01. Fun. - Aim & Ignite. Il nome di Nate Ruess dovrebbe dirvi qualcosa, addirittura molto se avete seguito anche solo distrattamente la scena pop americana degli ultimi anni. Perchè i Format, la band di cui Nate era a capo, di quella scena erano tra i rappresentanti più illustri. Dispiace parlare al passato, ma il buon Nate ha spedito il progetto in soffitta, non sappiamo se per ora o per sempre. Di sicuro, non ci si poteva di certo aspettare che una delle voci più attraenti (ed attrattive) dell'ultimo decennio rimanesse a lungo fuori dalla porta. Ed in effetti così non è stato. Ma il modo in cui è rientrato in pista ha lasciato tutti di stucco. Fun., semplicemente Fun., è il nuovo progetto di Ruess, accompagnato in questa nuova avventura da Andre Dost e da Jack Antonoff, ma anche da Steven McDonald (pirotecnico alla produzione) e soprattutto da Roger Manning jr, che da una mano agli arrangiamenti e come di consueto esalta qualsiasi lavoro su cui metta mano.
L'hanno detto tutti, ma proprio tutti e noi, a costo di sfociare nel banale, volentieri ci accodiamo: Mai nome di un gruppo fu così intonato al contenuto di un disco. Ci si diverte, eccome se ci si diverte, durante le dieci tracce che compongono Aim & Ignite, e sembra che anche Nate Ruess si diverta come non mai. Dieci episodi dove il super talento di cui l'autore è dotato sgorga, sfocia, invade. Dove lo spirito libero di Ruess raggiunge la massima espressività possibile. Trattasi di puro sfogo creativo, e l'iniziale Be Calm è un ottimo Bignami per capire a cosa si andrà incontro: un torpedone sonoro dove Nate e compagni buttano tutto quello che si può senza lesinare su nulla, un musical in un solo brano, un' architettura di base studiata da un progettista fuori controllo sapendo di esserlo. Il primo singolo estratto dall'album, All the Pretty Girls, è un sensazionale infuso barocco che meriterebbe di vendere centomila volte più di Mika, e le varie Walking the Dog, At Least I'm Not As Sad (As I Used to Be) e soprattutto I Wanna Be the One lasciano letteralmente a bocca aperta, sia quando seguendo il sentiero segnato dai Jellyfish sfociano nell'enfatico e nel vistoso, sia quando ci si accorge che si, certi impasti vocali sono meravigliosamente debitori di certi Beach Boys sfasati. Un piccolo grande capolavoro, degnissimo vincitore della classifica sui 100 migliori LPs del 2009.
02. The Felice Brothers - Yonder Is the Clock. Il miglior gruppo folk/alt.country del mondo è tornato con il terzo album in poco più di due anni. E come è tornato. Se l'esordio (Tonight at the Arizona) aveva generato aspettative immense che il clamoroso ed omonimo secondo lavoro di studio aveva addirittura superato, è chiaro che l'esame del terzo disco presentava un percorso irto di ostacoli. Superati, divelti, spazzati via da un lavoro, Yonder Is the Clock, che è li, fermo nel suo tempo (in questo senso, molto azzeccata la metafora dell'orologio), bello nella sua naturalezza, come una ragazza senza trucco, in tutta la sua malinconia. Eh si, perchè passata la maturità del secondo disco si diventa adulti, si riflette, si rimugina, al limite, e Ian Felice ha tutta l'aria di essere in una fase di bilancio piuttosto cupa. L'album, fatta eccezzione per la superba Penn Station e per la scoppiettante Run Chicken Run, incede lento e malinconico, pensoso, verrebbe da dire, pregno di testi che parlano di vita vissuta e dell'età che avanza, di lavoro e di protesta. Cose semplici, ambientate in un contesto da ballata elementare: insomma, tutto ciò che non dovrebbe funzionare. Eppure funziona, alla grande. Una meraviglia dietro l'altra già dalla minimale e sconsolata The Big Surprise, proseguendo su simili tensioni emotive durante Buried in Ice e lungo Ambulance Man, solo voce e chitarra per un brano che rimanda a Grant Lee Phillips e al Lowery più introspettivo, fino a Boy From Lawrence County, vero picco emotivo e compositivo del disco. La produzione, al solito, è minimale e senza fronzoli, Ian Felice strascica e vira fuori metrica come Zimmermann ai tempi d'oro, e il gruppo suona come fosse la Band agli esordi in una sagra di paese. Cose semplici, dicevamo. Sarà per questo che, quando si parla di americana moderna, i Felice Brothers sono i numeri uno.
03. Sergeant - St. Quattro ragazzini di Glasgow, all'esordio sulla lunga distanza, che dal niente tirano fuori dal cilindro il più eccitante album di puro jangle-pop dell'anno. Sarà che da quelle parti sono abituati bene, quando si parla di Rickenbacker ed argomenti affini. Sarà quel che sarà, ma nonostante il discreto hype che i ragazzi hanno scatenato nell'underground (ma neanche troppo, poi) britannico, i Sergeant suonano fortunatamente molto meno "indie" e molto più guitar pop di quello che ci si sarebbe potuto aspettare. Meglio cosi, anche perchè tutto sommato, a parte le disquisizioni di genere, il quartetto scozzese guidato da Nick Mercer scrive canzoni esaltanti, con i piedi belli piantati nel presente ma la testa rivolta al jangle-rock di casa e non solo. Il punto di riferimento, e avercene, è sostanzialmente uno: Lee Mavers. Chi lo ha amato, e sfido qualunque lettore di questo blog a provare il contrario, non può prescindere da un album come questo e da melodie impagabili, come quelle che guidano l'un-due-tre di partenza più clamoroso dell'anno. Sunshine, Swiftly Does It e Counting Down the Days sono dinamite melodica allo stato puro. In sostanza, se come me pensate che La's, Dodgy e via, anche Bluetones, siano né più né meno leggende, l'omonimo album di debutto dei Sergeant è un acquisto da cui non si può prescindere.
04. Michael Carpenter - Redemption #39. Quando Michael Carpenter decide di fare uscire un disco, un posto nella top ten gli spetta quasi di diritto. Un pò per i meriti acquisiti sul campo in dieci anni di grande musica pop, un pò (molto) perchè ogni suo lavoro è assolutamente all'altezza. Redemption #39 è - se non ho fatto male i conti - il suo sesto album di studio, se consideriamo solo i dischi fatti da sue composizioni (escludendo dunque i due volumi della serie Songs of Other People) ed escludendo collaborazioni varie (vedi i Supahip, per esempio). Devo dire che nessun album di Michael mi ha mai minimamente deluso, questo non fa eccezione ed in un'ipotetica classifica riguardante i suoi lavori da solista lo metterei al pari di Hopefulness, giusto un pelo dietro all'esordio Baby e giusto un pelo davanti a Rolling Ball. Al cospetto di Redemtion #39 valgono le usuali riflessioni: grandioso powerpop d'autore per un artista che è una vera propria icona del pop chitarristico australiano degli ultimi quindici anni. Come di consueto, anche quest'album è un one-man-tour-de-force: Michael canta, suona, arrangia, produce. Tutto da solo. E tutto perfetto, come al solito. Lezioni di songwriting sparse un pò ovunque: dall'iniziale Can't Go Back alla beatlesiana title-track; dal meraviglioso alt.country di Workin' for a Livin' all'eccentrica King of the Scene, che non ci sarebbe stata male sull'album dei "capiclassifica" Fun. Tra le tante splendide ballate che completano il disco, una citazione la merita Falling Down, parentesi intimista e confessionale da goccioloni. E' bello sapere che certi autori non tradiranno mai. Semplicemente, non ne sono capaci.