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martedì 30 dicembre 2008

Ristampa del Giorno 30-12-08: Gigantic - Gigantophonic Sounds (2008; Zip records)

Sembra che Under the Tangerine Tree sia uno dei pochissimi blog a non avere ancora pubblicato la classifica con i migliori dischi del 2008, ma devo ascoltare ancora tantissima roba e, del resto, gli album che escono a Dicembre non saranno mica da buttare, o mi sbaglio? Dunque, le varie classifiche annuali saranno pubblicate non prima della metà di Gennaio, o forse più tardi, a seconda del tempo che avrò a disposizione. Detto questo, e considerato che quello che state leggendo sarà con tutta probabilità l'ultimo post del 2008, vi auguro un fantastico 2009 e butto lì l'ultimo consiglio dell'anno.

Dopo una manciata di sensazionali ep usciti all'inizio del secolo, i fratelli Mark e Paul Di Renzo sono approdati all'album "lungo" un paio di anni fa, chiamato Gigantophonic Sounds e pubblicato dalla patria ed infallibile Popboomerang records, etichetta madre di tutto il miglior Aussie pop contemporaneo. Purtroppo, un pò per mia colpa e un pò per la fallace distribuzione, sono riuscito a mettere da poco le mani su questo gioiellino, ormai dimenticato da tutti ma fortunatamente riportato alla luce dalla Zip records di S.Francisco, che ha trovato un accordo con la band per stampare l'edizione Americana di cui stiamo parlando. Niente bonus tracks o differenze nell'artwork, ma mi è sembrato corretto parlare di ristampa dal momento che, in sostanza, non si tratta di una prima pubblicazione e tutto sommato il disco è "invecchiato" di un paio d'anni. In ogni caso tutti noi, preferibilmente in coro, dovremmo dire grazie alla favolosa label americana, per aver ristampato e, di conseguenza, riportato sui cataloghi e media specializzati un piccolo capolavoro di musica pop che molti di noi non sarebbero altrimenti riusciti ad intercettare.

I Gigantic da Perth, west-coast Australiana, da sempre fucina di enormi talenti, con Gigantophonic Sounds tirano le somme della loro carriera e ne escono con un lavoro intenso e luminoso, potente ma raffinatissimo, costruito su dodici canzoni audaci e melodiose, composte ed eseguite con classe cristallina. Un disco difficile, che non si lascia catturare immediatamente ma che invece richiede dedizione ed ascolti attenti e ripetuti, prima di entrare irrimediabilmente in circolo. I Di Renzo rilasciano un sound che lascia trasparire forti legami con la grande tradizione pop down-under, pur scrivendo in modo particolarissimo e a suo modo molto innovativo. Prendete la coppia di brani che apre il disco: Some Suburban Road ha un ritornello che ricorda davvero da vicino il classico powerpop Australiano dei primi anni 90, ma il tutto è sommerso da un etica ed un utilizzo delle chitarre tipicamente indie-rock tale da rendere il pezzo davvero singolare nel suo genere. Il "miracolo", però, arriva nella successiva Be No More, dove la potente strofa garage-pop viene incredibilmente dopata da una strana batteria indie in controtempo senza che il tutto risulti fuori contesto, e anzi il brano risulta uno degli episodi più interessanti dell'intero lavoro.

Se le canzoni hanno bisogno di essere metabolizzate prima di diventare fondamentali, quello che invece lascia subito senza fiato è la produzione, lo studio maniacale dietro ogni singola nota, gli arrangiamenti precisi, intelligenti, in una parola perfetti. Del resto i Gigantic si servono di un set di collaboratori e musicisti infinito ed eccezionale proveniente dalla crema della musica pop aussie (tra gli altri, alle tastiere, compare Rodney Aravena, membro dei favolosi e misconosciuti End Of Fashion), e non si può dire che il fatto non faccia la differenza. Steam Girl è un'eterea e sfuggente pseudo ballata, ma subito dopo arriva la perla preziosa dell'album. Balloon Animals è un capolavoro assoluto, un brano che ospita la perfezione powerpop dove, attorno ad un ritornello apparentemente adeso ai canoni dello stile, si alternano la grazia e la scrittura cristallina tipica di autori come Chris Von Sneidern o Michael Penn e la potenza e la melodia in pari dosi che ai tempi spacciavano gruppi come i Merrymakers.

L'album prosegue con due pezzi leggermente più "moderni", scuri ed angolari come Mr Sound e Coaster, ed il disco non delude mai, anzi presenta ancora un paio di gemme strepitose come The Highest Comfort, per attitudine vicina alla citata Balloon Animals ma forse ancora più ancorata alla tradizione powerpop della terra natia perpetrata dai capostipiti DM3. E poi Hang On, grande stoppato, basso dritto e potente e strofa chiusa che all'improvviso esplode in un ritornello pop semplicemente grandioso.

Sono contento di chiudere l'anno parlando di un grandissimo disco come questo e permettetemi di riproporre la raccomandazione di dargli fiducia. Ascoltatelo e riascoltatelo, non fatevi ingannare dai primi ascolti, che non potranno mai rendere giustizia ad un disco di questa natura. Tra l'altro, e questo è un auspicio per l'anno nuovo, so che i Gigantic nel 2008 hanno completato un intenso tour mondiale che li ha portati negli States, in Giappone e anche in Europa. Chiaramente l'Italia non è stata toccata, ma vista la propensione dei fratelli Di Renzo a girare per il globo, chissà che qualcuno non ci aiuti a portare nel nostro paese un gruppo immenso come i Gigantic, il cui nome mai fu più appropriato per una band. Scusate, dovevo dirlo per forza. Buon anno a tutti!

sabato 27 dicembre 2008

Disco del Giorno 27-12- 08: The Brilliant Mistakes - Distant Drumming (2008; Aunt Mimi records)

Una settimana di pausa per gestire gli impegni festivi è stata purtroppo necessaria, ma per farmi perdonare vi presento un album che dovreste segnare subito sulla vostra agenda nella sezione "prossimi acquisti". Ci sono sempre stati dischi che inizialmente non degnavo di uno sguardo ma che poi, per fortuna, mi sono "cresciuti addosso" fino a diventare indispensabili. Ce ne sono altri, invece, che sono entrati subito, di prepotenza, nel mio cuore. Al Primo ascolto. Al primo accordo. Ebbene, sono felice di affermare che Distant Drumming, il terzo lp dei newyorkesi Brilliant Mistakes (grandissimo nome, tanto per cominciare. Under The Tangerine Tree invierà un regalo a sorpresa a chi indovinerà da dove è stato preso), appartiene alla seconda categoria, e sebbene debba ancora ascoltare tanti (troppi?) dischi 2008 prima di compilare la temibile top 100, sono sicurissimo che entrerà a far parte dei primi cinque posti in classifica, probabilmente molto in alto.

Chi legge da qualche tempo questo blog sa che il mio genere preferito dopo il pop è l'americana, dunque chiunque riesca a mixare con successo le due cose, tendenzialmente diventa un autore gradito da queste parti. I Brilliant Mistakes, che ci crediate oppure no, sono il miglior gruppo in questo senso dell'anno, e forse non solo di quest'anno. Ogni singolo brano, tra i dieci che compongono Distant Drumming, è roba da emozioni forti. Le voci di Alan Walker (tastiere), Erik Philbrook (basso) e Paul Mauceri (batteria) si trovano con facilità disarmante, creando lussureggianti e raffinatissime strutture armoniche a tre parti, mentre il sound, spesso posato su gloriose strutture di Fender Rhodes ed Hammond B3, per tempi e cadenze si abbevera all'inesauribile fonte della storia alt.country americana. Il risultato dell'operazione, ancorchè intuibile, è sorprendente, davvero sorprendente, per gusto e freschezza, e la suprema abilità nella scrittura del trio di Brooklyn fa il resto. Le canzoni, come diciamo sempre, sono la sola cosa importante, e quelle di Distant Drumming fanno battere il cuore come poche volte accade.

L'ottimistica scoperta del mondo visto dagli occhi di un bambino di The Day I Found My Hands apre la serie, e cattura in un'istantanea di tre minuti il suono della band, ossia un concentrato melodico di ispirazione Squeeze posato con inusuale grazia su tempi e tempistiche americane foraggiate dai tardi Jayhawks. Walker, Philbrook e Mauceri suonano principalmente per loro stessi, esclusivamente per divertirsi e si sente. I brani esprimono gioia anche quando sono tristi ed evocano emozioni impagabili quando sembrano votati al completo disimpegno. Monday Morning, dallo spirito ovviamente country, presenta alcune linee armoniche che fanno pensare ad un possibile grande potenziale radiofonico, mentre Becoming è un prezioso e stravagante frammento sospeso tra le confidenti improvvisazioni pop di autori alla Matt Costa ed arrangiamenti easy che sconfinano nel lounge e nel bossanova. Ma la canzone migliore del disco, e una delle migliori dell'anno, si trova alla traccia numero quattro. La riflessiva parentesi di bilancio personale A Good Year For A Change, è lo spettacolo nello spettacolo, un commovente spaccato di perfezione pop, che ricorderebbe un introspettivo John Lennon se John Lennon fosse stato un autore americano.

I brani di Distant Drumming hanno un solo, essenziale "problema": quando ne finisce uno si rimane con la voglia di ascoltarlo altre sei volte, invece parte quello successivo che lascia la medesima sensazione e così via. Per questo motivo, benchè abbia ricevuto il disco un mese fa, ne parlo solo ora. E' stato fisso nell'autoradio, semplicemente non riuscivo a toglierlo. Perchè sono solo dieci canzonette, vero. Ma dieci canzonette irrinunciabili. Tra le altre, The Circle's Not Broken, il brano più energetico del lotto, e poi la commovente Water Falling Down, stupenda e fragile ballata dove la splendida voce di Walker è sorretta solo da delicati fraseggi di pianoforte e mandolino. E nemmeno è possibile tralasciare gioielli come The Words, piano-pop di grande classe e matrice Benfoldsiana, il pop & roll di Time In The Night e men che meno la stupenda Let's Pretend, saltellante americana a tre voci che mi ricorda la classe e l'ironia di grandi bands contemporanee come i Junebug. La chiusura è affidata alla soffice ballata Wake Up Your Heart, e come potete vedere, ho citato tutti i brani in scaletta.

Spero che questa recensione lasci trasparire almeno una parte della passione con cui è stata scritta. Non dovreste farvi ulteriori domande, né io dovrei dare ulteriori spiegazioni. Poi, è questione di gusti, ma se nella vostra dieta amate inserire del pop corretto in chiave americana non esitate ad acquistare subito il disco dell'anno.

sabato 20 dicembre 2008

Disco del Giorno 20-12-08: The Slingsby Hornets - Whatever Happened To... (2008; Expedition Hot Dog records)

Torna a meno di un anno dall'uscita dell'album d'esordio Frank E. Slingsby, all'anagrafe Jon Paul Allen. Il prolifico autore Britannico, con questo nuovissimo Whatever Happened To The Slingsby Hornets prosegue sulla strada tracciata dal suo predecessore, proponendo dieci canzoni equamente divise tra originali e covers reinterpretate con logica curiosa ed innovativa ed ottenendo infine un'altra collezione di brani basata esclusivamente sul divertimento immenso che Allen prova suonando la musica che ama. E l'album, infatti, sprizza passione e devozione da ogni singolo pezzo.

La traccia numero uno, Way Of The World, è un curioso ma nondimeno riuscito pastiche di pop sinfonico e hard progressivo di settantesca memoria. Tra gli altri "originals", tutti sotto diversi aspetti legati all'amore che Jon Paul Allen sembra nutrire per certo glam-pop, risaltano The Long Way Home, di animo più folky, il pop protopsichedelico di This Song e il rocker Black & White Movie. Tra i rifacimenti, invece, notevolissime sono le versioni di Rock'n'Roll Love Letter dei Bay City Rollers, di Picture Of Matchstick Man, il grande classico degli Status Quo e di Children Of The Revolution di Marc Bolan.

A rendere più gustoso il tutto, se vi affretterete ad acquisire il disco, sappiate che un numero limitato di copie giungeranno a casa vostra in compagnia di un ep allegato, non casualmente chiamato Knee Deep In Glitter, dove sono reinterpretati altri cinque grandi classici, tra cui senza dubbio svettano le fantasiose covers di My Coo Ca Choo di Alvin Stardust, di Does Your Mother Know degli Abba e di Skweeze Me Pleeze Me, che se ve lo state chiedendo sappiate che si, è proprio il pezzo degli Slade.

Come avevo scritto parlando del precedente album di Frank E. Slingsby, Whatever Happened è un doppio concentrato di divertimento applicato a trent'anni di storia rock'n'roll. E, anche questa volta, il miglior utilizzo che ne possiate fare è metterlo nella valigetta ogni qualvolta vi sarà richiesto di fare il dj ad una festa seventies pop.

mercoledì 17 dicembre 2008

Singolo del Giorno 17-12-08: Miss Chain & the Broken Heels - Boys and Girls b/w My Gang (2008; Dream On records)

Ancora ottime notizie dal sommerso del pop made in Italy. Questa volta, a completamento di un'annata che ha visto le "nostre" formazioni farsi valere anche in ambito internazionale, parliamo di Miss Chain & the Broken Heels. La band bergamasco-vicentina, attiva da meno di due anni, tocca con questo Boys and Girls quota due singoli, che per la felicità di ogni appassionato di rock'n'roll che si rispetti sono stati entrambi pubblicati nel vecchio e caro formato 7" a quarantacinque giri. I ragazzi propongono un sound incendiario che pesca a piene mani dalla miglior tradizione pop'n'roll al femminile americana, adeguato con molto gusto e parecchia adrenalina alle esigenze del presente, risultando freschi, originali ed estremamente divertenti.

A caratterizzare fortemente i due pezzi incisi su questo singoletto è - com'è ovvio per molte formazioni similari - la squillante e potente voce della cantante Miss Astrid Dante, ma la "gang" che la supporta (completata dalla fantasiosa chitarra di Disaster Silva e dalla sezione ritmica a cura dei fratelli Franz e Brown Barcella) ha il fondamentale merito di sorreggerla con un sound che - benchè melodico - è grezzo, minimale e frontale così come la produzione dei brani. Essenziale, "in your face", come piace dire a noi.

Credo sia chiaro a tutti, a questo punto, che cosa ci si possa attendere dai due brani proposti dai Broken Heels. Perchè è facile: semplicemente, rock'n'roll. Adrenalinico, forse non proprio a bassa fedeltà ma certamente nemmeno hi-fi, di matrice garage e interpretato da una front-girl di grande personalità. Un concentrato di energia ed indovinate intuizioni pop che estrae dal calderone dei miei ricordi grandi bands rock'n'roll con il fiocco rosa come Headcoatees, Nikki & The Corvettes, Shivvers (qualcuno, prima o poi, dovrebbe scrivere un trattato sulla seminale bands di Milwaukee capitanata da Jill Kossoris) e, perchè no, Blondie. Il tutto concentrato in meno di cinque minuti di superba essenza teen.

I Broken Heels sono un gruppo agli albori della propria carriera ma la strada è senza alcun dubbio quella giusta, e a confortare questa tesi arrivano le numerosissime date che la band continua ad ottenere soprattutto in Europa. Benone, anche grazie a gruppi come questo la scena musicale del belpaese sarà vista dall'estero con maggior rispetto. Solo, affrettatevi a recuperarne una copia, perchè ho paura che Boys & Girls (pubblicato da un'etichetta Giapponese, altra bella notizia) stia velocemente andando fuori stampa. Poi, un 7" come questo è sempre un gradito presente natalizio, o no?

sabato 13 dicembre 2008

Disco del Giorno 13-12-08: Mea Culpa - Madison (2006; autoprodotto)

Madison, terzo lavoro di studio dei Mea Culpa (nome perlomeno curioso per una band pop) è il classico disco proveniente dal sommerso di una "scena" che già non brilla per presenza sui media. Infatti, pur essendo uscito due anni fa, nemmeno noi cultori della materia ne abbiamo sentito parlare fino a quando Gilbert Garcia, il giornalista songwriter leader del gruppo, non me ne ha inviata una copia. Peccato, perchè il gruppo è in giro dalla fine degli anni '90, periodo nel quale registrarono due dischi che ci dicono essere molto buoni, e questo terzo lavoro, un breve mini-album di otto canzoni per ventiquattro minuti totali di ascolto, conferma le ottime basi di una band che oggi non si fila nessuno e che invece noi promuoviamo molto volentieri.

I Mea Culpa sono di Memphis, una città che negli anni '70 è stata un importantissimo punto di riferimento per il pop a stelle e strisce, e il disco è stato registrato e mixato completamente dalla band senza alcun aiuto esterno agli Ardent Studios, che se qualcuno non dovesse saperlo, sono i mitici studi dove incisero i Big Star e tantissimi altri gruppi pop americani, situati proprio in Madison street, da cui il titolo dell'album. Visti questi particolari, è lecito aspettarsi un lavoro all'altezza delle aspettative, e i Mea Culpa fanno di tutto per non deluderci.

L'album si apre con Coming Back To Me, powerpop tradizionale dove le chitarre Shoes-oriented si amalgamano ad un'atmosfera parecchio Costello. Résumé è invece un mid-tempo dal tessuto sonico più complesso, caratterizzato da marcate linee-guida di pianoforte e calato in ambito decisamente sessantista. E se c'è una cosa che non si può addebitare a Garcia e soci, quella è la mancanza di poliedricità. You're Not The One (tra gli episodi migliori del disco) e soprattutto la conclusiva Silence sono infatti due episodi di spedito guitar-pop che per attitudine e sintassi svariano a tratti verso certo pop punk, mentre What You Want è un docile segmento jangle e la successiva Your Best Appendage è uno schizzo piano-pop che ricorda vistosamente il Ben Folds solista. Nel complesso, il brano più riuscito mi sembra Nothing To Say, dove l'uso sapiente delle Rickenbacker crea l'atmosfera adatta ad una struttura del cantato davvero originale, dove le due voci si parlano e si rincorrono fino ad incontrarsi in un delicatissimo ritornello che può essere a ragione considerato l'epicentro dell'intero Madison.

Come si diceva in sede di presentazione, peccato non essersi accorti subito di un disco minore ma molto intelligente come questo. Verrebbe facile dire mea culpa, mea maxima culpa. Però per favore, cambiate nome...

giovedì 11 dicembre 2008

Disco del Giorno 11-12-08: The Preachers - Preachin' At Psychedelic Velocity (2008; Teen Sound)

di zio René

Nelle tracce di Preachin’ At Psychedelic Velocity, seconda prova dei Preachers, si nota la voglia di intraprendere un viaggio da neofiti attraverso la scena musicale giovanile degli anni Sessanta, l’età d’oro del pop. E’ un terreno comune a molte nuove bands, ma qui si sviluppa con metodologia musico-visiva, la comunicazione non è soltanto simbolica, ma da non timorati essi effettuano un dosaggio preciso, quasi di tipo fisico per tramutare il tutto in scelta dinamica, quasi di taglio fotografico, non statica nei contenuti o nella veste grafica. Individuano immediatamente a quali strati della società il prodotto è destinato, non dividono per classi sonore. Sembra un fumetto non fatto per produzioni culturali o sottoculturali adatte all’acquisizione di massa, ma un incentivo alla ricezione ipotizzabile e ipnotizzato dalla specificità di un linguaggio semplice ma non banale, controllato dal bisogno d’evasione. Ritmi, disincanti e realtà urbane fino all’ultimo respiro, a dimostrazione di una buona educazione musicale.

Così predicando alla velocità psichedelica riaffermano un periodo storico nel quale non hanno vissuto e nel quale si è formata la mia generazione. Sembrano in sintonia tra il simbolico e l’immaginario, senza dare l’ovvio per scontato, creando nelle loro giovani menti una congiuntura che li porta a farsi interpreti e predicatori inconsci di un processo di trasformazione e aggregazione per cercare dei punti di riferimento nei suoni amati dai loro padri, aldilà di registri anagrafici. Primi coraggiosi scatenati ritmi ben lieti di abbandonare il limite della propria esperienza. Forza e fantasia per attraversare gli sporchi avamposti del rock , un percorso di felicità dove la mente ubiqua, finalmente sciolta, nella congiunzione magica di infinite cellule vive.
Come Alice nel romanzo di Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, anche loro inseguono il Coniglio Bianco col panciotto in un onirico mondo sotterraneo, e attraverso dodici capitoli raccontano la loro storia. L’ipotesi è di abbeverarsi dalla scena giusta, cercando una decompressione mentale per ricamare musica senza tante dichiarazioni o riverniciature o recuperi. La vocazione è sincera, forse un po’ ingenua, ma in una generazione di pseudo-punkisti e trafficanti di note, diventare giardinieri di fiori sonori, al di là delle incertezze che si scontano sulla propria pelle, ci scatena un sincero e onesto applauso. Applauso non inteso come compiacenza della commedia, ma come raffinata definizione di consenso.

Tendendo i fili delle chitarre elettriche pur con qualche perdonabile leggerezza si riaccendono i "fuochi misteriosi", i serbatoi mitologici a-logici e a-razionali che con il senso del reale si identificano nell’esistente. Ma cosa bolle in pentola? Come abbiamo detto 12 brani racchiusi in circa 39 minuti. Un fumetto dalla struttura sintetica ma molto colorata, dove si cattura il diverso senza generare il mostro, con la felicità masochistica di scoprire e scoprirsi. Un terreno di incontro di messaggi consolatori, dove i linguaggi si classificano, ciascuno a un suo preciso "genere". Come i 12 giurati della novella di Carroll, scrivono i loro nomi sulle lavagne dei nostri ricordi. Ci riportano alla mente i Seeds di Sky Saxon, uno dei più grandi e sottovalutati gruppi californiani, attraversiamo il garage rock, la psichedelica, il surf sino ad arrivare a iniezioni di english pop.

Il disco scorre piacevolmente bene e tutto di un fiato. Trova in Lovely Girl , dai sapori pop, la punta di diamante, con al seguito You’ll Never Know ( corposo e ipnotico , Saxon docet ) . She’s Riding, Oh!, My Darling, Queen Of The Highway (con una apprezzabile sitar), Wild Girl, Lies Lies Lies, Sunny Morning, Itermission, Turn Me Out, 99th Floor, Summer Rain completano e colorano il disco con un palpitante senso di movimento per recuperare quella strana cosa che si chiama ROCK , segno e maschera della musica nuova.

"E, alla fine, ella immaginò la sorella diventata adulta anche lei, pur conservando sempre il cuore puro e semplice della bambina d'un tempo. La vide circondata da frotte di altri bambini ansiosi di ascoltare dalla sua bocca tante belle storielle, la vide partecipe delle loro piccole pene e delle loro gioie ricordando i tempi beati della propria fanciullezza, di un'estate felice, ormai tanto lontana.
da " Alice nel paese delle meraviglie
" di Lewis CARROLL

PS: zio René, se non lo ricordate, ha già collaborato con Under The Tangerine Tree. Esperto infinito di pop music, spero voglia scrivere per noi con maggiore frequenza in futuro!

lunedì 8 dicembre 2008

Disco del Giorno 08-12-08: The Smith Bros - Restless (2008; autoprodotto)

Attenzione, stiamo per parlare di un grande disco powerpop. I fanatici del genere nella sua accezione più pura stanno per incontrare uno dei loro dischi preferiti di quest'anno. O, perlomeno, lo spero. Gli Smith Bros arrivano da Cleveland, Ohio, e nemmeno mi avevano detto che mi avrebbero inviato il disco. Quando l'ho trovato nella mia buca delle lettere non sapevo onestamente che cosa aspettarmi, dal momento che mai avevo sentito una nota suonata dalla band e tantomeno ero a conoscenza della sua esistenza. Spulciando sui siti specializzati ho scoperto che Restless non rappresenta il debutto degli Smith Bros, che avevano esordito sette anni fa con un disco, chiamato "Lost", di cui Ray Gianchetti e Bruce Brodeen dicono meraviglie, ma che da allora non si era più avuta notizia di loro. L'entusiasmo con cui la comunità powerpop ha accolto questo nuovo ed inaspettato lavoro di studio mi ha convinto ad ascoltarli con grandissima attenzione e, devo ammetterlo, tale entusiasmo è più che giustificato.

Restless, come anticipavo, è un incredibile disco per puristi powerpop. Un album che si inserisce di diritto tra le migliori cose uscite quest'anno grazie ad una serie di canzoni sensazionali, solide, dalle armonie deliziose e dai ritornelli immediatamente adesivi. Le chitarre di Patrick Dollenmayer e Bryan Pack ringhiano al punto giusto, mentre la rotondissima e compatta sezione ritmica sostenuta dall'eccellente cantante/bassista Mike Clark e dal batterista Kris Phillips regala ai brani un'essenziale dose di soave potenza.

Si parte subito forte, e la strepitosa How Wrong You Are è un compendio powerpop di circa due minuti, dove il cantato - che mi ricorda molto lo stile del sommo Joe Pernice - è posato su un tappeto sonico reminescente di Teenage Fanclub e Gin Blossoms. Down To You, che onestamente mi sembra un pò snobbata dalla critica specializzata, convoglia influenze molto simili ma a parer mio è dotata di un ritornello ancora più indimenticabile (uno dei pezzi powerpop dell'anno?). In She's Under My Skin il paesaggio cambia nettamente, e le melodie oblique degne del miglior brit-pop anni 90 che ci accolgono mi fanno subito venire in mente gli Orchid Highway ed il loro fantastico album dello scorso anno (numero 4 nella mia classifica sui migliori dischi del 2007). Nel pantheon degli Smith Bros ci sono anche i Beach Boys, le armonizzazioni vocali nel chorus del lento Talk Of The Town ce lo confermano, e ci sono anche i Posies, che si manifestano qua e là durante Every Day Gets Better, di scorza più dura, mentre i Teenage Fanclub di Grand Prix sono un ottimo termine di paragone per Belong e per la clamorosa You Did It All. La title track è un grande esempio di jangle-rocker, mentre Little Things e la malinconica My Great Regrets sono dominate da un rilassato feeling west coast.

Per chiudere l'excursus su Restless, un lavoro assolutamente da non perdere e privo di punti deboli, è obbligatorio citare Too Long ed Indecision, dove i fratelli Smith tornano ad insegnare teoria e tecnica del powerpop e della chitarra crunchy durante una lezione che farà impazzire i fans di grandi "classici recenti" come Velvet Crush e Mayflies USA (qualcuno se li ricorda???). Quindi, dicevamo? ah, si. Restless è un altro sicuro top 20, non perdetevelo eccetera. Inizio seriamente a preoccuparmi per la gestione della classifica di fine anno. Ma averne di preoccupazioni simili...

mercoledì 3 dicembre 2008

Disco del Giorno 03-12-08: Kai Reiner - Kai Reiner (2008; Lakeview Publishing)

Kai Reiner viene da Amburgo, Germania. Kai Reiner ama l'arte, i buoni libri e, recentemente, anche la buona musica. A quanto pare, infatti, Kai si è convertito al pop non moltissimi anni fa. Si dice che sia stato il fratello, "colpevole" di averlo trascinato ad un concerto di Brian Wilson, la causa della sua evoluzione musicale e non solo. "Da quel momento ho cambiato il modo di pensare alla vita sotto molti punti di vista, e sono diventato una persona molto più amichevole" avrebbe detto il Nostro. Il potere della pop music.

La copertina dell'omonimo album d'esordio di Kai Reiner non lascia troppi dubbi riguardo a quello in cui ci si imbatterà ascoltandone i contenuti. Sullo sfondo di un verdissimo prato si staglia infatti l'inconfondibile sagoma di una Rickenbacker bianca e nera, e i più voraci maniaci di jingle jangle tra di voi già si staranno leccando i baffi. Non andrete delusi, bisogna dirlo, anche se bisogna aggiungere che, sebbene si tratti di un disco jangle-rock, non siamo nell'ambito del fondamentalismo a dodici corde dei Rhinos, tanto per citare un gruppo di cui abbiamo parlato da poco. Non siamo in pieno trip Byrdsiano, per capirci. Qui il jangle è un elemento fondamentale, ma è posto al servizio di canzoni sostanzialmente powerpop. Un powerpop mite, solare e mai aggressivo, che si abbina alla perfezione allo stile di canto di Kai, anch'esso soffice e pacato tanto da "uscire" appena dal sound sottostante.

L'apertura dell'album è affidata a Cold Summer, uno dei brani migliori tra quelli proposti, e Kai sovrappone al tappeto sonico che tutti ci aspettiamo, vista la Rickenbacker in copertina, quel feeling powerpop che mi ricorda tanto le demo di Adam Daniel venute fuori un paio d'anni fa. Il che vuol semplicemente dire due cose: melodie immense e produzione grezza ed essenziale. Sonorità tipicamente jingle-jangle emergono invece da Only We Both Know, mentre nella gradevolissima Hey K e nell'altrettanto graziosa Know You Now il suono è leggermente più "spostato" verso i tardi Teenage Fanclub, quelli più pop, che sembrano rappresentare per Kai Reiner una grande fonte d'ispirazione. I Don't Want Your Crown è un grande pezzo di powerpop "elementare", sia per quanto riguarda le linee melodiche, sia per il testo - breve e reiterato all'infinito - che potrebbe quasi sembrare banale ma che poi, alla fine, dice un sacco di cose che pensiamo un pò tutti.

Tra le altre canzoni, evidenzierei It's Over, che per lo stile dei decisi riffs di chitarra mi fa venire in mente l'album di Clint Sutton (buonissimo disco uscito quest'anno) e di conseguenza il Matthew Sweet di 100% Fun. E poi, in conclusione, due brani come Are You Ok? e Roll On The Holidays, che per il loro concentrato di pop screziato di jangle minimale e la voce quasi sussurata sapete chi mi ricordano? I Primal Scream. Ok, adesso penserete che io sia completamente impazzito. Se invece non lo pensate, vuol dire che siete tra quelli che - come il sottoscritto - adorano Sonic Flower Groove, il primissimo disco (1987) dei fenomeni planetari che crearono Screamadelica, che alle origini (ai tempi della C86, diciamo) erano veramente un grande gruppo sixties-oriented dal suono devoto a Roger McGuinn.

Sembra essere un autunno caldo per gli amanti del Rickenbacker sound. Approfittatene, dopo In Rhi-Fi sapete già cosa aggiungere al carrello della spesa.

lunedì 1 dicembre 2008

e.p. del Giorno 01-12-08: Justin Kline - Six Songs (2008; autoprodotto)

Così, quasi senza accorgerci, ci troviamo a Dicembre. Alla fine dell'anno mancano ancora trenta giorni ma è quasi ora di iniziare a tirare le somme, tenendo però presente che questo 2008 è stato prodigo di grandi dischi che il tempo tiranno ci ha permesso di ascoltare solo in parte, e per terminare di valutare l'enorme mole di albums ancora nei nostri "archivi" ci vorrà qualche tempo. Ergo, siccome voglio essere sicuro di aver preso in considerazione la maggior parte delle cose uscite quest'anno, non aspettatevi classifiche e graduatorie varie prima della fine di Febbraio (se va bene!). Tuttavia, qualche punto fermo incomincia ad esserci, e credo di andare abbastanza sul sicuro affermando che sul podio che accoglierà i migliori tre e.p. dell'anno ci sarà sicuramente Justin Kline. Proveniente da Murfreesboro, Tennessee, con questo Six Songs ep Kleine ha dato alle stampe un dischetto che semplicemente riassume la perfezione del vocal pop e del sunshine pop. E credo che i cultori di certe sonorità andranno letteralmente fuori di zucca acoltandolo.

Come dicevamo, l'aggettivo migliore per definire ogni singolo brano di Justin Kline è "perfetto". Perchè perfette sono le fantastiche armonie vocali, perfetto è il songwriting d'eccezione, perfette le soavi trame sonore. Se non vi fidate basterà premere il tasto play del vostro lettore cd (oppure del vostro iPod, una "novità" tecnologica che ancora non è in uso dalle parti di Under The Tangerine Tree) per rendervene conto. Essì, perchè subito sarete parte del festival melodioso inscenato da All I Need, dalle sue fantastiche armonie vocali multistrato e dalle magiche orchestrazioni che fanno del brano un manifesto del più puro pop vocale. Heart Attack, che arriva subito dopo, mantiene gli standard sonici ed emotivi sullo stesso livello e completa un uno-due di partenza davvero memorabile. I due brani descritti sono decisamente raccomandati a chi avesse amato (come me) due recenti e grandissimi autori pop come Devlin Murphy (ottimo il suo esordio uscito lo scorso anno, e attenzione al disco nuovo in uscita a breve) e Adrian Whitehead (autore di uno dei migliori lp usciti quest'anno), del quale Justin Kline ricorda in maniera spaventosa il timbro vocale.

La qualità media dei sei brani è così alta che per una volta mi astengo dallo scegliere le mie tracce preferite. How I Became The Wind è infatti è un'altra gemma, questa volta imperniata sui parametri di un brillantissimo piano-driven pop che a tratti mi fa tornare in mente la facilità di scrittura dei Jellyfish, mentre Kaleidoscope - forse non stilisticamente ma in quanto a struttura armonica ancora molto vicina a Whitehead - aggiunge qualche chitarra distorta che le fa lambire i territori powerpop. E ancora, l'ultimo spezzone del dischetto non tradisce le altissime aspettative grazie a Singing in The Air, in cui Justin rifinisce il suo pop d'autore con una twang guitar che conferisce al brano una sintassi americana e ci ricorda quale sia il suo stato di provenienza. Sunshine, infine, come ci si aspetterebbe dal titolo, chiude l'e.p. con un ritornello filologicamente perfetto che sembra estratto da un best of degli Association.

Six Songs è un dischetto meraviglioso, che se siete soliti seguire questo blog con regolarità difficilmente potrà deludervi. Justin l'ha fatta grossa, e a questo punto non può assolutamente tenerci per troppo tempo con il fiato sospeso nell' attesa del full-lenght.

PS: Il disco di Justin Kline è per ora disponibile solo in formato digitale, e potete scaricarlo legalmente da iTunes alla popolarissima cifra di 5.94 euro.

mercoledì 26 novembre 2008

Shake Some Action Revisited.

Il mese scorso vi ho riferito che alcuni grandi bloggers come Angelo di Powerpop Criminals e Curty Ray di Powerpop Overdose avevano indetto un sondaggio, in cui si chiedeva ai lettori di votare i propri 5 dischi powerpop preferiti di tutti i tempi, così da creare una lista "alternativa" a quella (comunque eccezionale) pubblicata da John Borack nel suo fondamentale libro-guida Shake Some Action, The Ultimate Powerpop Guide. I seggi sono stati aperti fino al 31 dello scorso Ottobre, e qualche giorno fa è stato finalmente pubblicato il verdetto dei fans. Invitandovi a cliccare sul link per vedere come il pubblico si è espresso e per analizzare la lista di 200 dischi completa, riporto qui la top 10.

01. Big Star "#1 Record"

02. The Beat "The Beat"

03. Jellyfish "Spilt Milk"

04. Flaming Groovies "Shake Some Action"

05. Teenage Fanclub "Grand Prix"

06. Matthew Sweet "Girlfriend"

07. The Shoes "Present Tense"

08. The Knack "Get The Knack"

09. Cotton Mather "Kontiki"

10. 20/20 "20/20"

Nel complesso, sono contento di constatare che 4 dei 5 dischi che ho votato hanno guadagnato posizioni rispetto alla classifica di Borack: i Big Star dal secondo passano al primo posto; Kontiki, epocale capolavoro dei Cotton Mather "salta" da un incomprensibile ventisettesimo ad un più consono nono posto. Addirittura, Grand Prix dei Teenage Fanclub guadagna ben cinquantacinque posizioni entrando di prepotenza nella top 5 (dal sessantesimo al quinto posto), mentre il mio amato At Home With Cherry Twister, pur restando lontano dalle posizioni di rilievo, compie un significativo balzo dal numero 82 al 44. Author Unknown di Jason Falkner, infine, che non era presente in classifica (l'autore aveva optato per la raccolta di b-sides ed inediti Eloquence, al 156° posto), si guadagna un ottimo piazzamento a ridosso dei vertici (14°).

Che dire? Anche questa classifica, come tutte le classifiche, non è oggettiva né tantomeno "definitiva". Se non altro, è stata un' ottima occasione per dire la propria e speriamo ce ne siano altre in futuro...

martedì 25 novembre 2008

Disco del Giorno 25-11-08: Greg Pope - Popmonster (2008; Octoberville records)

I fans del pop chitarristico più addentro ad un certo tipo di questioni sicuramente si ricorderanno degli Edmund's Crown da Nashville, il cui Regrets Of A Company Man fu uno dei grandi dischi usciti nel 2006. A circa due anni di distanza da quel lavoro si riaffaccia sulla scena Greg Pope, che degli Edmund's Crown è il leader, questa volta in versione solitaria con un album che senz'altro ambisce ad un posto nella top 20 di fine anno. Il lavoro si chiama Popmonster e il titolo si presta ad una duplice interpretazione, anche se solo una di esse è esatta. Scartata l'ipotesi che potrebbe portare a pensare ad una "mostruosità pop", accogliamo quella che rimanda ad un album "mostruosamente pop", sia per l'ovvia qualità dei brani, davvero impressionante, sia per la mole del materiale presente, ben sedici pezzi che assorbono le più diverse influenze dall'universo del guitar pop e le miscelano con cognizione di causa davvero inusuale.

Immaginate un possibile incrocio tra l'invasione britannica degli Who, la sensibilità pop dei Monkees, l'intelligenza compositiva di Jon Brion o Matthew Sweet ed una spruzzata, sottesa ma importante, di roots sound. Il tutto prodotto e suonato da Robert Pollard. Avrete un'idea verosimile di che cosa vi aspetta ascoltando Popmonster. Dopo che sarà partita Sky Burn Down, traccia numero uno, tutto sarà più nitido. Produzione satura all'inverosimile, sound potente, riffs di chitarra reiterati e voce sopra le righe fanno del brano una manna per chi è malato di Who - in versione superbuzz - e di grandi gruppi moderni come gli Shazam. Il tutto in poco più di due minuti, perchè questo tipo di rock'n'roll è essenziale, inutile perdere tempo. E Greg lo ha capito benissimo, visto che l'intero album si protrae per meno di quarantacinque minuti, che diviso sedici non fa nemmeno tre. I Got A Life, secondo episodio dell'album, è stata inquadrata alla perfezione da Aaron Kupferberg di Powerpopaholic, che la descrive come un pittoresco incrocio tra Matthew Sweet e - non abbiate paura - Lenny Kravitz sotto l'effetto di speed. In sostanza, puro rock'n'roll dopato da balera. Uno sballo, a modo suo.

Le radici degli Edmund's Crown (un precipitato di Big Star, Tom Petty e Replacements dai tratti melodici impagabili) riemergono in Lost My Friend (a mio parere, il brano più riuscito dell'album), in Playing Nashville e in Reason With You, caratterizzata da un fantastico lavoro di drumming non convenzionale che fa saltare sulla sedia. Poi, tra i tanti highlights, è obbligatorio segnalare almeno All Day Long, dove i tempi infernali, la produzione sporca e ancora un' ottima performance dietro ai tamburi di Pope (che suona e canta tutto) mi ricorda un mix tra i Cotton Mather più esplosivi e i Guided By Voices. Ma non sottovaluterei, fossi in voi, neppure la grandiosa ballata beatlesiana Only One You, il maestoso pop vagamente ELO di Magic Show (da paura la newaveggiante linea di basso che conclude il pezzo) e Little Things, che per non farci mancare nulla butta lì anche un pò di prezioso jangle rock.

Alla fine, mostruosamente pop o pop mostruso che sia, concorderete sul fatto che Popmoster è un album mostruosamente bello e, perdonatemi l'abuso di avverbi, assolutamente da ordinare. Subito. Quest'anno è stato davvero generoso con i cultori del pop indipendente, e fare una classifica di fine anno sarà, passatemelo, mostruosamente difficile.

sabato 15 novembre 2008

Disco del Giorno 15-11-08: The Rhinos - In Rhi-Fi (2008; Rainbow Quartz)

La pagina web dei Rhinos si presenta con l'inequivocabile manifesto scolpito nella frase "welcome to jangle heaven", giusto per preparare il potenziale ascoltatore. Si, perchè con il quintetto di Malmo, Svezia meridionale, le mezze misure non sono ammesse, e l'ascolto di questo loro secondo album è strettamente raccomandato solo a chi dei Byrds e del jangle-pop è un fanatico assoluto. Se però questo è il vostro caso, sappiate che i rinoceronti Svedesi sono uno dei migliori gruppi "McGuinn-oriented" in circolazione al momento.

In Rhi-Fi (forse l'unico difetto di un disco superbo risiede proprio nella scelta del titolo, per così dire curioso) giunge a ben cinque anni di distanza dall'esordio Year Of The Rhinos, anch'esso pubblicato dalla fondamentale etichetta Newyorkese Rainbow Quartz, che già tendeva a certificare la padronanza ed il talento della band nel gestire la Rickenbacker dodici corde e nello scriverci sopra canzoni fondamentalmente sixties pop di grande valore come Stop The Time, che fu uno dei pezzi più pregiati di tutto il 2003. Cinque anni sono tanti, e cominciavo a dubitare dell'esistenza stessa della band, che invece trovo in forma smagliante e notevolmente progredita soprattutto a livello di songwriting, anche se le coordinate-base del loro suono sono sostanzialmente le stesse e si concretizzano in un orgia jingle-jangle che rimarrà nella memoria degli amanti del genere per qualche tempo.

I primi due brani di In Rhi-Fi, Everything That She Believed e PTO, fanno chiaramente capire che ci si trova nel bel mezzo di un'enorme festa jingle-jangle dove sono invitati al ballo tutti coloro che considerano i Byrds uno dei gruppi fondamentali della storia del pop. After Love Has Gone immette un pizzico di folk protopsichedelico nella strofa-mantra prima di esplodere in un altro grandioso ritornello jangle, mentre Love (The Strangest Thing), dove la voce calda, profonda e molto coinvolta di Leif Svensson tocca punti di commozione pura, presenta un feeling quasi Smithsiano. I suoni cambiano sensibilmente nei due magnifici brani cantati da Lasse Hindeberg, ossia For Just Another Hour With You e Dead End, che sposano atmosfere sunshine pop di tendenza pianistica e faranno piangere di gioia i fans di Zombies e Left Banke.

Ma è ovviamente il jangle il piatto forte del menù, e il party continua con la strappalacrime Before I Set You Free, dove le dodici corde Rickenbacker ci piovono addosso come fossero zampilli di una dolce cascata, con Tell On You, uno dei pezzi più belli dell'intero disco e con My Town, aspra critica sociopolitica nei confronti della loro città, Malmo, da dove comunque non se ne andranno mai poichè ci hanno lasciato il cuore, o almeno così dicono. Il brano, eccelso, è impreziosito da un lussureggiante quartetto d'archi che prende la scena nello stacco e lo trascina tra le tante vette del disco.

Gli ultimi applausi li riserviamo a She Presents The News, toccante acustico dedicato all'annunciatrice del TG di Channel 5, a I'd Rather Be Sad ed ai suoi echi tardo-Beatlesiani e, infine, alla conclusiva Just Disappear, etno-pop tra i Balcani e l'India che rimanda certamente ai migliori lavori dei Kaleidoscope Americani. Lo slogan perfetto potrebbe essere "Welcome to the jangle", in effetti, ma visto che i Guns and Roses a giorni pubblicheranno l'attesissimo (ma da chi??) nuovo album di studio, forse è il caso di trovarne un altro e di rispolverarlo tra un pò...

domenica 9 novembre 2008

Disco del Giorno 09-11-2008: The Pranks - Modern Communication (2008; Screaming Apple)

Ormai la sentenza è inoppugnabile: la città che nei secoli dei secoli rimarrà famosa per aver dato i natali a Cobain, ai Mudhoney, ai Soundgarden e a quel devastante fenomeno musicale, stilistico e mediatico che fu il grunge si è reinventata città d'avanguardia per quanto riguarda il movimento powerpop. Pensate, addirittura esiste un blog chiamato "Seattle Powerpop", e non ci vuole molto a capire che per parlare di un genere di nicchia, per giunta proveniente da una sola città, il materiale deve essere tanto e di qualità. Infatti. Quest'anno abbiamo già avuto modo di parlare di grandi dischi usciti da Seattle come quelli di Doll Test e Shake Some Action!, e adesso abbiamo la fortuna di ascoltare Modern Communication, ossia l'album d'esordio dei devastanti Pranks.

Quando si disserta di pop associato alla "emerald city" non si può fare a meno di citare i Boss Martians di Evan Foster, forse il gruppo powerpop più famoso della città. Ebbene i Pranks sono la creatura di Erik Foster, il fratellino di Evan. Quest'ultimo si è occupato del basso e soprattutto è il responsabile della favolosa e potentissima produzione di un album che si insedia tranquillamente tra i migliori dischi powerpop dell'anno. Modern Communication è un lavoro melodico e preciso ma allo stesso tempo selvaggio come si conviene ad un disco fatto uscire dalla strepitosa label Tedesca Screaming Apple, e infatti le zuccherose melodie sempre associate a chitarre voluminose di scuola Weezer/True Love si alternano ad improvvisi assalti garage che sembrano figli della miglior tradizione rock'n'roll Scandinava, per un mix ad altissimo voltaggio elettrico.

La famiglia Foster deve avere impressa nel dna la tecnica necessaria per non sbagliare una melodia che sia una, e di rendere assolutamente accattivanti anche i giochi armonici più elementari. Non ci credete? Ve lo spiega meglio Your World Falls Down, traccia numero uno per due minuti scarsi di purissimo teen pop fatto di angst giovanilista, chitarre stellari e drumming da infarto. Simile alla title-track che arriva subito dopo con le canoniche chitarre disumane e un'altra ottima e nevrotica performance del batterista Mike Musburger. All I Ever Wanted inizia a lasciar trasparire l'inclinazione rock'n'roll della band. Il brano, ancora una volta breve e di intensità mostruosa, fa venire in mente i ciechi assalti garage-pop degli Hives primissima maniera (quelli di Barely Legal, gli unici veramente fenomenali) così come la successiva Every Minute Spent, che butta nel mix anche un pò di Ramones.

Tra i tanti highlights si fanno notare il weezer-pop di Spending Time, dal ritornello adesivo, il pop-punk che non esiterei a definire "alla MTX" di Everything I Can, introdotta da una fucilata garage nella strofa e Gonna Make It Worse, dalle chitarre istintivamente emo. Non ci sono soste, anche perchè i pezzi meno pregiati (tutti comunque di qualità più che buona) si chiamano Get Up And Get It e T.A.T.T., altri due esempi di brillante rock'n'roll schiacciasassi.

Divertimento, volumi alti, melodie imperdibili e furia teen. Così si suona rock'n'roll, eccheccazzo.

martedì 4 novembre 2008

Ristampa del Giorno 04-11-08: Richard Snow - Tuesday Music (2008; Side B Music)

I più attenti lettori di Under The Tangerine Tree ricorderanno di certo il nome di Richard Snow. Un paio di mesi fa, infatti, abbiamo parlato della ristampa del suo primo lp ad opera della Side B Music. Jerry Boyd e la sua etichetta hanno ora ristampato anche il secondo album dell'autore Britannico, intitolato Tuesday Music ed originariamente uscito nel 2005. Il disco, che già avevo avuto la fortuna di ascoltare ai tempi della sua pubblicazione, si è rifatto il trucco, è stato rimasterizzato e presenta ben sette bonus tracks.

L'omonimo album d'esordio, lo abbiamo detto, è un gran bel lavoro, ma come già sospettavo parlandone, non raggiunge i sontuosi picchi del suo successore, che ad oggi è la migliore cosa fatta uscire da Richard Snow. Se lo stile è similare, con una grande attenzione per le armonie vocali multistrato e sonorità reminescenti del miglior Brian Wilson, bisogna comunque dire che Tuesday Music è ancora più legato a quei suoni e a quelle immagini, laddove il primo album lasciava ogni tanto spazio a divagazioni seventies di stampo ora Costello, ora Clash. Il secondogenito di Richard è invece un puro viaggio nel Pet Sound, e le atmosfere di quell'album sono ricreate in maniera assolutamente magistrale. Se siete amanti del vocal-pop di matrice Wilsoniana proposto da bands come i Wondermints, come i tardi Baby Lemonade e come - ovviamente - gli Splitsville di "The Complete Pet Soul" potreste anche smettere di leggere questa recensione e andare ad ordinarne immediatamente una copia. Se invece ancora non siete convinti, oppure le cose non vi sono chiare, vado subito ad esaltare le trame più significative di un disco che sarebbe peccaminoso lasciarsi sfuggire.

La "colonna sonora del Martedì" si apre alla grande con Silent Girlfriend, un magnifico brano dove le onnipresenti armonie vocali Beachboysiane si adagiano su una tela sonora jangle memore dei Byrds meno introspettivi. Già, i Byrds sono un'altra prepotente influenza per Richard, e una conferma in questo senso arriva da Hard To Be Happy, ancora una volta intrisa di puro e commovente jangle-rock sound che pende dalle labbra di McGuinn e Clark. E si respira aria di California in ogni dove. When You Smile e Over sono altri due grandi esempi di Brian Wilson pop dove l'approccio è quello di un professore della materia, e la title track è un interludio di trentanove secondi che davvero sembra un estratto originale di Pet Sounds.

Per il resto, Richard delizia l'ascoltatore con acustici di grande impatto come You're My Number 1, ideale tratto di congiunzione tra i classici stile Simon & Garfunkel (si, e allora?) ed i Love più immersi nel folk e con divertissemnent estemporanei come Lonesome Cowboy, americana come ci si aspetta e dove lo stacco pseudo-reggae regala sensazioni inaspettate. Ad infiocchettare il tutto, come anticipato, ci sono le sette bonus tracks, sette versioni acustiche o comunque differenti di altrettanti brani di Richard Snow, tra le quali spicca la versione "unplugged" di Attention Not Required, tratta dal suo album d'esordio.

Avrete capito, in buona sostanza, che se il vocal pop Californiano dei sixties è il sound giusto per toccare le corde del vostro cuore, l'acquisto di Tuesday Music è una grande occasione per non rimpiangere (o rimpiangere meno) gli eroi del passato. E se, più in generale, il pop è la vostra ragione di vita, non vedo un solo motivo perchè non dobbiate mettervi in casa il secondo album di Richard Snow. Anzi, se non l'avete ancora fatto, prendeteli tutti e due, già che ci siete.

lunedì 3 novembre 2008

Buon compleanno, Under The Tangerine Tree!

Il 3 Novembre 2007, giusto un anno fa, nasceva Under The Tangerine Tree. Con la recensione di "Let's Go: The Best Of Splitsville" finalmente prendevano il via le operazioni di un blog che pensavo di creare da diverso tempo. Da allora ho parlato di molti grandi artisti e di molti fantastici dischi che per la stragrande maggioranza adoro, ma soprattutto ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere tanti grandi personaggi tra musicisti, gestori di etichette e semplici cultori della materia come il sottoscritto.

Voglio ringraziare chi, inviando il proprio materiale, leggendo questo blog o supportandolo in qualsiasi modo, mi permette di continuare nell'intento di promuovere quei segmenti dell'universo pop troppo spesso censurati dalla critica musicale Italiana. Cercherò, spero per molto tempo ancora, di portare avanti questo compito. E sarò felice tutte le volte che voi lettori scoprirete, attraverso questo blog, un disco favoloso che forse non avreste mai conosciuto.

Grazie a tutti,

Emmanuel

martedì 28 ottobre 2008

Disco del Giorno 28-10-08: Ideal Free Distribution - Then We Were Older (2008; Color Wheel records)

Ed ecco un album che farà andare fuori di testa i maniaci di psichedelia applicata al folk, dei Nuggets e della british invasion più stralunata. Gli Ideal Free Distribution, con Then We Were Older, approdano al secondo lavoro di studio dopo aver sorpreso con l'album d'esordio, omonimo, uscito poco più di un anno fa e piazzatosi al numero 90 della mia classifica riguardante i migliori dischi del 2007. Dopo un primo ascolto di questo nuovo album si è certi di due cose: la band è sicuramente Inglese e il disco è una ristampa senza bonus-tracks di un vinile uscito nel 1967. Le certezze, come è ovvio, esistono apposta per essere picconate, ed infatti l'album è uscito circa un mese fa (dopo una rapida ricerca su internet ho scoperto che Under The Tangerine Tree è il primo blog al mondo a parlarne, evvai) ed il gruppo proviene da Lexington, Kentucky. Le stranezze della vita ed il volto buono della globalizzazione musicale risiedono di diritto anche in dischi come questo . Guidati da Samatha Herald e da Tony Miller, coppia fissa nella band, nella vita e nella label, la Color Wheel Records, che ovviamente patrocina il disco di cui stiamo parlando, gli Ideal Free Distribution (gran nome, tra l'altro) compiono in Then We Were Older un anticonvenzionale viaggio nel folk e nella psichedelia Britannica, che è tanto brillante e stralunato da rendere impossibile capire se stiano muovendosi verso il passato remoto o verso un futuro non si sa quanto prossimo. Poco importa, se il genere vi entusiasma, questa è una chicca, senza storie.

Tony Miller, nell'intervista pubblicata sull'ottimo psych-blog Trip Inside This House afferma che, se potesse utilizzare una macchina del tempo per una sola volta, non esiterebbe a fiondarsi nel bel mezzo del 1966, e da li viaggerebbe per parecchie settimane successive. Una volta ambiebtatosi negli anni Sessanta gli piacerebbe trovare un posto di lavoro come tecnico audio in uno studio di registrazione, così riuscirebbe a capire davvero, dopo anni di prove e studi senza sosta, come ricreare quella magia che usciva dalle casse dei giradischi dell'epoca. E anche se probabilmente il buon Tony una macchina del tempo a disposizione non l'avrà mai, quella magia, almeno in parte, è riuscito a ricrearla con un certo stile e molta competenza nei tredici episodi di Then We Were Older. Un disco che prepara l'ascoltatore da subito con Cold Wind Blows, puro folk psichedelico proveniente da un'immaginaria Albione persa in un tempo senza tempo che piacerebbe al nostro Donovan preferito; cinque minuti e trentatrè secondi in cui la sensibilità pop di Miller si fonde ad un'etica trippy (da paura la coda psichedelica) filologicamente ineccepibile.

La traccia d'apertura segna la via, e il disco prosegue sicuro in un itinerario fatto di eteree armonie pop, oscure ambientazioni folkeggianti ed un inossidabile feeling lisergico. Come in Carol Anne, dove i sinistri girotondi disegnati da percussioni effettate danno il là a giri di chitarre ossessive, perfetta base al variegato e particolarissimo stile di canto di Tony Miller. In Turn To Find you ed Help Herself aumenta il coefficiente di chitarre e il numero di bpm. Nella prima, le sei corde diventano memori dei Kinks e della parte più esplosiva della british invasion, mentre la voce di Miller si fa epica e sofferta. La seconda, più veloce, è una gemma di guitar-psych-pop da non perdere e si distingue come uno degli episodi migliori dell'intero disco. Un disco solido e pieno di invenzioni perfettamente intonate alle lezioni di storia via via assimilate. Ascoltare la stupenda Trip Inside per credere. Il brano, intriso di psichedelia pura per cultori del genere, parte da un ideale incrocio tra i Pretty Things di SF Sorrow e gli XTC di Skylarking per poi snodarsi in una lunga coda piena di fuzz e acido lisergico. E' doveroso segnalare, inoltre, quelli che sono gli estremi del disco. Anne Maria è un inaspettato rock'n'roll marcissimo tra gli Oblivians ed i Neutral Milk Hotel, mentre Something I Know è uno splendido spaccato di sunshine pop che - oltre ai classici del genere - mi ricorda da vicino l'album dei Rollo Treadway, uno dei miei dischi preferiti di quest'anno. E, per chiudere, quale finale migliore di Stars? Suoni e rumori da un passato irrimediabilmente proiettato nell'iperspazio.

Then We Were Older è un grande disco che non mi sento di raccomandare a tutti. Chi non ama profondamente il genere finirebbe per odiarlo e gli Ideal Free Distribution, francamente, non meritano questo. Chi invece è legato a certe sonorità si faccia un favore e corra ad ordinarne una copia. Uno dei migliori dischi di folk psichedelico che abbia sentito negli ultimi due anni.

mercoledì 22 ottobre 2008

Disco del Giorno 22-10-08: Deluxe Leisure King - Miss Steak (2008; autoprodotto)

Quando si parla di "profondo Sud" riferendosi agli Stati Uniti d'America, storicamente si intende quella sezione sud-orientale che si estende dalla Virginia alla Georgia e che comprende le Carolinas, l'Alabama, il Mississippi ed il Tennessee. Quest'area geografica, da sempre, è una delle massime fucine di talenti applicati al powerpop, all'Americana e massimamente al jangle-rock, che da queste parti è religione sin dai tempi in cui i REM muovevano i primi passi in qualche scantinato di Athens. I Deluxe Leisure King, per l'appunto, arrivano dal profondo del profondo Sud. Mobile, Alabama, è infatti un'amena località balneare situata all'estremità meridionale dello stato, affacciata sul golfo del Messico. E quello che il terzetto guidato da Seth Cherniack propone è proprio ciò che ci si aspetta da un gruppo sudista: powerpop spesso guidato da chitarre jangle con tocchi di Americana sapientamente sparsi qua e là.

Deluxe Leisure King è un nome che già avevo imparato a conoscere un paio di anni fa, avendo messo le mani in tempo reale sul precedente ed ottimo Debbie Does Nothing nel 2006. Il sorriso che avevo stampato sulla faccia quando ascoltavo quell'album si è immediatamente ripresentato grazie a questo freschissimo e prelibatissimo nuovo lavoro di studio, brillantemente intitolato Miss Steak, dal momento che gli ingredienti di allora sono qui presenti in forze, e l'album è uno spasso per tutta la sua (breve) durata. Le liriche di Cherniak e soci rimangono saldamente ancorate al reale, con un approccio verista che neanche Verga. Sentite l'iniziale Welcome To The Neighborhood per avere un assaggio: "The man that lives behind me - feels so complete - He runs a dirty little business - from the corner of the street". E via così, con omaggi ad eroi personali (Aldo Ray) e digressioni sui pensieri e gli atteggiamenti delle cameriere (Superwaitress). Del resto, dice Cherniak, "siamo abituati a scrivere di cosa vediamo e del posto in cui viviamo". Pensiero condivisibile, visto che la quotidianità è l'unica fonte d'ispirazione che difficilmente fa mancare spunti degni di essere cantati. E se i testi sono "testi dossier", allo stesso modo e con la stessa attitudine la musica tende a badare al sodo. Il sound, infatti, appare grezzo al punto giusto, melodico, minimale e completamente refrattario alla "tappezzeria da studio".

La già citata Welcome To The Neighborhood apre le danze con un powerpop ridotto all'osso, prodotto giusto l'essenziale e marcato da linee di synth completamente folli. Poi arriva Like Breaking Glass, una fucilata power-pop-punk immersa in riferimenti Db's (non a caso uno dei più grandi gruppi sudisti powerpop di ogni epoca) ed azzeccatissime citazioni Ramonesiane. Sullo stesso stile si presenta Aldo Ray, mentre Life's A Breeze è puro rock'n'roll da (s)ballo. I Deluxe Leisure King, però, toccano l'apice quando giocano nel loro confortevole giardinetto jingle-jangle pensando ai Byrds e a Bobby Sutliff e a Michael Stipe ancora imberbe. Nasce così l'elettrizzante filastrocca Wanna Girl (Like That), arpeggi a dodici corde e divertimento puro (I want a girl who doesn't have tattoes...I want a girl who hates Tom Cruise). E così nasce Reverend Jim, di simile impatto, forse appena più malinconico.

La commistione tra jangle-rock ed Americana, come dicevamo, è sempre stata una prerogativa dei gruppi del sud. I Deluxe Leisure King non potevano certo esimersi dal continuare la tradizione, e così ecco Please Stop It, puro American folk e soprattutto Kinda Sorta Knew Me When, grande Americana con un grandissimo lavoro di pedal steel. Per il resto, come definire Mistake? Easy listening da urlo può andare bene.

Restano da fare le classiche raccomandazioni finali, ma sono scontate. Se del pop sudista a stelle e strisce avete fatto uno dei vostri passatempo preferiti fiondatevi ad acquistare una copia di Miss Steak. Un album da ascoltare d'estate davanti al barbecue oppure, d'inverno, sulle frequenze della vostra college radio preferita.

mercoledì 15 ottobre 2008

Disco del Giorno 15-10-08: The Romeo Flynns - Pictures Of You (2008; What's Left records)

Dalla zona est di Detroit arriva una band chiamata The Romeo Flynns. Il loro album d'esordio, Pictures Of You, appartiene ad uno stile di powerpop che non siamo solitamente abituati a commentare su queste pagine. D.Lawrence Lee, Jimmy Moroney e Jeff Kenny praticano infatti un inusuale mix di power pop dopato da chitarre che potremmo tranquillamente definire "hard-rock", glam, rock'n'roll di base e, ovviamente, classico motown. In tutta sincerità, devo ammettere che mi ci sono voluti quattro o cinque ascolti per "entrare" nel disco, ma superata seppur con qualche difficoltà la fase di adattamento, devo ammettere che Pictures Of You non è affatto disprezzabile e credo che i più old-fashoned tra voi lettori amanti di certo glam-pop anni Ottanta potrebbero trovarlo addirittura stupendo.

Il disco si presenta retrò anche nella struttura. Quanto spesso capita, ai giorni nostri, di trovarci tra le mani un concept album? Non molto, a occhio e croce. L'esordio dei Romeo Flynns è invece un album che va ascoltato come si usava una volta quando ci si trovava di fronte a lavori similari: i concept, per loro stessa natura, vanno ascoltati per intero, dall'inizio alla fine, senza che si noti la possibilità (e neanche se ne veda la necessità, per essere onesti) di estrapolare singoloni da quarantacinque giri. Di che si parla? dell'argomento più vecchio ed attuale della storia della pop music, ossia una storia d'amore finita malissimo. E, come prevedibile, l'album trasuda malinconia, ma grazie alla debordante quantità di chitarre e volumi riesce a non sfociare nella depressione cupa, rimanendo anzi vivace e godibile per lunghi tratti.

Dopo l'introduzione sottoforma di dialogo tra il protagonista e quella che sembra essere appena diventata la sua ex ragazza, l'album parte con la title-track, che è anche un pò il manifesto delle sonorità che si incontreranno durante il percorso. E cioè powerpop muscolare alla Cheap Trick abbondantemente iniettato di glam melodico che mi fa venire in mente i Fuzzbubble, gruppo Californiano maestro nell'affrontare questo genere di cose. Su simile standard incede Just Fade Away, mentre Gonna Feel Alright è un classico rock'n'roll sfrenato e arricchito da generose dosi di piano e sax. A Better Man Than Me parla la stessa lingua ma qui le chitarre sono più strettamente powerpop, come quelle di Won't Pass By This Way Again, classico powerpop "stoppato" con un pregevole lavoro armonico durante il chorus.

Lawrence dimostra di avere una particolare abilità nelle lente performance per sola voce e chitarra acustica come Kristine ed Every Time We Part, che in un disco simile non potevano assolutamente mancare, ma i pezzi migliori sono senza dubbio Wasting My Heart, impressionante brano jangle-pop e la riuscitissima cover di Better Things, una delle mie canzoni preferite dei Kinks.

Lo slogan di una vecchia pubblicità dichiarava "per molti, ma non per tutti", e credo che ciò valga per anche per Pictures Of You, ma ribadisco un concetto: se preferite che la vostra razione quotidiana di pop sia particolarmente "energizzata" buttatevici a capofitto. Tutti gli altri, cioè quelli che come me preferiscono cose più soft, potrebbero aver trovato un degnissimo diversivo. E diamogliela una chance!

mercoledì 8 ottobre 2008

I migliori 5 dischi powerpop di tutti i tempi!

Come molti appassionati di powerpop sapranno, qualche mese fa John Borack, uno dei più illuminati giornalisti musicali americani, ha dato alle stampe Shake Some Action, The Ultimate Powerpop Guide, consigliatissimo libro in cui l'autore stila la propria personale classifica dei migliori 200 dischi powerpop di tutti i tempi. Ora, come si sa, quando si tratta di stilare classifiche tutti hanno le proprie idee e difficilmente ci si trova completamente d'accordo. Io stesso, leggendo il libro di Borack, sebbene concordassi con l'autore in più di un'occasione, avrei posizionato in modo differente alcuni dischi nella top 20 e non mi capacitavo di come alcuni lavori fossero stati esclusi dai 200. Avrei inoltre preferito altri dischi di alcuni autori presenti in classifica. Opinioni personali, ovvio. Che però, oggi, abbiamo la possibilità di esprimere e far valere. Infatti, Angelo del supremo blog Powerpop Criminals ha indetto un sondaggio per stilare la classifica "alternativa" dei migliori dischi powerpop di tutti i tempi. E' semplice. Cliccando sul link si raggiunge una pagina web in cui potrete votare i VOSTRI cinque dischi preferiti. I seggi sono aperti fino al 31 di questo mese, perciò avete anche qualche giorno per rifletterci su!

Dopo due giorni di acuminate riflessioni, ecco cosa ho votato:

o1. Big Star "#1 Record / Radio City". L'unico album della mia top 5 uscito prima del 1990. Non che non ami tantissimi dischi usciti negli anni Settanta ed Ottanta, anzi, però ho finito per optare per album usciti mentre crescevo e che hanno cementato la mia infinita passione per il genere. In ogni caso, i primi due lavori della premiata ditta Chilton/Bell rappresentano le autentiche pietre miliari del powerpop, e non sapendo decidermi su quale dei due dischi inserire, ho scelto di includere la nota ristampa che li comprende entrambi. Back Of A Car, The Ballad Of El Goodo, In The Street e Life Is White sono la storia, né più né meno. Poi c'è September Gurls, la ballata per antonomasia, brano che ha fatto dire a Borack "probabilmente non è la più grande canzone pop di tutti i tempi, ma durante i tre minuti della sua durata sarete perdonati se pensate che lo sia".

02. Cotton Mather "Kontiki". Dicevamo che è difficile essere d'accordo su questioni tanto personali, eppure i miei due dischi preferiti sono gli stessi di Steve Ferra, "proprietario" del magnifico blog Absolute Powerpop. Kontiki è uno di quei dischi che metterei subito in valigia nel caso dovessi affrontare il proverbiale viaggio su un'isola deserta. Steve ha ragione quando afferma che Robert Harrison, il deus ex machina dei Cotton Mather, ha scritto il disco più vicino ai Beatles che la storia ricordi. Non tanto in termini di sound (ci sono tante altre bands che lo fanno bene) ma quanto in termini di etica e qualità delle canzoni. Quattordici autentici capolavori sospesi tra powerpop e psichedelia prodotti magistralmente da Brad Jones. Uno brano meglio dell'altro, dalla chiassosa e iniziale Camp Hill Rail Operator alle dolci e trasognate Homefront Cameo, Spin My Wheels e Autumn Birds. Dal caos devastante di Church Of Wilson ai capolavori da tramandare ai posteri come My Before And After (uno dei più grandi brani powerpop di tutti gli anni '90), Vegetable Raw e la sensazionale ballata jangle She's Only Cool. Harrison rifinisce con una voce destinata più di ogni altra a raccogliere l'eredità di Lennon e con testi poetici, pensosi e immaginifici. Persino Noel e Liam Gallagher, di certo non due famosi leccaculo, ai tempi dell'uscita di Kontiki affermavano: "vorremmo averlo scritto noi, lo ascoltiamo tutto il giorno a casa!". In una parola, impressionante.

03. Teenage Fanclub "Grand Prix". Norman Blake, Raymond McGinley e Gerard Love. Tre musicisti e cantanti sublimi per un terzetto di compositori tra i più importanti e sottovalutati del pop moderno. Secondo Alan McGee, che ai tempi dell'altro capolavoro Bandwagonesque li vantava nella scuderia Creation, era solo colpa loro poichè - così diceva l'uomo che resuscitò il brit rock - "era un gruppo che si accontentava di vendere 150.000 copie". E vabbè. Folgorati sulla via di Alex Chilton, i Fannies assorbivano le istanze del powerpop originale per poi rigurgitarle in un mare di chitarre e di suoni sporchi e poderosi, certe volte ai limiti del caos controllato. Grand Prix è uno dei dischi più strettamente pop del combo Scozzese, e nell'eterno dibattito se sia meglio di Bandwagonesque, per me vince facile. Perchè ci sono alcuni tra i miei brani preferiti di sempre. Sparky's Dream, tanto per citare il più famoso, in un mondo migliore sarebbe stato singolo dell'anno e il contorno, anche se di contorno è difficile e forse improprio parlare, avrebbe fatto la fortuna di centinaia di gruppi. Esempi? Neil Jung, I'll Make It Clear, About You e potrei citarli tutti. Qualche soddisfazione se la sono tolta, essendo fonte di ispirazione per una moltitudine di artisti adoranti e visto che qualche migliaia di persone al mondo letteralmente li venera. Io per primo.

04. Cherry Twister "At Home With Cherry Twister". Certo, ognuno di noi ha nella propria classifica il disco oscuro, che per qualche motivo finisce per diventare un capolavoro "privato". At Home With Cherry Twister non è esattamente privato, visto che parecchi cultori della materia lo hanno sempre considerato un disco immenso. Sinceramente, l'album in questione è stato uno dei motivi di più aspra critica nei confronti del libro di Borack, dal momento che sono convinto meriti ben di più dell'82° posto riservatogli in Shake Some Action. Steve Ward, leader del gruppo, ha dimostrato anche nei successivi (e molto più intimisti) lavori da solista di essere un autore di primissimo piano, e At Home With Cherry Twister è li a dimostrare perchè. Powerpop puro, divertimento, classe, voce da sogno, produzione essenziale e soprattutto una capacità innata di scrivere ritornelli impagabili. I primi quattro pezzi costituiscono una delle migliori partenze che si ricordino e Sparkle, benchè non lo sia mai stato, è un singolo da capogiro.

05. Jason Falkner "Author Unknown". Il geniale autore che fece parte di Jellyfish, Three O'Clock, Grays e che lanciò Brendan Benson, nel 1996 si mise in proprio e fece uscire uno dei più scintillanti e (ancora una volta) sottovalutati dischi di pop puro che la storia, recente e non, ricordi. Quando dico "si mise in proprio" intendo in tutti i sensi. Suona, produce e canta tutto lui, per un vero e proprio pop-tour-de-force. Non tutti lo hanno capito, e hanno fatto male. Una confidenza nei propri mezzi simile, io la ricordo a fatica. Jason era e rimane uno dei grandissimi autori del pop degli ultimi vent'anni, un singer-songwriter d'eccezione che di certo non nasce tutti i giorni, e chissà quanto dovremo aspettarlo un altro così. Uno capace di confonderci, tipo "ma questo è McCartney?" dopo pochi secondi dell'iniziale I Live. Di farci saltellare per casa con il pop-punk di Miracle Medicine e Miss Understanding. Di scrivere lenti memorabili (e i lenti, si sa, sono la cosa più difficile da scrivere) con arrangiamenti di archi favolosi in She Goes To Bed. E poi, Don't Show Me Heaven e soprattutto Afraid Himself To Be sono intrisi di raro e pregiatissimo nettare Beatlesiano. E c'è I Go Astray, uno dei miei brani preferiti in assoluto. Non una semplice canzone, ma piuttosto un musical pop raccolto in tre minuti circa. Se questo non è genio puro allora spiegatemi voi cosa vuol dire "geniale". Vi avverto che non sarà facile farmi cambiare idea.

Chiaramente, lo ripeterò fino alla nausea, la mia classifica è quanto di più opinabile ci sia sulla faccia della terra. Devo aggiungere che fino all'ultimo sono stato indeciso circa l'assegnazione dell'ultima "piazza" disponibile ma poi, al fotofinish, Jason Falkner ha superato Utopia Parkway, fantastico secondo album dei Fountains Of Wayne. In ogni caso, sospetto che io stesso tra qualche mese avrò cambiato idea sul quarto e quinto posto (i primi tre credo rimarranno intoccabili per anni) ma tant'è. Certe cose, per loro stessa natura, sono destinate a mutare perennemente...

mercoledì 1 ottobre 2008

Kool news!

Sembra che il famigerato servizio postale stia ricominciando ad adempiere i propri doveri, anche se non propriamente a pieno regime. Poco male, ormai me ne sono fatto una ragione, anche perchè gli ultimi arrivi, ancorchè saltuari, sono di livello eccelso. Quest'oggi, per esempio, registriamo buone nuove da Seawell, New Jersey, quartier generale della Kool Kat records di Ray Gianchetti, la miglior etichetta power pop sul pianeta terra. Quanti dischi incredibili ci ha regalato Ray nel solo 2008? Una dozzina buona. E a questa dozzina dobbiamo aggiungere le ultime due nuovissime uscite, vale a dire Another Season Passes degli Strand e Goodnight To Everyone dei Jellybricks.

Lo abbiamo ripetuto alla nausea e sappiamo tutti a memoria che il power pop, almeno quello delle origini, visse i suoi periodi di massimo splendore nei primissimi anni Ottanta. Soprattutto negli States, ma non solo li, centinaia di gruppi provavano nei rispettivi scantinati a miscelare gli ingredianti di un genere che nel suo piccolo ha fatto la storia della musica. Quei ragazzi lo facevano perlopiù inconsapevolmente. Nessuno (o quasi nessuno) sapeva di suonare powerpop all'epoca. Era una cosa che veniva naturale, e che portava parecchi svantaggi a chi lo praticava. In un music-bizz quantomai focalizzato su generi musicali precisi, definiti ed inquadrabili in compartimenti precisi, quell'insieme di artisti, perlopiù sotterranei, che non nascondevano di essere influenzati contemporaneamente dal punk, dalla new wave e da tanto beatlopop, si trovavano regolarmente in quarta fila. Non avevano un look caratteristico, e questo era un problema. Però tra loro iniziarono a diffondersi a macchia d'olio le cravatte strette. Le skinny ties. Ora, skinny-tie powerpop è diventato un simbolo, una caratteristica, un modo per indicare in modo semplice e comprensibile uno stile musicale. Dicesi skinny-tie-powerpop quel tipo di powerpop che si rifà precisamente alle sonorità dell'epoca. Ai padri del genere. Ai Beat e ai 20/20. Non so se ci siamo capiti.

Gli Strand di quella scena (del sottobosco della scena) facevano parte, anche se dalle foto interne al disco non risultano indossare cravatte. Nascono ad Alexandria, in Virginia, nel 1982. Registrano un solo album, Seconds Waiting, nel 1984. Non lo ascolta nessuno, salvo diventare poi oggetto di culto, molto ricercato dai collezionisti, e chissà perchè la buona musica debba sempre invecchiare in botte prima di essere apprezzata. La band, formata da James Garner (voce e basso), Bill Lasley (voce e chitarra), John Hubbell (batteria e voce) e da Tommy Kemler (tastiere) scompare, ma non va in pensione. Tra la metà degli anni '80 e il 2007 i componenti scrivono ancora, e dieci nuovi brani vengono alla luce all'interno di un nuovo, fiammante album chiamato Another Season Passes. Un disco tutto giocato sull'asse Plimsouls-Beat, con gli Who sempre davanti ad indicare la strada. Una serie di brani pazzeschi, come l'iniziale Rising Tide o la grandiosa Not a Stranger, che ruba intro e melodia a Steppin' Stone, per sciogliersi poi in un ritornello che demolisce in un colpo solo gran parte della paccottaglia neo-garage in circolazione. Le canzoni, tutte, com'era caratteristico nell'83 suonano incredibilmente vive e genuine. Le chitarre ruggiscono, le melodie imperversano e la band è lì, davanti a voi, senza trucchi e senza la maschera di una produzione eccessiva. Certe cose mi commuovono sempre. Why'd You Call si sente che deve qualcosa al sixties-punk, ma ha la capacità di trasformarsi in un brano dal ritornello degno dei migliori Records.

Non vorrei spararla grossa ma credo che gli Strand, quest'anno, finiranno nella top 10. L'album non molla la presa un secondo, e tra classiche sonorità skinny-tie (appunto) e melodie da impazzire scorrono senza soluzione di continuità le varie Along For The Ride (fans dei Cryers fatevi sotto) e The Center, un uno-due da impazzire. C'è spazio per un lento spaccacuore (Begin Again) e per rivoli di Clashismo (Scared Streets 1 e 2). E come non innamorarsi dei synths che introducono la favolosa e new-waveggiante On Her Own?

La mini-bigrafia interna al disco termina così: "chiudete gli occhi, ascoltate e provate ad immaginare quando, tra l'84 ed il 2007, le singole canzoni sono state scritte. Giungerete alla conclusione che si tratta di musica senza tempo". Sottoscrivo in toto. Che emozioni, che grande disco.

I Jellybricks arrivano da Harrisburg, Pennsylvania e con questo Goodnight To Everyone toccano quota quattro album di studio, così come quattro anni sono passati dall'ultmo Power This, pubblicato nel 2004. La band, nota per la sua frenetica attività live, ha condiviso i palchi di mezza America con gruppi del calibro di Fountains Of Wayne e Barenaked Ladies. Mi piacerebbe vederli dal vivo, i Jellybricks. Se su cd riescono ad essere così tremendamente potenti, on stage devono essere quantomeno devastanti. Larry Kennedy, Garrick Chow, Bryce Connor e Tom Kristich suonano si powerpop, ma spesso si tratta di powerpop tanto melodico quanto "estremo", nel senso di anfetaminico e muscolare. No, non sono una hard-rock band. Le melodie sono potenti come le chitarre, e da esse sgorgano con una naturalezza che è propria solo di chi sa maneggiare alla grande il genere. Del resto sono stati prodotti da Saul Zonana, mica il primo scemo.

Pronti via, si parte con Eyes Wide, che è lì lì per sconfinare nei territori del pop-punk. La velocità non è quella, ma siamo ai confini. Immaginatevi un mix tra il pop dopato dei Wannadies, i Churchills (qualcuno se li ricorda?) e i Mega City Four ed avrete una vaga idea di quello che vi attende. La title-track rallenta un pò ma nel ritornllo torna esplosiva mantenendo il tasso armonico ai livelli consigliati. Stavolta mi vengono in mente altri Svedesi, i Merrymakers, oltre agli Smash Palace e ai sottovalutati Crash Into June. Il "tono muscolare" svetta ai massimi consentiti durante Broken Record e Up To You, quando il volume delle chitarre è alzato a 12, ma i brani migliori sono quelli vagamente jangle, in particolare More To Lose, dove gli arpeggi rickenbacker-pop hanno la meglio sui distorsori.

Per il resto, al terzo ascolto ci si rende conto che i Jellybricks amano seguire la stella polare di Matthew Sweet. E se, come me, siete dei fanatici del genio che partorì Girlfriend, non potete farvi scappare gemme come Nobody Else, che si sente che è prodotta ed influenzata da Zonana, Put It Down e la delicata conclusione Heartache Begins, perfetta per augurare buonanotte, e buon mal di cuore, a tutti.