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sabato 29 maggio 2010

Under the History Tree (puntata #3). Ducks Deluxe - Ducks Deluxe / Taxi to the Terminal Zone

Under the History Tree, nelle intenzioni originali, sarebbe dovuta essere una rubrica mensile, ma gli iniziali buoni propositi sono stati brutalmente soppiantati dai fatti: 3 articoli in un anno e mezzo. Ovviamente mi assumo la responsabilità per i continui ritardi nella pubblicazione dei post e mi scuso con l'autore. Prometto, tuttavia, che d'ora in avanti lo spazio dedicato al ripasso dei classici che hanno fatto la storia della NOSTRA musica inizierà DAVVERO a comparire su queste pagine una volta al mese.

DUCKS DELUXE: PUB ROCK A 5 STELLE

di Zio René

La necessità della musica non esiste, paradossalmente è un bisogno “indotto", che fa comodo ai padroni del vapore che possono vendere qualche milione di dischi in più e guadagnare più soldi.
La generazione degli anni ’60 scopre però che fa parte dell’apparato genetico della razza e incominciano a masticare musica perché non se ne può fare a meno. Il pop e il rock’n’roll non sono timidi o ingenui agganci per uscire dalla crisi, diventano il modo per sconfiggere la monotonia, la tristezza, la noia di vivere e lo squallore umido dei sabati sera. Il suono vive della sua primitività fisica, pronta a trasmettere immediatamente il brivido dell’azione, a eccitare i muscoli, a mettere in movimento le fibre nervose. A provocare l’estasi aspra è il rock’n’roll. La rivolta si sviluppa con la complicità strutturale dei quattro accordi che aggiustano la comunicazione e la trasformano in avventura. La legano alla intuizione dell’aggiustamento dei sensi per l’elettrica stimolazione del vivere, irriconoscibile ed esattamente al contrario, un gesto emotivo che si può incriminare ma non derogare.

Quattro ragazzi dai capelli lunghi strepitano e danno gioia alla propria generazione e sono già la risposta allo spartito con su scritto “ andante moderato molto bianco . La dicitura diventa “ fortissimo sporco strisciante”. Si aprono le stanze delle “cose che contano”. La protagonista diventa la musica nella sua fiammeggiante esistenza, cade a strapiombo nel cervello e a dispetto del glaciale silenzio corre verso la novità. Magari si rivernicia, viene recuperata e ricamata, ma rimane intelligente nella sua paranoia senza vuoti di ispirazione, testarda nel suo battere (beat) , con l’ipotesi di attestarsi nella scena giusta, in cerca di osanna. Astuta si mette al tavolino delle emozioni e dimostra la affascinante capacità di trasformarsi. Si consacra alla psichedelia, al revival blues, alla furia dell’hard rock, si apre ai suggerimenti jazzistici, approda nell’ ambiguità del glam, costruisce con tecnica soffice e acuta il progressive.

In qualcuno, però, serpeggia il dubbio che la musica stia volando via e che stia accadendo qualcosa che a nessuno era chiaro cosa fosse. Si era tutti immersi negli affari e non si capiva che eravamo sempre bastardi, anche se intelligenti. Accecati dalla approvazione nei confronti di questa evoluzione, la si cercava completa, totale, quasi a sconfinare nella passione, mascherata dal sacerdozio discografico. L’ordigno veniva disinnescato e del ”geniere” appassionato che sputava gioia (il rock'n’roll) non rimaneva che il ricordo, nemmeno “consolato” dalla voce, che diventava lamentosa e aveva il timbro pallido della morte. Si stava perdendo con questo estremismo l’irrazionalità, il medium sensuale che sosteneva il nostro cuore e suscitava e faceva scaturire dal nulla torrenti di energia e parlava in modo chiaro anche se drammatico. La musica diventava sempre più pretenziosa. La Terra d’Albione del rock era caratterizzata in massima parte dai travestimenti del glam, del progressive, del pomp, dell’art-rock. Questo nuovo rock sembrava affetto dalla sindrome di Narciso, condannato ad innamorarsi della propria immagine e che resosi conto della impossibilità della sua passione, arriva a lasciarsi morire.

In un certo senso bisognava cambiare metodo. Basta paillettes e lustrini; era ora di riindossare jeans sdruciti, giacche di pelle e riaprire il calderone degli “ ameircan roots” (blues, rock’n’roll, rythm & blues, country, ecc.). Quasi come un immagine di B movie degli anni ’60, come un luogo per sognare rockville e dintorni, nasce il Pub Rock, movimento musicale dei primi anni settanta, incentrato attorno al nord di Londra e sud est di Essex, particolarmente Canvey Island e Southend on Sea. In un certo senso un fenomeno britannico non molto diverso dal roots rock, e che consisteva praticamente in band dall’impronta mod che suonavano rock'n'roll, country e blues, con iniezioni di beat e english sound, nei locali e pub dell'Inghilterra. Era musica essenzialmente dal vivo, live. Abbandonare le arene, gli stadi e scaricare gli amplificatori nei back-rooms dei pub, nei clubs e realizzare il proprio sogno di vivere il rock “nudo e crudo" come musica senza tempo, come migliore esperienza di vita. Il gioco sta nella ricostruzione ironicamente riciclata ma contagiosa dell’entusiasmo che sventola in noi, la voglia di alzare ansiosi una pinta di birra Dosh e sentire rock’n’roll. Al “bischero” che non capisce il trucco e la etichetta di essere un po’ vecchiotta e kitsch, rispondiamo: certo che è così, e come potrebbe essere? Divertiamoci e basta ! Questa è una colpa ?

"Tutte queste band suonavano musica buona per bere e ballare. Le radici english pop e american roots erano ben visibili" (Martin Belmont chitarrista dei Ducks Deluxe).

Le maggiori band pub rock come Brinsley Schwarz, Ducks Deluxe, Bees Make Honey, Ace, Dr. Feelgood connotavano influenze tradizionali. Questo genere sorse in contrasto con ciò che dominava le classifiche britanniche. Conseguentemente, i gruppi avevano problemi a trovare posti per esibirsi, e crearono così un circuito suonando in locali nascosti sparsi per l'Inghilterra. Fu un movimento underground che, anche se poco conosciuto e apprezzato da noi, è il filo rosso che collega il mod sound dei mid sixties al mod revival degli anni ottanta. Inoltre, non bisogna dimenticare che il movimento ispirò e pose le basi per il punk rock, infatti molti esponenti del pub rock inclusi Nick Lowe dei Brinsley Schwarz, Joe Strummerdei 101'ers, Elvis Costello dei Flip City, Ian Dury e Graham Parker dei Kilburn & the High Roads diventarono importanti esponenti del neonato punk rock e del successivo fenomeno new wave.

Campioni del più tipico pub rock londinese, i Ducks Deluxe si formano dell’agosto del 1972 su iniziativa di Sean Tyla (ex chitarrista degli Help Yourself), che trova aiuto in Ken Whaley (altro Help Yourself), Martin Belmont ( ex roadie dei Brinsley Schwarz ) e Tim Roper. Se ne va subito Whaley che viene sostituito da Nick Garvey (manager dei Flamin’ Groovies) e con questa formazione incidono nel 1974 per la RCA l'omonimo album d'esordio, prodotto da Dave Bloxham, dove riescono a catturare il fuoco e l’eccitazione del live. E’ un gran disco per ballare e bere, non è destinato all’analisi critica. Il clima live si percepisce subito dal brano di apertura, Coast to Coast, primo singolo della band, e censurato dalla BBC per il suo riferimento alle droghe. La voce gutturale di Sean Tyla influenza con un trainwreck strascicato la canzone che sembra dire "siamo qui per il rock", e la competente chitarra di Belmont ci riporta alle radici, a Duane Eddy, al riverbero nasale della chitarra. La voce cupa e baritonale di Garvey ci regala Nervous Breakdown, puro rockabilly style che suona come un incrocio tra Eddy Cochran (sua cover) e il country blues maniaco e irruente, quasi involontario prototipo del futuro punk. Uno dei miei brani preferiti, Daddy Put the Bomp, rallenta la tensione ma ribolle di groove funky. E’ composizione di Tyla, dall’ anima spavalda e dal sapore di New Orleans e swamp rock e Allen Toussaint, scritta nonostante il fatto che all’epoca non aveva mai visitato gli States.

"Sean scriveva canzoni sull’America, posto in cui non era mai stato, e io ero un chitarrista solista, cosa che non ero mai stato, fu la combinazione ideale" (Martin Belmont).

L’amore per il soul della Stax si esprime con I Got You. Il capolavoro pop Please Please Please, di scuola beatlesiana e non solo per il titolo, combina accettazione e vulnerabilità, perfetto nella voce strozzata e nella melodia accattivante, sintonia incredibile dove Belmont cristallizza alla Gene Vincent una chitarra chiara e pulita in un tema senza tempo. Il treno merci (merce pregiata ndr) Ducks Deluxe, scappa sui binari e assume una velocità pericolosa. Attraversa il paese Velvet Undergroud e, ispirata a Sweet Jane (per loro stessa ammissione), prende spunto Fireball, brano dal big beat e dal ritmo solido. Don’t Mind Rockin’ Tonite è un incrocio pericoloso con deviazione verso il southern rock benedetto da Chuck Berry, sostenuto da un riff poderoso e circolare tipico della terra texana. Durante la traccia, incontriamo un passeggero a bordo: è Bob Andrews dei Brinsley Schwarz, che contrappunta col pianoforte. Spensierata, godibile e senza indugi viene cantata con un finto imbarazzo Hearts on my Sleeve, con l’ingenuità del primo beat. Piccola sosta per caricare sul treno musicale la sezione di fiati dei Sons of the Jungle Horns, e far scaturire la splendida ballata Falling for That Woman, dal sapore soul e R&B alla Otis Redding. Tyla con voce dylaniana e con il ricordo della Band periodo Big Pink, si e ci immerge nella provincia americana e con pura fantasy inglese ci canta il country rock convincente di West Texas Trucking Board, atto d’amore supremo per uno che in Texas non c’era mai stato. Una parentesi sofisticata e un po’ funky, Too Hot to Handle, e si chiude con la seconda cover dell’album, It’s All Over Now, southern rock classico di Bobby Womack ma che in realtà tutti ricordano come brano dei Rolling Stones con aplomb gioioso e teso.

Nonostante la buona accoglienza da parte della critica, l’indifferenza commerciale, destino di tutte le pub rock band, farà si che il successo non sarà mai grande, niente faville di vendite. L’idea dell’amico Dai Davies di farli suonare insieme e di fare il loro manager rimane una “buona idea” e ci regalerà una lunga serie di concerti (che immaginiamo divertentissimi) e, con la produzione di Dave Edmunds, alla incisione di Taxi of the Terminal Zone ( RCA 1975 ), altro disco molto convincente e che svilupperà ancor di più l’ispirazione rollingstoniana e country rock all’inglese (Mott the Hoople per esempio). Viene assunto un tastierista, Andy McMasters e si ritorna in studio a Monmouth, ai mitici Rockfield Studios. Il nuovo lavoro sviluppa sempre un mix di blues-boogie aromatizzato alla Rolling Stones, un rockabilly filtrato dalla cultura pop britannica, e si trascina e si strascica con i tre accordi alla Chuck Berry-style, che costituiranno terra di conquista per le future generazioni punk rockers. Personalmente, lo considero leggermente meno entusiasmante rispetto al primo, anche se la linea della promise land di Chuck Berry con cipiglio anglosassone viene mantenuta.

Piccoli gioielli sonori sono contenuti anche in questo scrigno: l’apertura Cherry Pie, deliziosa torta dal gusto e stile Stones con chitarra ispida e battito incessante; la vibrante felicità di It Don’t Matter Tonite, tesa e gioiosa tra amore e tradimenti; la trasparente I’m Crying, nel sottile stile chitarristico di Belmont e nella voce soulful di Garvey che accarezza il testo lasciando scorrere intorno l’emozione. E poi la confezione infettiva pop di Love’s Melody, scritta da McMasters, dalla melodia irresistibile e grassa nel suo stile anni ’60 con il riff di Belmont; l’omaggio ai Flamin’ Groovies con Teenage Head, chitarre spumeggianti e ritmi duri; il classico country & roll di Rio Grande; il pop & roll aromatizzato di My My Music, detersivo musicale per la nostra mente; Rainy Night in Kilburn graziosa ballata cullata dalle tastiere e dalla voce tranquilla e elegante di Belmont. Per non dimenticare Woman of the Man; R&B di stile con respiro mod e Paris 9, delirio spensierato che evoca i Mott the Hoople, armonie forti e big beat con un riff tastieristico infernale alla Jerry Lee Lewis. Un respiro d’aria fresca per noi che abbiamo in mente la rockin’ tonite o qualsiasi altra notte di jam session improvvisate. Ma l’esperienza sta per finire e le strade si dividono. Ancora un ep, Jumpin’, pubblicato dalla indipendente olandese Skydog, poi Garvey e McMasters se ne vanno a formare i Motors, Belmont raggiunge i Rumours di Graham Parker e Tyla raggiunge e visita finalmente gli USA dove fonda la Tyla Gang. Nel 1979 un'altra indipendente olandese, la Dynamite, pubblica Last Night of a Pub Rock Band, doppio LP registrato live al 100 Club di Londra il 1 luglio 1975, epitaffio sonoro della band che regala di nuovo alle nostre orecchie la magia del pub rock.

Poi Ducks Deluxe finì per l’ultima volta e disse "attraversiamo la strada". E tornò a casa.

zio René


Per chi volesse approfondire il tema pub rock, mi permetto di consigliare la lettura di No Sleep Till Canvey Island: The Great Pub Rock Revolution di Will Birch (ex Kurssal Flyers e Records) edito da Virgin Books (6 aprile 2000) e purtroppo solo in inglese. Il testo è molto ben scritto e importante per capire il fenomeno.
Mi permetto anche di consigliare, per avere un panorama completo della diversa articolazione musicale del fenomeno, l’ascolto dei seguenti dischi :
Eggs Over Easy – Good’n’Cheap (A&M 1972)
Brinsley Schwarz – Fifteen Thoughts of Brinsley Schwarz (UA 1978)
Bees Make Honey – Music Every Night (EMI 1973)
Chilli Willi & the Red Hot Peppers – Bongos Over Balham Mooncrest (1974)
Dr. Feelgood – Stupidity (UA 1976)

sabato 22 maggio 2010

Popgun.

Questi mi erano sfuggiti, devo rimediare. E dire che da sempre presto particolare attenzione a tutto quello che di più o meno pop proviene dalle lande scandinave. Trattasi di colpa grave, oltretutto, poichè i dischi che oggi prendiamo in esame arrivano dal nucleo della grande famiglia Yum Yums. Uno dei discendenti del patriarca Morten Henriksen è infatti Egil Stemkens, che degli Yum Yums è il tatuato bassista e dei Popgun il leader e compositore principale. I molti lettori che da anni conoscono, supportano ed amano uno dei migliori gruppi norvegesi degli ultimi vent'anni sappiano che anche tra i solchi di A Day and a Half in Half a Day e di Manic Anti Depressive troveranno svariati elementi di divertimento puro. Ma sappiano anche, va detto a titolo di onestà, che le sonorità dei Popgun divergono abbastanza spesso da quello che da sempre è il suono D.O.C. degli Yummies.

Pop? Certo, pop. Ma pop incontaminato, fuori da rigidi schemi e fluttuante nelle sue varie sfaccettature. Il primo album dei Popgun, chiamato A Day and a Half in Half a Day ed uscito nel 2006, contiene una sequela di brani che, partendo dalla coppia iniziale Mr. Unconcerned/Little Boy e passando per My Machinary e Superman, parla un linguaggio che sarebbe corretto definire heavy pop, più che powerpop. Le melodie non mancano, ma sono prese per il collo, i riff sono taglienti e l'attitudine di Egil in versione cantante non è delle più raffinate. Bene così, anche perchè la ribellione di fondo che si respira un pò in tutto il disco splende massimamente quando i Popgun abbandonano ogni compromesso, per approdare in territori smaccatamente punk, melodico certo, ma pur sempre punk, della sconvolgente Sunset in Reverse, oppure quando condotti più dai nervi che dalla testa sciorinano una spaventosa rappresentazione synth-poppunk nella bizzarra A Brilliant Fake. Non che la band perda granchè in termini di efficacia quando netta le chitarre e si cimenta con spartiti puramente pop, e le semplici melodie di On a Sunny Day e The Bend ne sono la dimostrazione. Preferiamo, in ogni caso, lo Stemkens sgraziato e selvaggio, quello che si palesa in tutta la sua evidenza durante le tracce di Manic Anti Depressive, il secondo long player dei Popgun uscito nel 2008.

L'album rappresenta un grande passo in avanti rispetto al suo predecessore soprattutto a livello di songwriting. Anche perché, diciamocelo, Egil molla gli ormeggi e si abbandona a quell'immaginario sconcio e scanzonato che, pescando nella memorabilia di Buzzcocks e Johnny Thunders partorisce fantastici germogli "snotty pop" come Sting Me, All Messed Up ("you need me and i need alcohool", tanto per intenderci) ed Hey Dummy. Non tutto il lavoro è all'altezza, ma cinque-sei singoli devastanti ci sono tutti, e bastano alla grande per consigliare l'acquisto dell'album. Anzi, dei due album in coppia, se possibile.

venerdì 14 maggio 2010

Disco del Giorno 14-05-2010: The Anything People - Anythology (2009; autoprodotto)

Passato il periodo dedicato alle classifiche di fine anno, stavolta procrastinate all'infinito ma in fine completate, è tempo di mettersi di buon impegno e far calare la pila di dischi arretrati che giacciono da un paio di mesi sulla mia scrivania. Scusandomi per l'ennesima volta con gli artisti che spesso devono aspettare tempi indefiniti per vedere pubblicate le recensioni sui loro lavori e ringraziandoli per l'infinita pazienza, parliamo di un disco che rappresenta un vero e proprio tuffo nel 1966, e che ha contribuito a mantenere il mio umore buono in queste ultime settimane di tempo infame.

Il disco è quello degli Anything People, si chiama Anythology e, a dispetto del titolo, non è un best of ma semplicemente il loro album di debutto, che finalmente raccoglie i brani scritti da questa band newyorkese tra il 2004 ed il 2010. Un tuffo nel 1966, dicevamo, perchè l'attitudine, le modalità di produzione e il tentativo spasmodico di attenersi al modello di scrittura tipico dell'era Nuggets, fanno di quest'album qualcosa che assomiglia parecchio ad un'uscita postuma di un oscuro gruppo dell'epoca. Attenzione però, non fraintendetemi: Anythology è un grande disco, colmo di pezzi entusiasmanti, che non puzza di vecchio, anzi. Saltellante e sporco al punto giusto, il ciddì d'esordio degli Anything People è una bella boccata d'aria fresca, e lo si capisce al volo. Pronti via, la prima folata che spettina l'ascoltatore la procura You're a Souvenir, che apre le porte al tipico immaginario da scantinato adibito a sala prove. Sudore, sangue, registrazione analogica, ed un brano che fa immaginare i primi Byrds intenti a coverizzare uno sconosciuto pezzo garage figlio della beneamata west coast. Ancora più irrequieta e decisamente nevrotica, ma sempre legata ai tipici standard garage è Left Side, dove i termini di paragone, forse per una certa qual acidità sul fondo del brano, sono invece Chocolate Watchband e Strangeloves, almeno fino a quando non si aprono squarci di melodia tipici dei Troggs meno accondiscendenti.

Gli Anything People, sarà a questo punto evidente, riescono ad orientarsi (bene) quando si mettono a giocare con la tradizione (non è facile). Così, Repeat After Me sembra un traditional dell'epoca revivalista anni Ottanta ancorato alla storica lezione di Blues Magoos e Shadows of Night, e la grande rivisitazione di She Moves Me, originariamente scritta dagli E-Types, è un altro punto a loro favore. Il fatto è che il gruppo, quando decide di abbandonare i canoni garagistici per virare su sentieri più melodici, fa un ulteriore salto di qualità: sentite che meraviglia l'harmony pop di Wait for Your Dreams, che gli Anything People siano nati sulla costa sbagliata? E che sballo Laugh, quando sembra di ascoltare gli Hollies rivisitati da Pollock. Per non parlare di Green Tea Rosemary Branch e See My Mine, dove Michael Lynch, Doug Mayer, Mark Khan e Jay Banerjee saltellano come i Monkees nel '67.

Il disco è completato da quattro bonus tracks, registrate live al Kenny's Castaways di New York durante l'esibizione della band all'International Pop Overthrow del 2008. Non sappiamo con ufficialità se il gruppo sia attualmente attivo. Sappiamo però che i suoi membri non stanno con le mani in mano, questo è certo. Jay Banarjee è stato infatti cosi gentile da spedirmi il suo ep d'esordio che (speriamo) sarà pubblicato ufficialmente a breve. Il dischetto, intitolato semplicemente Three Songs, si scosta dai classici parametri sixties che guidano il sound degli Anything People per avvicinarsi ad un powerpop dai forti connotati jangle che promette molto bene per il futuro. In attesa di saperne di più, godiamoci le melodie killer di brani fantastici come No Way Girl e Kate. Jay fai presto, perchè ne vogliamo ancora!