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sabato 2 agosto 2025

Drugs In Sports "If Only We Could Use These Powers For Good" (Double Drummer)


Non capita spesso che un disco di power pop riesca a evitare il pantano dell’imitazione e, insieme, a restituire freschezza a una forma tanto frequentata quanto abusata. Ma il secondo album dei Drugs in Sport ci riesce, e con un’agilità sorprendente. Il titolo – If Only We Could Use These Powers For Good – suona come una battuta lasciata a metà tra sarcasmo e autoconsapevolezza, ma in realtà è tutto il contrario: questo disco usa i suoi poteri benissimo. E lo fa giocando pulito, senza nostalgia pelosa né posture da falsi outsider.

Il gruppo viene da Newcastle, Australia, e aveva già fatto parlare di sé col debutto omonimo del 2022, ma qui mostra un altro passo: la scrittura è più matura, la produzione (di Geoff Mullard, con master di Nick Franklin) più rifinita senza perdere grana, e l’intesa tra i membri evidente fin dal primo minuto. In un tempo in cui troppe band confondono lo-fi con trascuratezza, i Drugs in Sport puntano invece su nitore, economia e precisione.

Cooked apre con decisione, un mid-tempo nervoso che imposta il tono: chitarre compresse ma brillanti, batteria quadrata, melodia che si accende a metà. Ma è con Snuffed che si entra nel vivo: riff circolare, coro a presa rapida, bridge che taglia netto — power pop alla maniera dei primi Fountains of Wayne, ma con una certa ruvidità da garage australiano che lo tiene lontano dalla caricatura.

Frequently Sideways vira su un tono più ironico, una via di mezzo tra lo Slack Pop dei Pavement meno slabbrati e certe cose dei Fastbacks: una canzone che sembra disordinata finché non ci si accorge di quanto sia costruita bene. Squander the Day, già uno degli highlight in sede live, è un piccolo inno generazionale mascherato da episodio jangle-pop: malinconico, luminoso, tutto in levare.

Troll and Trigger è la più ruvida del lotto, quasi punk-pop nei modi, mentre Elites and Deletes torna su un registro più articolato, con cambi di ritmo che ricordano certi momenti meno lineari dei Redd Kross. Il riff di Gravitational Crush è puro caramello elettrico, e il ritornello è di quelli che restano in testa senza chiedere il permesso — power pop come si dovrebbe insegnare nei conservatori, se ne esistessero.

Burning Churches è forse il brano più melodicamente ricco del disco, con una tensione sottopelle che non si risolve mai del tutto, e A Touch Too Rough rallenta i giri senza perdere precisione: si intravede qui una vena alla Matthew Sweet, ma meno sdolcinata, più concreta. La chiusura è affidata a Embrace Absurdity, che è esattamente quello che il titolo promette: un’esortazione a stare nel caos con dignità pop e una melodia che sale, sale, e poi non cede.

Nessun brano sfora i quattro minuti, eppure il disco non ha fretta: ogni traccia è lavorata come un piccolo singolo, con attenzione ai dettagli, ai finali, ai ponti — tutte cose che chi ama davvero il pop sa riconoscere e apprezzare. È un album che riesce a far coesistere energia e riflessione, leggerezza e mestiere, e che conferma i Drugs in Sport come una delle band più solide e intelligenti della scena indie-pop contemporanea.

Bandcamp


 

giovedì 31 luglio 2025

The Brigadier "Sailing the Seven Neurosis" (Omega Three)


Con Sailing the Seven Neuroses, The Brigadier (alias Matt Williams) torna in studio dopo otto anni di silenzio discografico. Il risultato è un album compatto e consapevole, che affonda le radici nel pop angloamericano tra fine anni ’70 e primi ’80, tra power pop raffinato, echi soft-rock, e arrangiamenti curati fino al dettaglio, mai ostentati, sempre funzionali. Bello ritrovare Matt in splendida forma 18 (!) anni dopo la sua prima e unica apparizione da queste parti: era il 2008, e scrivevamo con piacere alcune riflessioni riguardanti "The Rise And Fall Of Responsibility", il secondo album lungo coperto dal moniker ancora in uso. Nel frattempo di acqua e dischi ne sono passati sotto i ponti, sicuramente non invano. "Sailing The Seven Neuroses" è il risultato del tempo trascorso.

L’inizio è affidato a “Bleak Companion”, brano d’apertura pulsante e malinconico, che mostra subito la centralità della melodia nel lavoro di Williams: tutto qui ruota attorno a una scrittura pop intelligente e stratificata, non priva di un certo qual nerbo. “Blessings” e “Peace Within the Poison” riprendono elementi sunshine pop e jangle rock, filtrati da un gusto contemporaneo per il suono pulito e l’armonia misurata. Il brano strumentale che dà il titolo all’album è una parentesi ariosa, con un sapore quasi balearico, che introduce la seconda metà del disco su coordinate più ritmiche.

“Man About the House” e “It’s You I Think About” richiamano certe produzioni anni ottanta tra indie-pop e soft-synth (si pensi ai Prefab Sprout più diretti), mentre “What About Tomorrow?” sorprende per una chitarra più decisa, tra Marc Bolan e i Raspberries, che mantiene sempre e comunque in primo piano gancio melodico. Chiude il disco “Don’t Go To Bed With A Bad Mind”: oltre cinque minuti che sintetizzano il percorso dell’album, tra cambi di tempo, sovraincisioni vocali e una scrittura che si concede finalmente un respiro più ampio.

Bandcamp


 

mercoledì 30 luglio 2025

Blackbirds FC "Desire Lines" (autoprodotto)

 

C’è qualcosa di meditativo e necessario in Desire Lines, il disco che segna il pieno compimento della voce dei Blackbirds FC, band di Melbourne che da anni si muove con passo laterale nel territorio del pop chitarristico, evitando tanto la nostalgia quanto l’attualità patinata. Il titolo non è una metafora forzata: le “desire lines” sono quei sentieri tracciati inconsapevolmente dal passaggio umano nei prati, nei parchi, nelle città — percorsi che deviano dalla mappa ufficiale per seguire l’istinto. La musica del quintetto segue lo stesso principio: niente pose, niente scorciatoie, solo brani che si formano lentamente, come se esistessero già da tempo e la band si limitasse a scoprirli.

Jeremy Gronow guida tutto con una voce che non ha bisogno di alzarsi per farsi ascoltare, sostenuta da testi che parlano di distanze, affetti che sfumano, mappe emotive da ridisegnare. Le chitarre di Damian Sutton e Grant Shanahan si intrecciano con naturalezza: Sutton — noto per il suo lavoro nei suoni cinematici ed eleganti di The Sand Pebbles e nella raffinata malinconia dei The Earthmen — porta una sensibilità chitarristica precisa, atmosferica, capace di alternare fragilità e incanto. Shanahan, da parte sua, è una figura ben nota alla scena australiana, già con The Stems e coinvolto nella dimensione live dei Go-Betweens post-McLennan. La sezione ritmica, con Leigh Maden al basso e Michael Badger alla batteria, lascia spazio e respiro, conferendo all’intero disco un’aria di calma consapevole.

Il tono è quello della riflessione, ma non dell’immobilità. Il brano d’apertura, What’s The Half‑Life of Loving You?, sembra riflettere sull’erosione lenta di un amore, mettendo in musica la chimica della separazione con una leggerezza quasi ingannevole. Poco dopo, Lake Of Stars apre il paesaggio emotivo a una dimensione più ampia, evocando un altrove reale e immaginato, tra festival africani e malinconie universali. È uno dei pezzi più cinematografici del disco, e forse il più lirico.

C’è anche spazio per uno sguardo più interiore in Rings Around The Sun, scritta durante il primo lockdown, che suona come una meditazione sul tempo sospeso — voce, archi e organo Hammond si muovono con lentezza quasi rituale, come se ogni nota servisse a prendere fiato. Altrove, come in June Day, prevale un senso di grazia trattenuta: una giornata luminosa, ma senza l’inganno dell’estate piena, dove la melodia sembra voler restare un passo indietro per non forzare la mano all’emozione.

Ma è con Maps Will Be Burned che il disco pare esplicitare la sua poetica: lasciar bruciare le mappe per affidarsi a un percorso non tracciato, deviare con intenzione. Il brano ha un’energia più marcata, ma sempre sotto controllo, come una spinta sommessa verso la libertà.

Desire Lines non è un disco che cerca attenzione. È un disco che cerca affinità. Non alza mai la voce, ma ogni ascolto ne rafforza la presenza. È fatto per chi ama le deviazioni, le cose che non si impongono ma restano. Per chi ha imparato a riconoscere i sentieri quando spuntano sotto i piedi — senza preavviso, ma con una direzione precisa.


martedì 29 luglio 2025

Splitsville "Mobtown" (Big Stir)

 


Nel panorama obliquo del power pop americano, dove la fedeltà alla forma è spesso un’ancora e una trappola, gli Splitsville sono sempre stati artigiani attenti e un po’ laterali. Nati alla fine degli anni ’90 attorno al nucleo dei gemelli Matt e Brandt Huseman (già fondatori dei leggendari Greenberry Woods), affiancati dal bassista Paul Krysiak e dal batterista Tony Waddy, il gruppo ha sempre coniugato spirito indipendente e classicismo pop con una coerenza rara. Il loro ritorno con Mobtown, a più di vent’anni da Incorporated, non ha nulla della reunion nostalgica né del gesto stanco. È un disco che non chiede il permesso di esistere e non fa concessioni: parla con naturalezza a chi ha orecchie allenate a riconoscere la complessità nei suoni semplici, e non ha bisogno di ostentare nessuna reinvenzione. Suona come un nuovo capitolo, non come un epilogo.

Il titolo stesso — Mobtown, soprannome ottocentesco di Baltimora — è già un manifesto. Non è un album “su” una città, ma “dalla” città, intesa come geografia affettiva e storica, tra frammenti urbani, narrazioni personali e memorie condivise. Ma non c’è mai compiacimento, né didascalia: è una scrittura filtrata, stratificata, che trasforma strade e stazioni in metafore e piccoli drammi.

L’avvio con Cold Open è diretto e luminoso, quasi a voler mettere subito in chiaro le cose: riff chiaro, ritornello immediato, voce che non forza mai. Va bene la memoria, va bene l'analisi, ma insomma cerchiamo di tirare dritto. Da lì in avanti, il disco si apre in più direzioni. A Glorious Lie, uno dei brani più articolati, persino para-prog nello stacco sul finire del brano, prende spunto dalla storia del Belvedere Hotel per costruire un affresco malinconico e barocco su illusioni e tempo che passa. On Federal Hill è un pezzo in bilico tra malinconia e osservazione, costruito su un’andatura contenuta e una melodia che preferisce la risonanza alla spettacolarità. C’è qualcosa di trattenuto nel modo in cui la canzone si muove, come se la città venisse guardata da lontano, da un punto sopraelevato ma emotivamente vulnerabile. Non è una cartolina nostalgica: è una riflessione su ciò che resta quando la familiarità si incrina, e anche i luoghi sembrano sfumare.

Tra i brani  più preferiti di chi scrive certo c’è Southern Hospitality, che si apre con un’introduzione esemplare per chi ama il power pop nella sua forma classica: riff secco, accordi pieni, armonie vocali pronte a sbocciare al primo ritornello. È uno di quei pezzi che sembrano costruiti con cura artigianale, e che non hanno bisogno di sovrastrutture per colpire: bastano i giusti quattro accordi e una melodia chiara. Eppure, anche qui, gli Splitsville non si accontentano della formula: il testo gioca con l’idea di accoglienza e apparenza, accennando con ironia al contrasto tra facciata e realtà — tra la cortesia del titolo e la complessità dei rapporti che evoca. Un brano che guarda dritto a Todd Rundgren e ai Raspberries, ma con la consapevolezza di chi è passato attraverso parecchi inverni.

Gray cambia completamente registro: tempo lento, atmosfera sospesa, arrangiamento che lascia spazio a ogni nota. È il brano più intimo, e quello che conferma come la band non sia rimasta ferma nel tempo. Penn Station, posta in chiusura, è invece una dichiarazione d’amore a una città che cade a pezzi e si ama comunque: “This city’s gonna fall apart / But I love it anyway”. È un’uscita struggente, che lascia l’ascoltatore in un punto preciso tra rimpianto e affetto.

Mobtown è un album che celebra la forma canzone come linguaggio pienamente moderno. Non è vintage, non è revival, non è aggiornamento. È un lavoro coerente, curato, suonato con misura, che dice molto senza mai gridare. Un disco che arriva tardi solo per chi ha fretta: gli altri lo capiranno subito. Specie quelli che dal lontano 2001, anno di pubblicazione del sommo capolavoro "The Complete Pet Souls", amano gli Splitsville e i fratelli Huseman.

giovedì 27 giugno 2024

MOOON "III"


Finora è stato un anno niente male per i gruppi a conduzione familiare. I fratelli D'Addario, come tutti sanno, hanno messo insieme quello che con ogni probabilità sarà uno dei migliori album del 2024: vero, direte voi, ancora non ne avete parlato. Rimedieremo, forse, non promettiamo niente, ma "A Dream Is All We Know" verrà ricordato per molto tempo a venire, se non addirittura preso a esempio di un determinato stile. Vette altissime, ma anche i fratelli De Jong tendono a dire la loro. 

"III" è ovviamente il terzo disco di studio della saga MOOON, ed è un altro commendevolissimo esempio di come si possa pervicacemente rimanere adesi agli stilemi beat, garage e psichedelici del compendio "Nuggets" risultando nondimeno freschi e ingegnosi. I fratelli Tim e Gijs, accompagnati dal cugino Timo Van Lierop, scandagliano il repertorio dei classici di genere ed escono dagli archivi con undici pezzi per quarantacinque minuti di musica rassicurante ma colorata, e a tratti persino rischiosetta.

I MOOON - tre "O" aiutano pure a semplificare le insidiose ricerche in rete - salpano con il beat striato da chitarre jangle di Rainbow Flowers, ed è una grande partenza. Possono ricordare una versione "settantesca" degli Small Faces nel corso del singolo Richard Has A Racecar, e costeggiano pericolosamente da vicino il territorio Who in I Will Get To You. Mr. Albicity e la deliziosa G.A.S. riportano le lancette all'irripetibile era magica del pop psichedelico esaltato dai miti Tomorrow ed Apple, mentre Hurting My Heart e Buy Me A Smile mostrano evidenti connessioni con il Nederbeat dei loro nonni. Il trio riesce a risolvere un bel rompicapo conducendo in porto la strampalata e lunghissima jam basculante tra vagiti prog e jazz You Cannot Know, e con If Only I Knew sforna una gran ballata Macca ornata da godibili arrangiamenti per archi.

"III" è frutto di una co-produzione tra la leggendaria etichetta di Amsterdam Excelsior Recordings (casa, tra gli altri, di Daryll-Ann e Johan) e Soundflat Records, ed è un prelibato omaggio ai suoni beat e psichedelici dell'era d'oro del rock'n'roll pronto ad accompagnarvi in un suadente viaggio lungo l'estate. Anche se deciderete di restare a casa. 

venerdì 31 maggio 2024

Valley Lodge "Shadows In Paradise"


I Valley Lodge, creatura dell'istrionico Dave Hill da New York City, arrivano a cinque. Autore, commediante da stand-up, artista (auto) ironico e pungentissimo, con la sua creatura power pop Mr. Hill nel 2005 regalò alla platea di aficionados uno dei dischi fondamentali del millennio. Ricordo ogni singolo passaggio della vicenda: la presentazione entusiasta di Bruce Brodeen nel classico pezzo dedicato alle novità settimanali sul sito della Not Lame; il conseguente ascolto del sample di un paio di pezzi; l'inclusione nel bimestrale ordine alla leggendaria label/distro dal Colorado; i ripetuti ascolti del medesimo in macchina. C'è stato un momento in cui ho seriamente pensato che il primo, omonimo disco dei Valley Lodge meritasse un posto nella top 10 nella classifica riguardante i migliori dischi power pop di tutti i tempi. Probabilmente esageravo - la vita è fatta di infatuazioni e di momenti - ma quell'album rimarrà nel cuore. Per la storia chissà.

Tra quel disco e "Shadows In Paradise" sono passati altri tre lavori lunghi, tutti caratterizzati da qualità altina, humor affilato e spericolatissime, ma riuscite, linee vocali. Tratti ormai distingubilissimi del patrimonio genetico dei Valley Lodge, ovviamente rintracciabili anche nei brani oggetto dell'odierna sbrodolata. "Shadows in Paradise" ha tutto quello che ci aspettiamo quando di mezzo c'è Dave Hill: canzoni di solidità granitica, melodie di varia foggia immancabilmente appiccicose e quel concentrato di bubblegum, glam, falsetti e armonie vocali spinte che da ormai due decenni ci costringono a un certo qual craving nell'attesa di sue nuove.

Il singolo-apripista Daylights è un sunto del classico suono Valley Lodge tra ganci melodici gravemente additivi, riffoni glitterati e un ritornello esagerato che mi ricorda il Brendan Benson più chitarristico periodo "Alternative To Love". Le stesse piste seguite dalle stupende Doorstep e dall'highlight Out Of Time, bomba a orologeria classica quanto volete ma com'è possibile resistere al botta e risposta del ritornello spiegatemelo voi. Hanging Around vagola su un giro di basso d'ispirazione Michael Dempsey per poi tenere altissimo il filo della tensione nell'alternanza compulsiva tra un delicato pianoforte e chitarroni da sbornia, mentre After School vira su sentieri più hard pop alla maniera dell'ultimissimo Kurt Baker.

Se c'è una cosa che Dave Hill e soci sanno fare benissimo è sparigliare le carte mantenendo una compattezza per nulla scontata: negli arrangiamenti ottanteschi di tastiera che dominano Dyin', per esempio, ma anche nelle ottave altissime agganciate da Hill nel 70's AM radio di Secret Lover, roba che farebbe godere i fan dei Bee Gees dell'epoca ma anche i Gibb Brothers stessi. Qualche conservatore potrebbe chiamarli eccessi, ma non avrebbe ancora sentito Dirty Dishes, che ai vocalizzi ispirati da chi sapete bene aggiunge un'atmosfera retro soul tarata su trame saltellanti che riportano alla mente addirittura i Supertramp. Nel complesso, "Shadows In Paradise" è un altro grande disco dei Valley Lodge tutto chitarre, brillantini e voci clamorosamente impeccabili nonostante le scelte spesso estreme, che farà felici, tutti insieme, i fanatici di Thin Lizzy, Bee Gees, del glam più ammiccante al gusto melodico e del pop rock radiofonico da programma mattutino degli anni '70.

 

martedì 14 maggio 2024

Bruce Moody "Popcycle"

 


"Qualcuno lo chiama power pop, io le chiamo canzoni. Mi piacciono le melodie interessanti, accompagnate da testi che raccontano storie vere". Il neorealista così presentatosi nell'autobiografia di spalla sulla pagina Bandcamp personale si chiama Bruce Moody, un signore impegnato nella musica da una sessantina d'anni che non ha mai smesso di sperare nelle possibilità evolutive della sua passione. Parafrasando la bella intervista rilasciata al magnifico blog Sweet Sweet Music, che qui ci permettiamo di linkare, passando dai primi tentativi di registrazione one take in un garage negli anni sessanta alle quattro piste dei due decenni successivi, fino ad arrivare alle infinite possibilità di sovraincisione che il mondo digitale consente a qualsiasi gestore di home studio un minimo avveduto, egli ha raggiunto la piena gioia nel costruire le proprie canzoni. Ora può abbozzarle e rifinirle e rimetterci mano quando credeva fossero finite perché gli è passata per la testa un'idea nuova durante la notte. L'infatuazione, e anche un po' di positiva smania, per la fase di gestazione delle sue creature trasuda da tutti i pori di Mr.Moody.


Come ogni Dante un pizzico improvvisato, anche Moody ha avuto bisogno di un suo Virgilio per arrivare a maneggiare le nuovissime diavolerie del creato tecnologico: il suo è stato Terry Carolan, più volte lodata guida e compagno di lunghissimo corso che l'ha portato al grande risultato di oggi: registrare un disco in completa autonomia, fatta eccezione per la presenza di alcuni graditi ospiti (uno è Jeff Tracy dei Blue Cartoon). Registrare? Forse sarebbe il caso di dire ri-registrare, per meglio far capire il senso del titolo del disco, "Popcycle", ingegnoso gioco di parole sorto dal combinato tra "Pop" e "Recycle", "riciclare". Delle tredici canzoni componenti l'album, dodici erano infatti già bozze negli anni '80 ora rifinite, riarrangiate e "chiuse" come l'autore avrebbe sperato di scolpirle all'epoca. La tredicesima, in veste di bonus, è un pezzo che negli eighties era già fatto e finito, qui riportato paro paro. 


L'epoca del concepimento si fa sentire eccome, ma l'album, per le ingegnose trovate che lo modulano, sta lo stesso in piedi alla grande. I'm Gonna Tell Her Tonite è distillato di pop superiore contrassegnato da voci abbaglianti e batteria corpacciuta: in apertura del disco ci sta benissimo. Shy Girls è pervasa da un'indeterminata atmosfera para-sunshine pop, filtrata da arrangiamenti ottanta e infiorata da un inaspettato ponte psichedelico. L'uso dei tasti in generale finisce per caratterizzare il disco sopra ogni altra cosa: synth, piano, tastierini, organetti, casiucci o riproduzioni fedeli di questi ultimi la fanno da padroni, non c'è alcun dubbio a riguardo. E allora il vagolante assolo al centro di Little By Little non è più di un gregario per l'organetto che ne regge la melodia stratosferica, It's Not Like Mine trae la propria forza da un creativo (e pervasivo) tappeto d'impetuosi sintetizzatori e una sorta di vintage casio-pop ammanta le succose Labels e Turn Away, quest'ultima pure lievemente lisergica.

 

Scavando altrove, The World Of Poison somiglia a una versione confidenziale di Marshall Crenshaw e aggiunge un tocco jangle presente anche in A Very Dull Girl, ma la Rickenbacker più incisiva, suonata da Kei Sato dei giapponesi Choosers, si fa apprezzare nel corso di Keep It Together, maxi pop in chiave 60s revival che sarebbe stata a pennello su un disco dei grandi e (spero non del tutto) dimenticati Winnerys. Grandi melodie guidate da un appropriato basso dominate governano I Can't Hurt For The World e Creepy People, mentre la conclusiva e acustica Houdini è pura narrativa Ray Davies. Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte a scelte di produzione oggigiorno non più convenzionali; io invece vi confermo che l'abbinamento con il plateau di canzoni offerto rende il tutto davvero gustoso (e credibile). A voi l'ardua sentenza, ma qui, gratta gratta, le canzoni ci sono.