It's At With the Wind" dei Wind. La classifica è sempre soggetta a cambiamenti, ma probabilmente per non più del 33%!
Grazie mille per le fantastiche domande!
Tre singoli a 45 giri sparsi tra il 2008 ed il 2009. Poi tour italiani, europei, americani, due, di cui uno appena conclusosi dopo una ventina di date spese sulla costa occidentale. Il bagagliaio pieno di esperienza l'avevano, si trattava di infilare nell'autoradio un disco lungo, puntualmente arrivato. On a Bittersweet Ride rappresenta l'esordio sul formato 33 per il combo bergamasco/vicentino e, scusate la banalità, che esordio. Di suonar rock'n'roll son capaci tutti, soprattutto se di rock'n'roll minimale si tratta; poi, riuscire a divertire l'ascoltatore è una meta che in pochissimi raggiungono, e quei pochissimi dovrebbero essere evidenziati come meritano. Figuriamoci se si parla di Miss Chain & the Broken Heels poi, tra i pochissimi degni interpreti di un sottogenere musicale (il pop'n'roll), che in Italia non ha mai raccolto proseliti. Gruppi come questi, nella penisola, sono specie protette proprio perchè assolutamente demodè, fatto che ce li rende, se possibile, ancora più cari e che, sfortunatamente per loro, sarà garanzia di anonimato duraturo negli ambienti che contano del giardino di casa.
Il disco, una bomba, è licenziato dalla Screaming Apple, grandissima etichetta teutonica che da più di quindici anni delizia chi, come noi, si è sempre trovato a proprio agio in quell'intersezione sonora dove il garage ed il rock'n'roll di base incontrano il powerpop d'annata. E di pop'n'roll all'ennesima potenza stiamo parlando, un pop'n'roll piantato con la testa e con la mente in un passato invecchiato alla grande, senza rughe, vivace come un bambino al parco giochi, frizzante come una mattinata sull'oceano. Miss Chain ed i suoi tacchi rotti non suonano garage, non suonano powerpop, non suonano rock'n'roll puro: il loro è un impasto che sconvolge tutto ciò e lo ripropone in salsa - i ragazzi non me ne vorranno - praticamente beat. Si, l'ho detto e lo confermo: per quanto mi riguarda (e a ragion veduta, avendoli osservati anche qualche volta dal vivo), Miss Chain & the Broken Heels sono un gruppo beat, e questo è meraviglioso.
Per la precisione, Astrid (voce e chitarra), Disaster Silva (chitarra solista), Franz (basso) e suo fratello Brown (batteria), sono un gruppo di beat puramente anni sessanta che strizza più di un occhio alle pop bans femminili della golden age, aggiungendo una spruzzata di powerpop (powerpop ante-littream, per la precisione) che conferisce ai brani un pizzico (solo un pizzico) di modernità e potenza ritmica in più. Per rendere l'idea, qualora non fosse chiaro, fantastici ed eccitanti brani quali Roallercoster, Mary Ann, Flamingo (la mia personale favorita) e Common Shell rappresentano plasticamente quello che sarebbe potuto succedere se Shivvers e Go Go's fossero state sorprese a coverizzare i best-of di Shangri-La's, Chiffons e Crystals. Per staccare, in un paio di occasioni (soprattutto durante Old Man e Save Me) viene a galla la passione per certa americana-pop di cui alcuni membri del gruppo sembrano essere grandi fans, ed il tutto non fa che giovare alla riuscita di un disco veramente godibile, nell'accezione migliore del termine.
La scena italiana, quella vera, lontana dall'immondizia edulcorata del Mi-Ami e di Rock-it sta lentamente ma inesorabilmente rinascendo, e gruppi come Miss Chain & the Broken Heels ne sono una straordinaria dimostrazione. Tutto sommato, non credo serva aggiungere molto altro per convincervi a mettere le mani su uno dei dischi più divertenti, sbarazzini ed entusiasmanti di questo 2010.
Un ottimo album omonimo nel 2004, svariate partecipazioni a compilation di settore, un disco solista, recensito su queste pagine un paio di anni fa, da parte di Tim Morrow, uno dei due boss della band. Questo, grossomodo, l'apprezzabile contributo alla causa powerpop apportato dagli Shamus Twins, gruppo che, dopo lunghissimo periodo di pausa e varie anticipazioni, alla fine è tornato con il secondo studio album della carriera, intitolato Garden of Weeds. Un disco solido, breve, senza cadute di tono, che naviga sicuro nelle proprie acque territoriali senza disdegnare qualche divagazione in termini di tono, genere ed atmosfera. Generalmente amo lavori di questo tipo: un disco, se deve durare due ore, deve avere valide giustificazioni, altrimenti, meglio mezzoretta intensa, non c'è che dire.
Garden of Weeds è, in sostanza, il parto di Tim Morrow, una vecchia conoscenza da queste parti, e Jerry Juden. Due vecchi amici, compari, collaboratori, e si sente, eccome. Disco solido, dicevamo, grazie anche e soprattutto all'affiatamento degli autori, che si riflette sia nelle armonie vocali, molto ben intersecate, sia nella scrittura (ognuno contribuisce per la metà dei brani), che risalta per ingegno e si riflette nella coesione dei vari frammenti nel risultato complessivo. L'album si apre con il classico, cristallino powerpop di You Know My Name, brano liberamente ispirato agli albori del fenomeno skinny tie inglese e che sarebbe stato a pennello, fosse stato scritto trent'anni fa, su Music on Both Sides. Chi si aspettasse, a questo punto, un filotto di canzoni omogenee rimarrebbe tuttavia deluso. Morrow e Juden, infatti, sembrano nutrire un amore viscerale per certo rock'n'roll tradizionale ed infarcito di soul, e ne riempiono la pancia dell'album con il trittico I Never Been Happy/I Know I Know/Did You Have to Change, sorta di triangolo rituale tributato alle origini della musica giovanile. Nondimeno, la band raccoglie i più convinti consensi quando riallaccia i rapporti diretti con il pop chitarristico di base, ed allora gli applausi li meritano Ain't Letting Go e A Picture of Her, che trasudano essenza di jangle rock sudista e ricordano l'esperienza di Tim Lee, Bobby Sutliff e dei Windbreakers tutti. Oppure la similare, ma più dolce e meno sofferta Life is Strange, già apparsa sul nono volume della serie International Pop Overthrow nel 2005. L'ovazione, permettetemelo, è però tutta per la title-track, vero tributo, amorevole e riuscito, al Sergente Pepper ed alla sua band di cuori solitari.
Garden of Weeds è un bel disco, breve, saldo e convinto. Pensato e scritto da gente che preferisce la sicurezza della qualità opposta ai rischiosi fronzoli del superfluo, e ciò è molto positivo. Certo, nemmeno la comunità di appassionati sembra essersi accorta degli Shamus Twins, e questo è un peccato. Perchè band così, non posso fare a meno di dirlo, mi ricordano sempre i ciclisti come Oscar Freire: non ti accorgi della loro presenza, ma alla fine della gara, in classifica, li trovi sempre nelle prime posizioni.
E' bello fidelizzarsi ad una band. Gli Offbeat, ospiti per la terza volta sulle pagine di UTTT, da queste parti sono ormai di casa. Un paio di anni fa, i più antichi lettori lo ricorderanno, parlavamo dell'omonimo album di debutto del trio britannico, mentre giusto la scorsa estate analizzavamo To the Rescue, quinto classificato nella top ten degli ep 2009. In Love Field, il nuovo lavoro lungo firmato dai celebri Darren Finlan, Tony Cox e Nigel Clark, riprende da capo il discorso interrotto da To the Rescue, ed ora vi spiego perchè. Il nuovo album è nei fatti una versione estesa dell'ep 2009, inizia con gli stessi 5 pezzi e ne aggiunge altrettanti, ma guai a sfiorare con il pensiero il fatto che si tratti di una mossa commerciale. I motivi li chiarisce Finlan, quando afferma che "tutti e dieci i brani di In Love Field fanno parte di un discorso univoco, un'unica trattazione sulle varie sfaccettature dell'amore. Ogni frammento, ogni traccia, ha un preciso significato singolare, ma allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle complessivo. Ecco perchè abbiamo deciso di inserire i brani dell'ep: non ci fossero stati, il disco avrebbe perso qualsiasi significato".
Premesso ciò che era doveroso premettere, mi sembra scolastico (è la terza volta che lo faccio) trattare i contenuti veri e propri di un altro ottimo disco griffato dall'affidabilissimo combo britannico. L'amore sviscerato ed analizzato sotto dieci diversi aspetti, certo, contenuti in dieci involucri di prezioso, tipico merseybeat solare per aficionados della materia. Songwriting classico e voci competenti interpretano frammenti di uno stile che mai ci stancheremo di incensare. Per chi non avesse avuto modo di ascoltare l'extended play dello scorso anno, ricordiamo che ne fecero la fortuna piccole pepite come la scintillante She Can Make the Sun Shine ed il suo classico impianto da sing along del periodo mid-Beatles. Poi Blue Sky, dove gli Offbeat imprimono a fuoco il loro marchio di fabbrica fatto di tradizionali standard Mersey illuminati da luce californiana e soprattutto Something About the Girl, clamoroso esempio di powerpop ante-litteram, uno dei migliori brani ascoltati in tutto lo scorso anno.
Chiarito il fatto che i brani citati, da soli, farebbero la fortuna di tantissimi album mediocri, Finlan e compagnia decidono di spaccare il cappello e di arricchirli con cinque canzoni di purezza astrale, e di raggiungere con esse le vette del loro livello compositivo. Citiamo, ad esempio, Where is the Girl, a parer mio il momento migliore dell'album, dove già dalle primissime note si intravvedono la compostezza e la confidenza melodica dei migliori Turtles. Sissignori, trattasi di vocal pop al suo meglio! E che dire della straordinaria When You Got Love? Che il suo midtempo, sottofondo ad intrecci armonici davvero sontuosi, porta alla mente ed al cuore il mai dimenticato ed omonimo album dei leggendari Blue, chi ha orecchie per intendere intenda. Con Word to the Wise e A Love to Last, la coppia di tracce successive, torniamo ai tempi dei tradizionali profumi merseybeat, fatti di paradigmi semplici, tempi da balera e poster di Mindbenders ed Herman's Hermits in cameretta.
La conclusione è affidata a Jennifer Sometimes, un acustico McCartiano perfetto per suggellare un disco che, in dosi molto generose, regala all'ascoltatore proprio quello che l'ascoltatore si aspetta e forse qualche cosa di più. Perchè va bene lo stile, ma alla fine, poi, contano le canzoni. Passo e chiudo con un avviso ai naviganti: coloro che già fossero in possesso dell'ep To the Rescue non si preoccupino. E' vero che ascoltando In Love Field riconosceranno cinque "vecchi" brani, ma Finlan e soci hanno ovviato al problema vendendo il disco al prezzo di un extended play. Un buon motivo in più per supportare, oltre che la musica indipendente, l'onestà intellettuale di tre ragazzi per bene.