Non so nemmeno calcolare il numero di "Best of Fountains of Wayne" che negli anni ho assemblato e masterizzato. Ne tenevo sempre uno in macchina, e non di rado gli automobilisti in coda ai semafori hanno dovuto sopportare le mie modeste interpretazioni vocali di I've Got a Flair, It Must Be Summer e di molti altri capolavori firmati dall'immarcescibile coppia Schlesinger/Collingwood. L'ultimo, rigato e inascoltabile, l'ho buttato intorno a Natale, tanto sapevo che ne avrei preparato subito un altro. L'ho fatto ieri, anche se avrei preferito essere spinto da motivazioni migliori. Cinquantadue anni sono pochi per morire, di Covid o di un'altra sciagura, chiunque sia la vittima. Ma questo annuncio colpisce troppo vicino al cuore.
Ricordo molto bene la cassettina che preparò per me l'amico Corrado, un classico misto-griglia su cui svettava una band dal nome bizzarro che non avevo ancora avuto il piacere di conoscere. I primi tre pezzi, opportunamente posti in apertura del "lato A", ricalcavano la medesima sequenza iniziale del loro secondo album di studio intitolato "Utopia Parkway", destinato in seguito a essere consumato in tutte le sue forme sugli impianti stereo più improbabili. Subito la title-track, poi Red Dragon Tattoo e Denise: fu amore a prima vista e per l'eternità.
I Fountains of Wayne erano nati qualche anno prima per l'intuizione di due personaggi che si sarebbero scoperti discreti talenti. Si chiamavano Adam Schlesinger e Chris Collingwood, il cui sodalizio si era formato tra i chiostri del Williams College, istituto superiore di belle arti nei pressi di Williamstown, Massachussets. "Ci mettevamo in camera con alcune birre, avevamo scritto dei pezzi che suonavamo con due chitarre acustiche e cantavamo a due voci, non prevedevamo che un giorno neanche troppo lontano sarebbero diventati elettrici, figuriamoci se pensavamo di registrare un album e addirittura di fare della nostra musica un lavoro". Invece funzionò, arrivarono persino le major e in particolare l'Atlantic, che licenziò l'omonimo disco di debutto, il lavoro più college, con più chitarre, a memoria di Fountains of Wayne. Radiation Vibe il brano che non si dimentica e - baby baby baby - primo singolo estratto. Il secondo, Sink to the Bottom, fruttò anche qualche biglietto verde di royalties, per merito dell'utilizzo che un illuminato pubblicitario finlandese ne fece in un certo spot. Era il 1996.
"Utopia Parkway" arrivò tre anni dopo, e occupa tuttora un posto tra i miei dieci dischi della vita. Il trittico di cui sopra, certo, ma anche l'immortale ballata Troubled Times, che spezza il cuore da più di quattro lustri, come vola il tempo quando ci si diverte, e ancora It Must Be Summer, A Nice Day for a Parade, Amity Gardens. Non vendette quanto la famelica major si aspettava e vennero lasciati a piedi, naturalmente. Loro si acquietarono per qualche tempo ma il ritorno, verificatosi nel 2003, fu detonante: è l'anno di "Welcome Interstate Managers", roba di un altro livello, e del successo planetario di Stacy's Mom, che indusse tanto di nomination al Grammy oltreché una perenne rotazione su MTV. La spietata concorrenza di gemme del calibro di Bright Future in Sales, Mexican Wine, Hackensack, Hey Julie e Valley Winter Song obiettivamente impedisce alla celebre canzone di potersi annoverare tra le migliori dell'album, ma nondimeno il gruppo raggiunse un nuovo e più alto grado di riconoscibilità anche fuori dal club dei fedelissimi.
"Traffic and Weather", annata 2007, è segnato dai pesanti problemi di alcolismo sofferti da Collingwood: "Bevevo tutto il giorno, ero scostante e poco lucido, credo di aver scritto al massimo tre canzoni per l'album, e in ogni caso non ricordo quel periodo con piacere". Schlesinger, ampiamente il maggior contributore anche nei dischi precedenti e da sempre capitano della nave, pur non attraversando il momento di maggior splendore riuscì a portare a casa un buon disco, ovviamente adornato da un altro paio di capolavori: This Better Be Good avrebbe quantomeno meritato un video; I-95 rimane una delle più struggenti ballate mai concepite da un essere umano. "Sky Full of Holes", pubblicato nel 2011, segnò un prevedibile ritorno agli abituali fasti. È l'ultimo disco dei Fountains of Wayne, e con tutto il dolore del caso possiamo archiviare l'affermazione nel faldone delle sentenze definitive. Non che le speranze di una reunion fossero troppo convinte, dopotutto Chris Collingwood era sa stato lapidario durante una chiacchierata con i giornalisti a margine della presentazione del suo nuovo progetto solista Look Park: "Un disco nuovo dei Fountains of Wayne non è nei miei programmi", aveva detto, ma la speranza com'è noto è l'ultima a morire.
Prima di lasciare questo mondo e due splendide figlie, Adam era stato molto altro: fondatore insieme alla nativa parigina Dominique Durand del terzetto indie-pop Ivy nonché dell'ambiziosissimo ed estemporaneo progetto Tinted Windows in compagnia di James Iha (Smashing Pumpkins), Tayler Hanson (Hanson) e Bun E. Carlos (Cheap Trick), egli a lungo ha vestito i panni del produttore d'eccezione e soprattutto del compositore per cinema e TV di pregio ineguagliabile. In carriera ha raccolto premi e nomination a carrettate per Oscar, Golden Globe, Emmy e Tony awards, e ha fatto parte insieme a Harry Nilsson, Andy Partridge, Rivers Cuomo e Mike Viola del pool di autori dietro alle quinte di "Good Times", il clamoroso album di ritorno dei Monkees datato 2016. Il suo miracolo, tuttavia, rimane legato alla creazione della colonna sonora di "That Thing You Do!", film del 1996 diretto da Tom Hanks che racconta di un'immaginaria band degli anni sessanta pronta a scalare le classifiche cavalcando la canzone che dà il titolo al lungometraggio.
There would be no Playtone without Adam Schlesinger, without his That Thing You Do! He was a One-der. Lost him to Covid-19. Terribly sad today. Hanx— Tom Hanks (@tomhanks) April 2, 2020
Ora, scrivere una finta hit, possibilmente credibile, di un gruppo immaginario esistito trent'anni prima, tenendo presente che la canzone sarà replicata almeno venti volte durante la pellicola, e dunque l'obbligo di non annoiare lo spettatore pena il fallimento dell'intera operazione, è un rompicapo mica male. Schlesinger l'ha risolto con agio, regalando peraltro ai posteri un singolo clamoroso edito dalla Play-Tone, label creata per l'occasione dallo stesso Tom Hanks in seguito specializzatasi nella pubblicazione di colonne sonore.
Lungi dal voler mettere insieme un'apologia a basso prezzo, occorre dire che l'uomo è stato in grado di rendere semplici, persino ovvie, le faccende più complesse, e si sarebbe dovuto capire subito, già dalla metà degli anni Novanta. Perché tutti almeno una volta si sono chiesti cosa mai si nascondesse dietro al bizzarro nome Fountains of Wayne, per poi scoprire che il mistero non c'era. Fountains of Wayne era il nome di un negozio specializzato, ma pensa, nella vendita di fonti d'acqua artificiali domiciliato nella cittadina di Wayne, New Jersey settentrionale. "Ci passavo davanti tutti i giorni in macchina", ha più volte ricordato Adam, "e mi piaceva come suonava quel nome. Non pensavo affatto potesse essere adatto a una band, eppure ha funzionato". Semplice, come ridere.
Ci mancherà la persona, l'autore di alcune tra le meno dimenticabili melodie pop degli ultimi venticinque anni, l'alchimista delle parole il cui wordplay nulla aveva da invidiare al sommo cattedratico della materia Chris Difford. La certezza di non poter mai più ascoltare un nuovo pezzo firmato da Adam Schlesinger è la notizia peggiore che potessimo ricevere, e il mio rammarico più grande sta nel non essermi deciso a prendere una macchina, o un aereo, o un treno, per andare a Utrecht oppure a Valencia, le città che sembravano più facilmente raggiungibili ai tempi del tour di "Sky Full of Holes", l'ultimo europeo per i Fountains of Wayne, nel 2011. Che la terra ti sia lieve signor Schlesinger, nessuno riuscirà più a descrivere in modo così drammaticamente esilarante una giornata in ufficio.
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