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martedì 14 maggio 2024

Bruce Moody "Popcycle"

 


"Qualcuno lo chiama power pop, io le chiamo canzoni. Mi piacciono le melodie interessanti, accompagnate da testi che raccontano storie vere". Il neorealista così presentatosi nell'autobiografia di spalla sulla pagina Bandcamp personale si chiama Bruce Moody, un signore impegnato nella musica da una sessantina d'anni che non ha mai smesso di sperare nelle possibilità evolutive della sua passione. Parafrasando la bella intervista rilasciata al magnifico blog Sweet Sweet Music, che qui ci permettiamo di linkare, passando dai primi tentativi di registrazione one take in un garage negli anni sessanta alle quattro piste dei due decenni successivi, fino ad arrivare alle infinite possibilità di sovraincisione che il mondo digitale consente a qualsiasi gestore di home studio un minimo avveduto, egli ha raggiunto la piena gioia nel costruire le proprie canzoni. Ora può abbozzarle e rifinirle e rimetterci mano quando credeva fossero finite perché gli è passata per la testa un'idea nuova durante la notte. L'infatuazione, e anche un po' di positiva smania, per la fase di gestazione delle sue creature trasuda da tutti i pori di Mr.Moody.


Come ogni Dante un pizzico improvvisato, anche Moody ha avuto bisogno di un suo Virgilio per arrivare a maneggiare le nuovissime diavolerie del creato tecnologico: il suo è stato Terry Carolan, più volte lodata guida e compagno di lunghissimo corso che l'ha portato al grande risultato di oggi: registrare un disco in completa autonomia, fatta eccezione per la presenza di alcuni graditi ospiti (uno è Jeff Tracy dei Blue Cartoon). Registrare? Forse sarebbe il caso di dire ri-registrare, per meglio far capire il senso del titolo del disco, "Popcycle", ingegnoso gioco di parole sorto dal combinato tra "Pop" e "Recycle", "riciclare". Delle tredici canzoni componenti l'album, dodici erano infatti già bozze negli anni '80 ora rifinite, riarrangiate e "chiuse" come l'autore avrebbe sperato di scolpirle all'epoca. La tredicesima, in veste di bonus, è un pezzo che negli eighties era già fatto e finito, qui riportato paro paro. 


L'epoca del concepimento si fa sentire eccome, ma l'album, per le ingegnose trovate che lo modulano, sta lo stesso in piedi alla grande. I'm Gonna Tell Her Tonite è distillato di pop superiore contrassegnato da voci abbaglianti e batteria corpacciuta: in apertura del disco ci sta benissimo. Shy Girls è pervasa da un'indeterminata atmosfera para-sunshine pop, filtrata da arrangiamenti ottanta e infiorata da un inaspettato ponte psichedelico. L'uso dei tasti in generale finisce per caratterizzare il disco sopra ogni altra cosa: synth, piano, tastierini, organetti, casiucci o riproduzioni fedeli di questi ultimi la fanno da padroni, non c'è alcun dubbio a riguardo. E allora il vagolante assolo al centro di Little By Little non è più di un gregario per l'organetto che ne regge la melodia stratosferica, It's Not Like Mine trae la propria forza da un creativo (e pervasivo) tappeto d'impetuosi sintetizzatori e una sorta di vintage casio-pop ammanta le succose Labels e Turn Away, quest'ultima pure lievemente lisergica.

 

Scavando altrove, The World Of Poison somiglia a una versione confidenziale di Marshall Crenshaw e aggiunge un tocco jangle presente anche in A Very Dull Girl, ma la Rickenbacker più incisiva, suonata da Kei Sato dei giapponesi Choosers, si fa apprezzare nel corso di Keep It Together, maxi pop in chiave 60s revival che sarebbe stata a pennello su un disco dei grandi e (spero non del tutto) dimenticati Winnerys. Grandi melodie guidate da un appropriato basso dominate governano I Can't Hurt For The World e Creepy People, mentre la conclusiva e acustica Houdini è pura narrativa Ray Davies. Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte a scelte di produzione oggigiorno non più convenzionali; io invece vi confermo che l'abbinamento con il plateau di canzoni offerto rende il tutto davvero gustoso (e credibile). A voi l'ardua sentenza, ma qui, gratta gratta, le canzoni ci sono.

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