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lunedì 20 dicembre 2010

Appunti prenatalizi.

Periodaccio, sissignori. Lavoro dodici ore al giorno e, soprattutto, il governo è ancora in piedi, accidenti. Poco tempo, tanti dischi: tutto secondo copione. Mi salvo elargendo una manciata di dritte che, se ancora non li avete fatti, potrebbero essere buone idee in funzione regali di Natale.

David Leonard - The Quickening (2010; Another Whirled Record). L'abito, almeno nel mondo della musica, non sempre fa il monaco. E menomale. Passato l'impatto con la coperina, orrenda, scopriamo l'album di David Leonard, che non dispiace affatto. Come al solito, ci si starà chiedendo : David chi? Me lo sono chiesto anch'io. Mr. Leonard è un veterano della scena newyorkese, che nelle ultime tre decadi ha abitato nelle vesti di musicista/turnista collaborando con artisti del calibro di James Cotton, Cindy Lauper (?) e Chuck Berry, nientemeno, anche se i musicofili gli riconoscono merito soprattutto per essere uno storico membro della touring band di Richard Lloyd. The Quickening è il secondo lavoro tutto suo (il primo è datato addirittura 1984), anche se durante le sessions si è avvalso della collaborazione di volti piuttosto noti a Nuova York, tra cui Chris Spedding e Rick Derringer. Dieci tracce, di cui sette originali, oscillanti tra potenti pop rockers da top fourty e ballatone sentimentali e corpulente. L'accostamento, molto pericoloso e avaro di soddisfazioni nella maggior parte dei casi, qui riesce per l'esperienza dell'autore, a cui la situazione non sfugge mai di mano evitando pertanto derive nell'epica magniloquente. La trascinante ballata The Ship Has Sailed ed il poderoso rock melodico dell'upbeat ed iniziale True Tonight risultano essere gli episodi migliori di un lavoro completato dalle cover di She's A Woman dei Beatles, rimodellata in versione ultraestesa, del classico Dylan di My Back Pages e di una versione acustica di I Had to Tell You, originariamente pensata e scritta da Roky Erickson. Tra l'altro, David risulta essere stato il primo chitarrista dei nostri adorati Brilliant Mistakes (il loro album è stato secondo nella classifica dei migliori dischi del 2008) e questo ce lo rende ancor più simpatico. Un ascolto dateglielo senza paura. (www.cdbaby.com/cd/dleonard)

Chris Murphy - Look at This/Remember That (2010; Big Radio). Spesso, quando si parla di pop australiano, da qualche parte c'è lo zampino di Michael Carpenter. Autore di spessore mondiale, produttore extraordinaire, turnista ricercatissimo. E, ultimamente, proprietario di etichetta indipendente. Due uscite, appunto, per la Big Radio records, e sembra superfluo dirlo, ma fossi in voi approfitterei del pretesto natalizio per mettervele subito in casa senza stare a pensarci su troppo. La prima è chiamata Look at This/Remember That ed accreditata a Chris Murphy, uno che, tanto per rendere l'idea, da anni se ne va in giro accompagnato dalla nomea di "miglior vocalist dell'area di Perth". Il disco è precisamente una sorta di compilation, dove alcuni nuovi brani sono accostati con maestria a vecchie canzoni, a loro volta ri-arrangiate e smaltate di nuova produzione da Michael Carpenter medesimo. Per quanto riguarda i contenuti, siamo al cospetto di una collezione di brani ispirati al più classico vocal rock radiofonico, con proprietà così attrattive e popolari da poter essere apprezzato in egual misura dal rocker e dalla massaia. Trattasi di complimento, questo è chiaro. L'approccio può essere smaccatamente pop (Your Pretty Little Head), più chitarristico (l'iniziale Here She Comes), o addirittura filo-blues (Come and Get Me), ma l'anima, il soul, è sempre in primo piano (The Bigger They Are). Se in Australia è considerato un grandissimo, un motivo ci sarà. Come detto, buono per grandi e piccini. (www.myspace.com/chrismurphy)


Michael Carpenter & the Cuban Heels - The Incomplete Cuban Heels (2010; Big Radio). La seconda uscita targata Big Radio è invece quella dei Cuban Heels, il nuovo progetto di Carpenter, che dopo una manciata di EPs in edizione limitatissima ripropone finalmente quei brani in un unico lavoro "lungo" intitolato The Incomplete Cuban Heels. Incomplete nel senso che i brani provengono da tre recording sessions avvenute tra il 2008 ed il 2010, durante le quali vennero registrate, rigorosamente in presa diretta, venti tracce. Solo undici compaiono su questo lavoro, ma che qualità! Premesso che con Michael si va sempre sul sicuro, in questo caso ci troviamo di fronte ad un'opera alt.country di grandissimo valore, dove le migliori influenze che dal Dylan dei medi sixties attraversano tutto Tom Petty per arrivare ai Wilco di Yankee Hotel Foxtrot sono qui presenti in forze. Aggiungiamo che il tutto è cantato, alla grande come sempre, da Michael, fatto che conferisce quell'inimitabile tocco pop che tutti noi, nessuno escluso, abbiamo imparato ad amare. (www.myspace.com/michaelcarpenter)

Hans Rotenberry & Brad Jones - Mountain Jack (2010; autoprodotto). Infine, da Nashville giunge una notizia che definirei assolutamente esplosiva: Hans Rotenberry, noto alle cronache per essere stato il leader dei favolosi Shazam e il mitico produttore Brad Jones (tra le sue opere dischi di Cotton Mather, Imperial Drag, Matthew Sweet, Marshall Crenshaw) hanno unito i rispettivi, raffinatissimi cervelli e registrato un disco chiamato Mountain Jack. L'album per ora è disponibile esclusivamente in formato digitale e reperibile tramite i consueti retailer del settore. Scaricato immediatamente, ascoltato un paio di volte. Non basta per tentare una descrizione esaustiva, ma è più che sufficiente per dire, con ragionevole margine di approssimazione, che il "disco" sarà irrimediabilmente molto ben classificato, quando (e se) preparerò le classifiche di fine anno. Dovrò ascoltarlo ancora molte volte e lo farò con estremo piacere ma gente, sappiatelo, qui c'è puzza di bomba. (www.uh-guhmusic.blogspot.com)

giovedì 2 dicembre 2010

Disco del Giorno 02-12-10: Mark Bacino - Queens English (2010; Dream Crush)

I fanatici di pure pop che già da qualche anno bazzicano la scena non si limitano a “conoscere” Mark Bacino: lo considerano una superstar. Status che francamente, e si intenda l’ammirazione per il soggetto, non poteva che meritarsi dopo aver dato alle stampe due tra i migliori esempi fonografici (Pop Job…The Long Player nel 1998 e The Million Dollar Milkshake nel 2003) di questo sotto-sottogenere musicale. Avuto riguardo alla discografia, e constatato dunque che Mark mancava dalle scene da un bel po’ di tempo, non possiamo che accogliere con soddisfazione il terzo pezzo del lotto, intitolato Queens English ed edito dalla Dream Crush records.

Lavoro da anni nel mondo della musica, e principalmente lavoro per gli altri. Produco altri gruppi, arrangio brani altrui, ho delle scadenze da rispettare. Qualche anno fa tutto ciò ha iniziato ad andarmi stretto, mi sentivo strangolato dal business e non riuscivo più a percepire l’arte per come dovrebbe essere intesa. Avevo bisogno di spazio per me stesso e così ho deciso di dedicarmi ad un nuovo album tutto mio, senza pressioni, senza dover avere l’approvazione di nessuno. Volevo tornare a scrivere musica per pura passione, e questi sono i risultati”. I risultati confluiscono in un grande disco per intenditori. Senza snobismi, ma vale la pena ammetterlo. Un disco che dalla traccia tre, subito dopo la title-track, è talmente leggero che per poco non decolla, ma non si fraintenda il significato dell’affermazione. Un luogo comune tra i più atroci usa affermare che la musica leggera è per tutti i gusti e tutte le orecchie ma, che diamine, c’è musica leggera e musica leggera. Mark Bacino scrive AM pop ispirato agli anni ’70, quando ancora l’AM pop era una cosa seria. Lo inquadra in un contesto cittadino e newyorkcentrico, la Grande Mela essendo lo sfondo prediletto dalle undici tracce qui presenti. Un disco leggero, certo, ma sofisticato come pochi.

La title-track, dicevamo, apre di fatto le danze in un tripudio di powerpop dal volume alto, palesemente dedicato ai più pervicaci fans di certi Cheap Trick per un episodio da un paio di minuti scarsi che finisce per dimostrarsi il momento più sostenuto dell’intera opera. Perché da li in poi si parla decisamente un’altra lingua, fatta di docili trame strutturate in modalità-racconto e di un’ aggraziata sintassi che, sostenuta da una gamma musicale davvero varia e di gran livello, pesca a piene mani dal top della cultura popolar-musicale. Si veda Happy, riflessione personale e mattutina a lieto fine, con quegli effetti cinematici e cartoneschi che fanno tanto Randy Newman; oppure, per quel che vogliamo dimostrare, si ascolti Angeline & the Bensonhurst Boy ed il suo saltellante midtempo da balera trapunto di inebrianti fiati. Per togliere eventuali dubbi che inspiegabilmente fossero ancora presenti presso chi ascolta, sarà sufficiente dare una chance alla favolosa Bridge & Tunnel che, ne siamo sicuri, riscuoterebbe un convinto applauso se dovesse pervenire all’udito di Harry Nilsson, sissignori: liriche argute, classe da vendere e da spendere, ed un frammento AM pop da antologia del genere. Per sicurezza, inoltre, non sottovaluterei l’accoppiata formata da Muffin in the Oven e Who Are Yous, entrambe marchiate a fuoco da una caratteristica, e cioè la capacità di inserire grandi canzoni pop in un’atmosfera da musical, che Mark possiede e che già, a parere di chi scrive, rese Million Dollar Milkshake, il suo penultimo lavoro di studio, un grandissimo album.

Chiuderei la rassegna dei consigli con un omaggio ad un grande brano che forse tende ad uscire un po’ dal contesto. Blue Suit cambia di certo il feeling generale, è decisamente angolare rispetto alle compagne di viaggio, ma è omicida e sensuale come solo le grandi ballate sanno essere. Del resto, Mark Bacino non è uno che vende dischi tanto per venderli, né tantomeno scrive canzoni tanto per scriverle. E’ un tizio parsimonioso, Mark, e pazienza se tra un lavoro e l’altro possono passare anche sette lunghi anni. Sarà il massimo della banalità ma l’attesa, al cospetto di dischi come Queens English, è dolce e ci sta tutta; affrettare i tempi, quando i risultati finali sono questi, non è proprio il caso.

giovedì 25 novembre 2010

Quirky Thursday.

Due album stimolanti e bizzarri per lanciare il fine settimana.

Flav T Mastrangelo - Things I Lost (2010; Tubular). Flavio Torzillo è stato il batterista dei grandi e compianti Suinage, scioltisi la scorsa primavera pochi mesi dopo aver pubblicato l’eccellente LP Shaking Hands, recensito con entusiasmo da UTTT. Mentre l’avventura del terzetto canturino volgeva tristemente al termine, Flavio licenziava il proprio album di debutto con lo pseudonimo Flav T Mastrangelo, intitolato Things I Lost ed edito dalla milanese Tubular records. Il disco racchiude undici tracce simboleggianti tumulti interiori, appunti scritti di getto su postit attaccati qua e là, pomeriggi autunnali passati in cameretta con la chitarra (ed il synth) in mano e le tapparelle abbassate. Niente compromessi, solo necessità espressiva ed undici belle tracce che, introdotte dalle atmosfere elettroambient di A Sign of Devotion, svariano senza imbarazzo e sorprendente efficacia tra l’Evan Dando post Lemonheads di Better Than I e della mirabile She al pop filtrato dall’esperienza new wave di I Wouldn’t Try To Tell You; dall’elettronica variamente sfaccettata di Make Me Happy e Someday all’esperienza black che certamente si intravede scorrendo i paragrafi di Surrender. L’iperrealismo da cameretta della conclusiva I’m Not a Man e soprattutto la sublime filastrocca intitolata Serenade completano degnamente un disco personale, anarchico, fuori mercato. E proprio per questo dolcissimo. Rispetto. (www.myspace.com/flavtmastrangelo)

Lo-Fi Resistance - A Deep Breath (2010; Sound Language). Altro disco che definirei strano, ma di uno “strano” certamente diverso, è quello scritto, suonato e prodotto da Randy McStine, l’uomo (vista la giovanissima età, sarebbe forse meglio definirlo ragazzo) che si cela dietro all’ambizioso progetto Lo-Fi Resistance. Conviene subito fissare un concetto: A Deep Breath, questo il titolo dell’album, non è necessariamente un’opera per tutti i gusti. Ma il disco è talmente originale e, passatemelo, ardito, da meritare senz’altro più di un ascolto ed almeno un plauso. McStine è un talento naturale avvezzo alla scrittura hard pop, sempre che la definizione abbia un senso; un certosino del lavoro chitarristico e dell’architettura musicale tutta. Certo, ogni tanto vezzi e vizi virtuosistici si palesano con eccessiva nonchalance per i miei gusti ma tant’è, talvolta bisogna portare rispetto alla musica per quella che è, senza giudicarla per come vorremmo che fosse. In ogni caso, ed immagino sia ormai chiaro, il disco dei Lo-Fi Resistance è fatto di undici tracce di ricercato pop altamente progressivo, caratterizzato dall’ottimo songwriting di McStine il quale, durante quest'avventura, è accompagnato da Dave Meros e Nick Di Virgilio degli Spock’s Beard . Proprio gli Spock’s Beard, insieme a tutte le bands deviate dall'esperienza King's X, sono chiare influenze per il songwriting di Randy soprattutto in omaggi prog-hard-pop come Too Simple e Moral Disgrace, ma anche negli episodi di ancor più dura scorza ome Embrace. A tratti esce una più marcata vena melodica (si ascoltino l'acustica All We Have e la conclusiva Wasted), e l’episodio migliore è rappresentato da Hello New Star, dove pare di sentire i Jellyfish catapultati nei medi seventies. Disco consigliato solo ai cultori del genere ed a chi – come molti di noi – non è disposto a farsi condizionare negativamente a prescindere da lavori non convenzionali. (www.myspace.com/lofiresistance)

mercoledì 17 novembre 2010

Brutte notizie, powerpoppers.

Bruce Brodeen ha fondato la Not Lame records sedici anni fa, nel 1994, con la precisa intenzione di diffondere il verbo powerpop, quando in pochissimi ne parlavano e - come dichiarato da Jordan Oakes, intervistato su queste pagine il mese scorso - quando chi ne parlava bene non ci faceva esattamente una bella figura. Bruce operava su due livelli: la Not Lame, infatti, è stata un'etichetta discografica, meravigliosa, con più di duecento uscite in catalogo comprendenti una sostanziosa parte della crema del pop chitarristico anni '90. Al contempo, la Not Lame era un mail order, che nel corso degli anni ha aiutato migliaia e migliaia di artisti indipendenti a "far vedere alla propria musica la luce del sole". Non sono mai stato bravo a quantificare, ma se dico che dalla Not Lame ho comprato centinaia di dischi dico il vero. Ricordi, tanti. In primis, l'attesa e l'eccitazione dei miei lunedì e venerdì sera, classiche vigilie settimanali dell'aggiornamento del sito. Ora è tutto finito. Bruce, con un video indirizzato ai suoi supporters, ha confermato che il 24 Novembre 2010, mercoledì prossimo, sarà l'ultimo giorno di vita per la leggendaria etichetta di Ft. Collins, Colorado. Le motivazioni alla base della dolorosa scelta sono molte, ma si intuisce che la crisi del settore discografico (che nel mondo delle piccole etichette sta mietendo vittime in serie) ha la responsabilità più elevata.

La notizia è una solenne mazzata per chi, come il sottoscritto, è stato un fedele ed ortodosso discepolo di Bruce. E non so che dire, se non grazie, di cuore, per aver contribuito in modo fondamentale alla mia crescita culturale, in ambito musicale e non solo. Senza la Not Lame, probabilmente Under the Tangerine Tree non sarebbe stato lo stesso blog.
Buona fortuna, Bruce, e grazie di tutto.

lunedì 15 novembre 2010

Disco del Giorno 15-11-2010: William Duke - The Sunrise and the Night (2010; Kool Kat)

Povero blog, troppo poco tempo per lui, neanche gli ho fatto gli auguri per il terzo compleanno. E troppi dischi giacciono sulla scrivania in attesa di attenzioni che tardano ad arrivare. Troppe, infine, ed ormai consuete, scuse da far pervenire agli artisti che pazientemente aspettano da UTTT un segno di vita. Portate pazienza, per ora è così, più avanti speriamo vada meglio. Non è che nel frattempo i dischi belli abbiano smesso di uscire, anzi. Quello di cui finalmente riesco a parlare oggi, infatti, è una meraviglia totale, un raggio intenso di luce, un arcobaleno imprevisto nel bel mezzo di questo fradicio autunno. Manco a dirlo, il timbro sul retrocopertina reca l'effige della Kool Kat, label che, noncurante della crisi del settore, continua a rilanciare con uscite sempre più incantevoli.

Ma chi è William Duke? William è il nocchiere del progetto Bye Bye Blackbirds, poppers californiani che già un paio di volte, recentemente, hanno avuto modo di farsi apprezzare da queste parti. Già autore anni orsono di un riuscito album solista (The Ghost That Would Not Be - 2005), William deve avere nel tempo accumulato tonnellate di materiale d'alto pregio e non deve aver trovato buone ragioni per non pubblicare un altro disco in intimità, accompagnato da pochi amici fidati e trovando un sicuro alleato nel nel nobile animo di Ray Gianchetti. Risultato? Pop californiano erudito, luminescente, arioso. Scritto da Dio. E viene da pensare che questo 2010, che inaspettatamente è in pratica già finito, abbia avuto un occhio di particolare riguardo per il sunshine pop d'avanguardia, essendo i lavori di Seth Swirsky e quello di William nostro due mirabili candidati a posti d'eccellenza quando sarà tempo di compilare le classifiche di fine anno.

The Sunrise and the Night, dunque. Pop californiano che accarezza i territori sunshine senza però risultare precisamente identificabile, setacciato da momenti di serena introspezione che conferiscono al lavoro un nonsochè di intimo, di personale, di magico. It's Only the Beginning non poteva che aprire il disco, in modo soffice, grondando sentimento ed umori acustici. Formando, in coppia con The Great Escape, traccia numero tre, un binomio di ambientazione sixties folk come non ne se ne sentiva da tempo immemore. Tuttavia, il lato introverso di William è compensato dalle esplosioni colorate che fanno di Sunrise and the Night, come anticipavamo, un disco essenzialmente "California pop". Pop californiano mai eccessivamente faceto ma comunque estremamente brillante, tinteggiato da mille idee e decine di rivoli armonici. Tra le perle della collezione, svetta senz'altro Keep Me In Your Thoughts, calata nelle atmosfere del Golden State negli anni 70 ma reinterpretata alla maniera di Linus of Hollywood. Poi, citazioni più che doverose per A Moment in the Sun e per la title-track, che insieme compongono un'accoppiata west-coast sound da perdere la testa; per The Impending Happiness, che come prima immagine evoca Lennon, se Lennon dopo i Beatles si fosse trasferito a Frisco invece che a New York; per la sublime You're Young and You'll Forget, precisa intersezione tra atmosfere sunshine ed istinti country alla maniera dei migliori Pernice Brothers.

The Sunrise and the Night è un disco intenso, che non molla le emozioni dall'inizio alla fine; viscerale e al limite un pizzico frammentario, ma proprio per questo teso ed emozionante come poche altre cose quest'anno. Un disco che potrebbe fallire, attenzione, al primo tentativo, ma sul quale non insistere sarebbe criminale. Un tesoro nascosto. Forse quello nascosto meglio tra i migliori dischi in assoluto di quest'anno.

lunedì 18 ottobre 2010

INTERVISTA ESCLUSIVA: JORDAN OAKES!

Da un pò di tempo pensavo di istituire una sezione interviste sul blog, ma un pò per mancanza di tempo, un pò per pigrizia, ho continuato a rimandare il proposito. Nonostante tutto alla fine mi sono deciso, e le prime domande le ho rivolte a Jordan Oakes. Chi è Jordan Oakes? Semplicemente, colui che negli anni '90 creò la fanzine Yellow Pills, la prima rivista in assoluto dedicata esclusivamente al powerpop. Yellow Pills fu seminale, e permise a centinaia di appassionati in giro per il globo di scoprire artisti sconosciuti, ma soprattutto pose le basi per quella che pochi anni dopo - con l'avvento del web - diventò una sorta di comunità pop. Ispirati dalla fanzine, nacquero i 4 volumi (più uno "postumo") delle omonime compilations, che a detta di molti - ed a buona ragione - in brevissimo tempo diventarono la bibbia del suono powerpop. Jordan Oakes e Yellow Pills, una storia che è già leggenda. Sono orgoglioso di iniziare da lui il "capitolo interviste".

Under the Tangerine Tree: Immagino che tu sia un fan, prima di essere un giornalista musicale. La domanda che faccio sempre in questi casi è: come sei cresciuto "musicalmente"? Voglio dire, c'erano appassionati nella tua famiglia o sei un "autodidatta"?

Jordan Oakes: I miei genitori avevano a casa alcune colonne sonore incredibili come quella di "Midnight Cowboys" ed erano dei discreti appassionati di Burt Bacharach. Il primo album tutto mio, avuto in regalo, è stato "Why" di Donny Osmond! Nello stesso periodo misi le mani su un paio di album della K-Tel (etichetta internazionale nata negli anni '70 con base in Canada - ndr), ed in questo senso mi innamorai perdutamente di una particolare versione del classico "I Think I Love You", rifatta dai Funnies, un oscuro gruppo K-Tel dell'epoca, molto meglio dell'originale della Partridge Family. Inoltre, sempre parlando della prima adolescenza, ricordo di aver amato alla follia la colonna sonora di "The Jungle Book", mentre il primo gruppo pop che amai veramente furono i Carpenters. Il comun denominatore delle mie preferenze è sempre stata la melodia. Ho sempre adorato le melodie ossessive, ma non ho avuto niente a che fare con il rock'n'roll fino ai 17 anni, quando per la prima volta ho sentito i Beatles, che da allora - immagino non sia una sorpresa - sono rimasti il mio gruppo preferito.

UTTT: Ti sei laureato in giornalismo all'università Webster di St. Louis. Quando hai capito che scrivere di musica sarebbe stato il tuo vero lavoro?

JO: Beh, mi è sempre piaciuto scrivere, ed ho sempre pensato che scrivere è estremamente più facile quando l'oggetto trattato rappresenta anche una grande passione. Ho iniziato a scrivere per piccole fanzine, e 16 anni fa è stato quando sono stato pagato per la prima volta. Da allora ho sempre fatto quello per vivere.


UTTT: Hai creato Yellow Pills nell'estate del 1990. Com'era la scena pop a quel punto? Molti appassionati ritengono che il tuo giornale sia stato uno dei motivi principali della rinascita di "quel" tipo di pop music negli anni '90, ed io, naturalmente, concordo in pieno.

JO: Innanzitutto grazie mille. Beh, semplicemente notai che non esisteva nessun magazine completamente dedicato al powerpop in quel periodo e, sapendo quanto fossero (e siano tutt'ora) fanatici gli appassionati di un certo tipo di pop, mi sembrò il momento buono per fare uscire Yellow Pills. Ho iniziato il progetto con il mio amico Rich Osmond (che poi se ne andò dopo il terzo numero) e subito notai che in qualche modo il nostro giornale servì per connettere alcuni punti sparsi della scena. Voglio dire che molti grandissimi appassionati di powerpop, che prima coltivavano la propria mania in privato, grazie a Yellow Pills arrivarono a conoscersi. E' molto importante specificare che questo avvenne ben prima che iniziasse l'era del web, e la mia fanzine anticipò quella che poi sarebbe diventata una sorta di comunità powerpop su internet. Se internet fosse arrivato qualche anno prima, oppure se avessi iniziato a pubblicare la fanzine qualche anno dopo, probabilmente Yellow Pills non sarebbe stata necessaria. Ma è stato fantastico, davvero, perchè quando tutti hanno iniziato ad usare la rete, i più grandi fans del powerpop già si conoscevano tutti grazie alla mia rivista. Se mi permetti una battuta, diciamo che internet è servito ad "ingoiare le pillole"!

UTTT: Yellow Pills, sin dal momento della prima uscita, creò un incredibile entusiasmo all'interno della comunità pop. Hai qualche ricordo in tal senso? Ricordo di aver letto da qualche parte che la gente ti considerava il custode dello scrigno powerpop.

JO: Si, qualcuno in effetti ogni tanto lo dice e ovviamente fa piacere sentirlo, ma non mi sono mai sentito un pioniere in ogni caso. Mi sono ispirato, e tutt'ora mi ispiro, ai giornalisti delle riviste che mi hanno influenzato nel corso degli anni come il New Yorker, Trousers Press e Greg Shaw, che tutti conoscete per aver creato il seminale magazine Bomp! Penso che l'evoluzione del powerpop sia un meccanismo lento e produttivo a lungo termine, ed io sono stato solo un ingranaggio. Ma sono orgoglioso del fatto che Yellow Pills sia stato il primo magazine espressamente dedicato al powerpop, in un periodo in cui il termine non era per niente visto bene. Ho sempre e solo voluto ripristinare il rispetto dovuto ad una forma d'arte splendida, e mi piace pensare di essere stato il collegamento tra la scena originale e la nuova era incentrata su internet.

UTTT: Immediatamente tutte le bands del settore volevano essere recensite da te, so che ricevevi centinaia di dischi per ogni numero. Come entravano in contatto con te in un' era ancora priva delle comodità del web? E quali erano i tuoi gruppi preferiti in quel momento?

JO: Non saprei dire con precisione come facessero a trovarmi, ma in qualche modo mi trovarono. All'inizio tutto derivava dal mio lavoro di scouting: cercavo di trovare i numeri di telefono dei miei eroi, se sapevo dove vivevano. Poi, ad un certo punto, abbiamo iniziato a ricevere tantissimo materiale promozionale, tra cui un sacco di cassette. Penso che ciò sia indicativo per far capire quanto tempo sia passato. Mi ricordo di quando ricevetti il nuovo demo dei 20/20, uno di quei momenti che ti ripagano di tutto il lavoro duro (ricordo che Yellow Pills è proprio il titolo di una canzone dei 20/20 di Tulsa, Oklahoma - ndr). Ma di momenti indimenticabili ce ne sono stati tanti. Ricordo con grande piacere le telefonate che ricevetti da Dwight Twilley e da Eric Carmen. Essendo un giornalista, anche al di fuori dell'esperienza di Yellow Pills ho avuto modo di intervistare personaggi del calibro di Hall & Oates, Todd Rundgren, persino Neil Sedaka e Martin Hamlisch, perciò ho sempre amato parlare con gli artisti che ammiro, perchè ciò mi ha dato la possibilità di chiedere loro tutto quello che avrei voluto sapere da fan. In quel periodo i miei gruppi preferiti credo fossero gli Shoes, i 20/20, i Big Star e i Game Theory. Per me, questi erano i giganti del pop, e ciò avvenne subito prima della successiva ondata di grandi gruppi come Material Issue e Posies. I Material Issue mi piacevano in particolare: il loro suono conteneva quella gioia incontrollabile che il pop dovrebbe sempre racchiudere. In quello stesso momento, poi, in giro c'erano anche gruppi come Redd Kross e Jellyfish, che interpretavano alla grande sfaccettature del powerpop completamente diverse. A quei tempi ero un fan incredibile di un album di Bill Lloyd chiamato "Feeling the Elephant" e di alcune grandi opere di Jim Basnight tipo "Need Your Love".

UTTT: C'era qualcun altro impegnato a far circolare il powerpop a quell'epoca?

JO: Sinceramente, non credo ci fossero altri magazine pop, davvero. Tutte le pubblicazioni musicali, tipo The Musician e Rolling Stone, erano di stampo "generalista", e le grandi fanzines come Bomp! e Trouser Press erano morte già da qualche anno. C'è stato un periodo di vuoto totale, diciamo.

UTTT: Bene, parliamo un pò delle compilations allora. Come ti è venuta l'idea e soprattutto: chi ti ha dato la possibilità di realizzare il progetto? Tra i fans è opinione comune pensare a quei cd come ad un'ipotetica "stele di rosetta sonica" per un'intera generazione di nuovi appassionati di powerpop. Inutile dire che, anche in questo caso, sono totalmente d'accordo.

JO: Grazie ancora. Le compilations arrivarono quando fui contattato dall'etichetta Newyorchese Big Deal. Trovarono il mio magazine in un'edicola dell'East Village e mi chiesero di selezionare le tracce per una serie di raccolte powerpop che avevano pensato di fare. Già prima avevo avuto l'idea di fare una compilation, ma sono riuscito a fare solo una cassetta a causa del ridotto budget. In ogni caso, io ho curato la parte artistica mentre l'etichetta ha pensato alle licenze, anche se, a dire la verità, il grosso del lavoro l'ho fatto io parlando con gli avvocati dei gruppi eccetera.

UTTT: La storia di Yellow Pills si è esaurita lungo dodici numeri della fanzine e quattro raccolte. Come mai hai deciso di terminare quell'esperienza? E come hai deciso di tornare nel 2004 curando la compilation intitolata "Yellow Pills:Prefill"?

JO: Guarda, credo che dopo il quarto volume le raccolte avessero portato a termine il loro compito, in quel momento non vedevo la necessità di farne un'altra. E' vero, ho smesso di occuparmi di Yellow Pills ma ho continuato ad essere presente nella comunità pop da semplice appassionato, anche se ciò può non sembrare evidente. Prefill è stato fatto per le stesse ragioni e con le medesime modalità delle precedenti raccolte, ma per una diversa etichetta. Tuttavia, credo che Prefill sia andato fuori stampa da qualche mese e che sia esaurito (vero, alcune copie compaiono di tanto in tanto su eBay a prezzi da paralisi - ndr). Ne esistono due edizioni, pensa che sulla copertina della prima c'è la mia cassetta delle lettere!

UTTT: Esistono ancore copie disponibili della fanzine?

JO: Credo di avere da qualche parte alcune copie degli ultimi numeri. I primi sono tutti andati.

UTTT: E' il 2010 ed il mondo della musica mainstream è dominato dall'hip-hop, da Lady Gaga e dall'immondizia che spaccia MTV, ma nonostante tutto ci sono ancora in giro un sacco di artisti validi. Quali sono i tuoi preferiti attualmente?

JO: Onestamente, sento di non essere così tanto "in contatto" con la miglior musica pop attuale come dovrei essere, per diverse ragioni. Considera questo: ai tempi di Yellow Pills non era facile trovare dischi powerpop. Era difficile conoscere gruppi oscuri, bands locali ed era molto difficile trovare gli album perchè tantissime cose erano fuori stampa. Le ricerche avvenivano specialmente ai mercatini dei collezionisti o dell'usato, e ricercare 45 giri powerpop era sempre un brivido. Ora tutto si è spostato nella direzione opposta: ci sono tantissimi gruppi pop e alcune tra le vecchie glorie stanno ancora registrando. Ci sono festival powerpop molte volte all'anno (pensate all'International Pop Overthrow di David Bash) ed almeno due compagnie discografiche sopravvivono vendendo esclusivamente powerpop. Penso che tutto ciò sia fantastico, ma per me è difficile restare al passo con tutto. Perciò penso che ci siano in giro moltissimi grandi gruppi e tantissimi artisti talentuosi, ma non riesco a pensare all'esempio perfetto. Capisci cosa intendo? Devo dire che sono ancora molto più legato alle cose vecchie e non mi sono mai "evoluto" davvero.

UTTT: Nella comunità powerpop la tua collezione di dischi è quantomeno famosa...Vuoi dirci qualcosa a riguardo?

JO: Allora, ho talmente tanti dischi che recentemente ho deciso di iniziare a vendere molte cose su eBay. Ci sono moltissimi dischi da cui non mi separerò mai, ma ho anche tante cose che reputo superflue, mentre ci sono dischi che mi piacciono ma di cui posso a fare a meno. Credo si tratti di una sorta di ridimensionamento, voglio essere compatto, come una pop song!

UTTT: In conclusione, ringraziandoti, vorrei conoscere...I migliori 10 album powerpop secondo Jordan Oakes!

JO: Se ti devo dire la verità, per me la musica pop è sempre stata fatta più per i singoli che non per gli album...In ogni caso, in ordine casuale, i successivi sono i miei dieci LPs powerpop preferiti:

Dwight Twilley "Sincerly"

20/20 "st"

The Shoes "Tongue Twister"

The Db's "Stands for Decibels"

Big Star "Radio City"

Badfinger "Wish You Were Here"

Game Theory "Real Nighttime"

Il Greatest Hits dei Raspberries

Material Issue "International Pop Overthrow"

The Smithereens "Especially for You"

Vorrei poi citare altri tre dischi che adoro, come "1+1" di Grin, l'omonimo album degli Electric Hippies e "Where It's At With the Wind" dei Wind. La classifica è sempre soggetta a cambiamenti, ma probabilmente per non più del 33%!

Grazie mille per le fantastiche domande!

venerdì 24 settembre 2010

Disco del Giorno 24-09-10: Miss Chain & the Broken Heels - On a Bittersweet Ride (2010; Screaming Apple)

Tre singoli a 45 giri sparsi tra il 2008 ed il 2009. Poi tour italiani, europei, americani, due, di cui uno appena conclusosi dopo una ventina di date spese sulla costa occidentale. Il bagagliaio pieno di esperienza l'avevano, si trattava di infilare nell'autoradio un disco lungo, puntualmente arrivato. On a Bittersweet Ride rappresenta l'esordio sul formato 33 per il combo bergamasco/vicentino e, scusate la banalità, che esordio. Di suonar rock'n'roll son capaci tutti, soprattutto se di rock'n'roll minimale si tratta; poi, riuscire a divertire l'ascoltatore è una meta che in pochissimi raggiungono, e quei pochissimi dovrebbero essere evidenziati come meritano. Figuriamoci se si parla di Miss Chain & the Broken Heels poi, tra i pochissimi degni interpreti di un sottogenere musicale (il pop'n'roll), che in Italia non ha mai raccolto proseliti. Gruppi come questi, nella penisola, sono specie protette proprio perchè assolutamente demodè, fatto che ce li rende, se possibile, ancora più cari e che, sfortunatamente per loro, sarà garanzia di anonimato duraturo negli ambienti che contano del giardino di casa.

Il disco, una bomba, è licenziato dalla Screaming Apple, grandissima etichetta teutonica che da più di quindici anni delizia chi, come noi, si è sempre trovato a proprio agio in quell'intersezione sonora dove il garage ed il rock'n'roll di base incontrano il powerpop d'annata. E di pop'n'roll all'ennesima potenza stiamo parlando, un pop'n'roll piantato con la testa e con la mente in un passato invecchiato alla grande, senza rughe, vivace come un bambino al parco giochi, frizzante come una mattinata sull'oceano. Miss Chain ed i suoi tacchi rotti non suonano garage, non suonano powerpop, non suonano rock'n'roll puro: il loro è un impasto che sconvolge tutto ciò e lo ripropone in salsa - i ragazzi non me ne vorranno - praticamente beat. Si, l'ho detto e lo confermo: per quanto mi riguarda (e a ragion veduta, avendoli osservati anche qualche volta dal vivo), Miss Chain & the Broken Heels sono un gruppo beat, e questo è meraviglioso.

Per la precisione, Astrid (voce e chitarra), Disaster Silva (chitarra solista), Franz (basso) e suo fratello Brown (batteria), sono un gruppo di beat puramente anni sessanta che strizza più di un occhio alle pop bans femminili della golden age, aggiungendo una spruzzata di powerpop (powerpop ante-littream, per la precisione) che conferisce ai brani un pizzico (solo un pizzico) di modernità e potenza ritmica in più. Per rendere l'idea, qualora non fosse chiaro, fantastici ed eccitanti brani quali Roallercoster, Mary Ann, Flamingo (la mia personale favorita) e Common Shell rappresentano plasticamente quello che sarebbe potuto succedere se Shivvers e Go Go's fossero state sorprese a coverizzare i best-of di Shangri-La's, Chiffons e Crystals. Per staccare, in un paio di occasioni (soprattutto durante Old Man e Save Me) viene a galla la passione per certa americana-pop di cui alcuni membri del gruppo sembrano essere grandi fans, ed il tutto non fa che giovare alla riuscita di un disco veramente godibile, nell'accezione migliore del termine.

La scena italiana, quella vera, lontana dall'immondizia edulcorata del Mi-Ami e di Rock-it sta lentamente ma inesorabilmente rinascendo, e gruppi come Miss Chain & the Broken Heels ne sono una straordinaria dimostrazione. Tutto sommato, non credo serva aggiungere molto altro per convincervi a mettere le mani su uno dei dischi più divertenti, sbarazzini ed entusiasmanti di questo 2010.

sabato 18 settembre 2010

Disco del Giorno 18-09-10: The Shamus Twins - Garden of Weeds (2010; autoprodotto)

Un ottimo album omonimo nel 2004, svariate partecipazioni a compilation di settore, un disco solista, recensito su queste pagine un paio di anni fa, da parte di Tim Morrow, uno dei due boss della band. Questo, grossomodo, l'apprezzabile contributo alla causa powerpop apportato dagli Shamus Twins, gruppo che, dopo lunghissimo periodo di pausa e varie anticipazioni, alla fine è tornato con il secondo studio album della carriera, intitolato Garden of Weeds. Un disco solido, breve, senza cadute di tono, che naviga sicuro nelle proprie acque territoriali senza disdegnare qualche divagazione in termini di tono, genere ed atmosfera. Generalmente amo lavori di questo tipo: un disco, se deve durare due ore, deve avere valide giustificazioni, altrimenti, meglio mezzoretta intensa, non c'è che dire.

Garden of Weeds è, in sostanza, il parto di Tim Morrow, una vecchia conoscenza da queste parti, e Jerry Juden. Due vecchi amici, compari, collaboratori, e si sente, eccome. Disco solido, dicevamo, grazie anche e soprattutto all'affiatamento degli autori, che si riflette sia nelle armonie vocali, molto ben intersecate, sia nella scrittura (ognuno contribuisce per la metà dei brani), che risalta per ingegno e si riflette nella coesione dei vari frammenti nel risultato complessivo. L'album si apre con il classico, cristallino powerpop di You Know My Name, brano liberamente ispirato agli albori del fenomeno skinny tie inglese e che sarebbe stato a pennello, fosse stato scritto trent'anni fa, su Music on Both Sides. Chi si aspettasse, a questo punto, un filotto di canzoni omogenee rimarrebbe tuttavia deluso. Morrow e Juden, infatti, sembrano nutrire un amore viscerale per certo rock'n'roll tradizionale ed infarcito di soul, e ne riempiono la pancia dell'album con il trittico I Never Been Happy/I Know I Know/Did You Have to Change, sorta di triangolo rituale tributato alle origini della musica giovanile. Nondimeno, la band raccoglie i più convinti consensi quando riallaccia i rapporti diretti con il pop chitarristico di base, ed allora gli applausi li meritano Ain't Letting Go e A Picture of Her, che trasudano essenza di jangle rock sudista e ricordano l'esperienza di Tim Lee, Bobby Sutliff e dei Windbreakers tutti. Oppure la similare, ma più dolce e meno sofferta Life is Strange, già apparsa sul nono volume della serie International Pop Overthrow nel 2005. L'ovazione, permettetemelo, è però tutta per la title-track, vero tributo, amorevole e riuscito, al Sergente Pepper ed alla sua band di cuori solitari.

Garden of Weeds è un bel disco, breve, saldo e convinto. Pensato e scritto da gente che preferisce la sicurezza della qualità opposta ai rischiosi fronzoli del superfluo, e ciò è molto positivo. Certo, nemmeno la comunità di appassionati sembra essersi accorta degli Shamus Twins, e questo è un peccato. Perchè band così, non posso fare a meno di dirlo, mi ricordano sempre i ciclisti come Oscar Freire: non ti accorgi della loro presenza, ma alla fine della gara, in classifica, li trovi sempre nelle prime posizioni.

giovedì 9 settembre 2010

Disco del Giorno 09-09-10: The Offbeat - In Love Field (2010; autoprodotto)

E' bello fidelizzarsi ad una band. Gli Offbeat, ospiti per la terza volta sulle pagine di UTTT, da queste parti sono ormai di casa. Un paio di anni fa, i più antichi lettori lo ricorderanno, parlavamo dell'omonimo album di debutto del trio britannico, mentre giusto la scorsa estate analizzavamo To the Rescue, quinto classificato nella top ten degli ep 2009. In Love Field, il nuovo lavoro lungo firmato dai celebri Darren Finlan, Tony Cox e Nigel Clark, riprende da capo il discorso interrotto da To the Rescue, ed ora vi spiego perchè. Il nuovo album è nei fatti una versione estesa dell'ep 2009, inizia con gli stessi 5 pezzi e ne aggiunge altrettanti, ma guai a sfiorare con il pensiero il fatto che si tratti di una mossa commerciale. I motivi li chiarisce Finlan, quando afferma che "tutti e dieci i brani di In Love Field fanno parte di un discorso univoco, un'unica trattazione sulle varie sfaccettature dell'amore. Ogni frammento, ogni traccia, ha un preciso significato singolare, ma allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle complessivo. Ecco perchè abbiamo deciso di inserire i brani dell'ep: non ci fossero stati, il disco avrebbe perso qualsiasi significato".

Premesso ciò che era doveroso premettere, mi sembra scolastico (è la terza volta che lo faccio) trattare i contenuti veri e propri di un altro ottimo disco griffato dall'affidabilissimo combo britannico. L'amore sviscerato ed analizzato sotto dieci diversi aspetti, certo, contenuti in dieci involucri di prezioso, tipico merseybeat solare per aficionados della materia. Songwriting classico e voci competenti interpretano frammenti di uno stile che mai ci stancheremo di incensare. Per chi non avesse avuto modo di ascoltare l'extended play dello scorso anno, ricordiamo che ne fecero la fortuna piccole pepite come la scintillante She Can Make the Sun Shine ed il suo classico impianto da sing along del periodo mid-Beatles. Poi Blue Sky, dove gli Offbeat imprimono a fuoco il loro marchio di fabbrica fatto di tradizionali standard Mersey illuminati da luce californiana e soprattutto Something About the Girl, clamoroso esempio di powerpop ante-litteram, uno dei migliori brani ascoltati in tutto lo scorso anno.

Chiarito il fatto che i brani citati, da soli, farebbero la fortuna di tantissimi album mediocri, Finlan e compagnia decidono di spaccare il cappello e di arricchirli con cinque canzoni di purezza astrale, e di raggiungere con esse le vette del loro livello compositivo. Citiamo, ad esempio, Where is the Girl, a parer mio il momento migliore dell'album, dove già dalle primissime note si intravvedono la compostezza e la confidenza melodica dei migliori Turtles. Sissignori, trattasi di vocal pop al suo meglio! E che dire della straordinaria When You Got Love? Che il suo midtempo, sottofondo ad intrecci armonici davvero sontuosi, porta alla mente ed al cuore il mai dimenticato ed omonimo album dei leggendari Blue, chi ha orecchie per intendere intenda. Con Word to the Wise e A Love to Last, la coppia di tracce successive, torniamo ai tempi dei tradizionali profumi merseybeat, fatti di paradigmi semplici, tempi da balera e poster di Mindbenders ed Herman's Hermits in cameretta.

La conclusione è affidata a Jennifer Sometimes, un acustico McCartiano perfetto per suggellare un disco che, in dosi molto generose, regala all'ascoltatore proprio quello che l'ascoltatore si aspetta e forse qualche cosa di più. Perchè va bene lo stile, ma alla fine, poi, contano le canzoni. Passo e chiudo con un avviso ai naviganti: coloro che già fossero in possesso dell'ep To the Rescue non si preoccupino. E' vero che ascoltando In Love Field riconosceranno cinque "vecchi" brani, ma Finlan e soci hanno ovviato al problema vendendo il disco al prezzo di un extended play. Un buon motivo in più per supportare, oltre che la musica indipendente, l'onestà intellettuale di tre ragazzi per bene.

sabato 28 agosto 2010

Disco del Giorno 28-08-10: The Britannicas - St (2010; Kool Kat)

Alcuni dischi si prendono ad occhi chiusi. Come quando si acquista un vino che non si conosce, basandosi su recensioni, dichiarazioni di amici che già l'hanno testato. Non mancando di notare, soprattutto, il marchio DOC bello stampato sull'etichetta, sinonimo di garanzia. Allo stesso modo, quando sul retrocopertina di un cd vediamo il gatto stilizzato, logo della Kool Kat records, magari non sappiamo che cosa stiamo per ascoltare, ma di sicuro sappiamo che sarà roba di qualità. Il disco dei Britannicas non fa eccezione, e se ci mettiamo pure che i tre membri della band sono personalità notissime nei salotti del powerpop-bene internazionale, il gioco è fatto. Dietro al nome Britannicas si celano infatti il chicaghese Herb Eimerman (Nerk Twins), l'australiano Joe Algeri (Jack and the Beanstalk oltre ad una miriade di progetti, anche da solista) e lo svedese Magnus Karlsson (Happydeadmen e Charade), nientemeno. I rumors vogliono che i tre abbiano assemblato l'album via internet, spedendosi l'un l'altro le rispettive parti registrate, dunque in modo non proprio ortodosso, ma valutandolo alla fine, l'omonimo debutto dei Britannicas, non si può dire che l'esperimento non sia riuscito, anzi.

Se un americano, un australiano e uno svedese decidono di chiamare la loro band The Britannicas un motivo ci deve essere. Potreste aspettarvi, come io mi sarei aspettato, una full immersion nella Swingin' London, oppure chessò un bel tuffo nel fiume Mersey, ma le cose non vanno proprio cosi. Ora, io non so quali fossero le intenzioni degli autori, e non si può dire che una certa qual influenza "Britannica", appunto, non aleggi nello spirito dei brani. Quello che penso tuttavia, è che l'album sia un ottimo esercizio di pop sessantista di impronta parecchio retrò, ma le grandi esperienze storiche che qui si ricordano sembrano essere legate massimamente alla grande tradizione folk e jangle rock americana, più che al beat di Sua Maestà la Regina. Poco male, tra l'altro, perchè il disco suona bene e fila via che è un piacere. Del resto, letti i nomi degli artisti responsabili del lavoro, di dubbi non ne avevamo.

I Byrds sono un termine di paragone irrinunciabile soprattutto nell'intensità di brani come Those Good Vibrations e Stars, ma è la percezione artistica generale a far comparire di tanto in tanto, e lungo tutto il disco, l'immagine in trasparenza di Roger McGuinn sullo sfondo. L'inghilterra, probabilmente, appare in tutto il suo fulgido splendore nel Ray Davies sound di Friday Night Alright, ma è lungo le intense cavalcate folk rock di Blue Sky Grey e di Love Trap che si percepisce il massimo livello di coesione del trio. Poi, certo, Arthur Lee nel bel mezzo di un trip garage avrebbe adorato una canzone come Girl from Malasana, e non si può, proprio non si riesce, a non adorare alla follia il torrido, cadenzato rock'n'roll da balera dell'entusiasmante Baby Say Yeah Yeah, che già dal titolo vi sfida a starvene fermi.

In definitiva, americane o inglesi che siano le vostre fonti di ispirazione primarie, sappiate che l'omonimo debutto dei Britannicas è un godibilissimo disco retrò, preciso per i molti tra noi che non si stufano mai di una bella melodia registrata in analogico. Poi, come dicevamo, ci sono autori ed etichette che si comprano ad occhi chiusi ed i Britannicas, in questo caso, sono un esempio di scuola.

lunedì 23 agosto 2010

Disco del Giorno 23-08-10: Seth Swirsky - Watercolor Day (2010; Grimble)

Si, sono stato in vacanza. Del resto, anch'io mi ero un pò stancato di stare qui. No, non sono stato in California, non ne avrei avuto il tempo. E' bastato un soggiorno nella mia adorata Provenza, con la sua cucina d'arte ed i meravigliosi litorali di Cassis e Sanary-sur-Mer, per rimettermi al mondo. La California l'ho portata con me, dritta nell'autoradio, contenuta nelle diciotto pillole di Watercolor Day, il secondo album solista di quel geniaccio chiamato Seth Swirsky, uno che il Golden Satete lo sa raccontare e, cosa più importante, riesce a fare immaginare come pochi altri al mondo.

Sei anni, vola il tempo, sono passati da Instant Pleasure, il disco d'esordio di Swirsky che, ancora e soprattutto oggi, rimane per gli appassionati un punto di riferimento, perlopiù anacronistico, di un periodo si recente ma per molti aspetti lontanissimo, dove le charts "indipendenti" erano governate da Franz Ferdinand e batterie sincopate. Nel frattempo, Seth non se n'è certo rimasto con le mani in mano. E' del 2007, a metà strada, l'ormai celeberrimo She's About to Cross My Mind, album partorito insieme a Mike Ruekberg ed accreditato allo pseudonimo Red Button, capolavoro di classico merseybeat che tre anni orsono sconvolse l'intera comunità pop internazionale. Il bello è che Seth Swirsky lo aspetti e lui arriva, come una certezza ineluttabile, spavaldo di fronte all'obbligo di dover rispettare aspettative sempre più elevate, incapace di tradire l'ascoltatore. Sfiora l'esercizio retorico, mi perdonerete, dire che il disco che stiamo trattando non fa eccezione, e che anzi si candida da subito, e prepotentemente, per un posto sul podio della classifica riguardante i migliori dischi del 2010, se mai ce ne sarà una.

Watercolor Day è un'immersione totale nell'immaginario californiano, nelle sue storie e nei suoi colori. Una retrospettiva sulla celeberrima storiografia soft pop dello stato ed un esercizio di conservazione di un sound ben definito, d'origine controllata, un'esperienza multidimensionale ed un erudito parquet sonico e colorato messo a disposizione di un songwriting tra i migliori in circolazione, ai giorni nostri ed in un dato ambito. La title-track apre l'album alla perfezione, e le tempistiche saltellanti e tipicamente americane del brano ne fanno un oggetto si prezioso, ma abbastanza raro in un contesto che comunque lo supporta alla grande. Scheggie di genio già si intravvedono, se le propulsioni pseudo-country della traccia sfociano senza colpo ferire in un potente staccato prog-pop, dove gli inaspettati fiati sono confettura davvero deliziosa. Dal brano successivo si entra invece con decisione in quello che è il vulnus del disco, ossia la California vista da un balcone alle sei di pomeriggio. Provateci, ascoltando in cuffia Summer in Her Hair. Parlavamo di esperienza multidimensionale, e se avete capite cosa intendo sarà facile calarsi nella parte ascoltandola: si sentono i colori del Big Sur e si vedono chiaramente le note che hanno fatto la gloriosa storia del sunshine pop, con le sue rigogliose armonie vocali, i lussureggianti arrangiamenti e tutto l'armamentario d'ordinanza.

Ad aumentare il coefficiente di pregio dell'album concorre la notevole co-produzione di Rick Gallego, un altro libero docente in materia di pop californiano, e l'eleganza sofisticata degli ultimi Cloud Eleven, soprattutto i Cloud Eleven di Sweet Happy Life, sembra trovare d'accordo Swirsky, che gioca nel medesimo campo mentre esegue le originali melodie di Fading Away. E se Bryan Wilson non può che essere il punto di riferimento assoluto quando si parla di west coast sound, non si può dire che l'autore se la cavi male quando strizza l'occhio all'Inghilterra. Così Matchbook Cover è melodica, ma allo stesso tempo sommessa e un pò angolare come i tardi Beatles di Abbey Road, mentre She's Doing Fine, che per la verità durante lo svolgimento della strofa deve più di qualcosa a Wilson, si destreggia tra aperture melodiche mozzafiato intarsiandole con un refrain-tributo ad All You Need is Love.

Watercolor Day si potrebbe definire un album "lungo", viste le diciotto tracce in programma, ma è talmente godibile che, ogni qual volta lo si ascolta, sembra sempre troppo corto. La costruzione del lavoro è esemplare, e Seth stacca la spina, di tanto in tanto, con piccoli "interludi" geniali come Big Mistake, breve operetta da poco più di un minuto, dove il confine tra scherzo e sottile disimpegno nei cori da bar è sottile, ma ugualmente intrigante. Anche perchè l'umorismo pensante non fa difetto a Seth, che ci riprova con successo organizzando Sand Dollar, deliziosa melodia fanciullesca, quasi giocosa, uno dei momenti più adesivi dell'intero lavoro. E non vorrei annoiare il lettore, ma scrivo tanto perchè c'è tanto da dire. Per esempio, della buona inclinazione acustica dell'autore, che diventa minimale senza perdere un'oncia di grazia ed estasi melodica in Song for Heather e Living Room, e dobbiamo ancora citare i migliori episodi di un disco - si era capito - strepitoso. In Movie Set ci sono Lennon e McCartney, rapiti e ritrovati a tarda sera su una spiaggia della California meridionale, intenti a ricordare, un pò malinconicamente, i tempi andati insieme a Pete Ham ed ai Badfinger di Wish You Were Here. In I'm Just Sayin' c'è tutta la classe di Seth Swirsky, tutto il suo amore per il sunshine pop più contemplativo, tutta la sua capacità di coniugare strofe e ritornelli pensosi con stacchi improvvisamente allegri, piccole marcette intrise di schizzi colorati, dorate passarelle verso stati d'animo nuovi e migliori.

Molti di voi conoscono bene l'autore di questo piccolo capolavoro, sanno cosa aspettarsi e di dubbi difficilmente ne avranno. Tutti gli altri sappiano che siamo alle prese con un serio contendente per il titolo di "autore dell'anno", e che Watercolor Day è il più grande disco del 2010, almeno per il momento, e con grandi possibilità di arrivare in fondo imbattuto.

lunedì 26 luglio 2010

Da mettere in valigia, (o nell' iPod), partendo per le vacanze.

Tre ottimi dischi per sopportare le code ai caselli autostradali durante questi primi veri giorni di esodo estivo.

Jackdaw4 - The Eternal Struggle for Justice (2010; Phantom). Willie Dowling è ormai, fondamentalmente, uno degli autori più rispettati dall'intero panoramo musicale britannico. I fanatici cultori di pop indipendente lo idolatrano a causa dei due primi studio album dei Jackdaw4, considerati dalla comunità sommi esempi di powerpop emancipato e maturato al sole del terzo millennio. Il jet-set se lo mangia con gli occhi già dai tempi dei fantastici e sottovalutatissimi Honeycrack, e tutti lo vogliono come autore dei propri pezzi o, semplicemente, come turnista. Tra i mille impegni, progetti, partecipazioni, Dowling ogni tanto se ne esce con un album proprio, e questo nuovissimo The Eternal Struggle for Justice la dice lunga sulla qualità sfarzosa della sua scrittura, contenuta come sempre dall'involucro di un progetto atipico e sfacciatamente ambizioso. Personalmente, volendo appiccicare un' etichetta a fianco del marchio Jackdaw4, sono sempre stato propenso a definire i contenuti come splendidi ed irrazionali esempi di pop progressivo, dove l'autore, libero da costrizioni ed allergico ai canoni, libera in una sorta di nudità artistica tutto ciò che la mente trasmette al cuore. Tra Jellyfish, Queen, XTC e mettendoci molto del proprio, ma insomma avrete capito deove si va a parare. Everyone Becomes the Road They Take e Sold It All rientrano tra le migliori recenti produzioni dell'amato filone che comprende i superbi dischi di Fun. e Bryan Scary, mentre gli episodi migliori, a mio parere rappresentati da Pornography e da The Great Unknown, sono fluorescenti e rivoluzionari esempi di post-blurismo maggiorato, se capite cosa stia intendendo. Il marchio Jackdaw4 è una garanzia, non c'è molto altro da aggiungere. (www.myspace.com/jackdaw4)

Justin Kline - Triangle ep (2010; autoprodotto). Chi segue questo blog da qualche tempo conosce Justin Kline, autore pop extraordinaire già secondo nella nostra classifica dedicata ai migliori ep del 2008. Triangle è il secondo lavoro di studio per il fenomeno di Murfreesboro, un talento tra i più fulgidi di questi ultimi anni in fatto di powerpop cantautorale. Powerpop fino ad un certo punto, poi. Trattasi di pop, certo, di pop d'autore all'ennesima potenza. Eleganza ed efficacia e quattro brani (pochi, peccato) stilisticamente perfetti e cantati come meglio non si sarebbe potuto. In particolare, vere e proprie gemme quali Allison, We Cannot Be Friends, Baby You're a Mess e Please Go Away, recuperano, basandosi su uno dei migliori songwriting melodici del momento, la purezza astrale e strettamente pop dei migliori album similari degli ultimi 5 anni. Le armonie melanconiche che in appena due ep e dieci pezzi scarsi sono riuscite a diventare il suo marchio di fabbrica sgorgano maestose, abbinate magistralmente ad un soleggiato pop di gran classe per un gioco di chiaro-scuro davvero notevole. Inutile dire che, dopo due ep, ci aspetteremmo un album, possibilmente favoloso. Su cui Justin, peraltro, stava lavorando. Peccato che i ladri, irrotti nello studio di Nashville dove stava registrando, gli abbiano sottratto equipaggiamento e, soprattutto, l'unico master con i brani del nuovo disco. Nell'attesa di registrare di nuovo, Triangle è un antipasto molto gustoso per placare l'appetito in attesa del capolavoro che verrà. (www.myspace.com/justinkline)


The New Normal - The Sprightly Sounds of the New Normal (2003; Old3C). Originariamente uscito nel 2003 ed appena ristampato dalla benemerita Old3C, The Sprightly Sounds of rappresenta il parto (per ora, l'unico) dei New Normal, sorta di super-gruppo di Seattle guidato da Mike Ritt e fomentato da ospiti quantomeno illustri quali Jim Sangster e Tad Hutchinson degli Young Fresh Fellows, mentre Scott McCaughey, che in un progetto pop di Seattle non poteva mancare, fa capolino con un paio di cameo qua e là. Il risultato, non potendo essere scadente visto il pedigree dei personaggi in questione, è un disco breve, a metà tra un e.p. ed un long player, dove Ritt e soci sciorinano il loro amore viscerale per il pop'n'roll nordamericano più spigliato e, prestando attenzione alle liriche, spiritoso. Schiacciato il bottone, si è subito travolti dal rock'n'roll rovente di Your Damn Uncle, ed il livello si mantiene torrido durante la brevissima sparata punk di Chez Me. Ritt denota capacità evidenti nell'uso del linguaggio jangle nel trittico It's Our Time/Never Never Man/(I.W.G.H.) One More Chance, e l'ottima rilettura di Keep Searchin' rende giustizia al classico di Del Shannon. Il brano migliore è in fondo, allorquando The King of Gortex ci ricorda come mai, per cosi tanti anni, abbiamo amato alla follia bands come i Fellows e gli Smugglers. (www.myspace.com/thenewnormal)

venerdì 23 luglio 2010

Disco del Giorno 23-07-10: Maple Mars - Galaxyland (2010; Kool Kat)

A tre anni di distanza dal gustosissimo Beautiful Mess ritornano i Maple Mars, che poi in sostanza significa che a tornare è Rick Hromadka, originale autore losangelino che dei Maple Mars è in pratica la mente unica. Si parla dei quartieri pop della Città degli Angeli, ed avendo in mente le tinte pastello del precedente album di studio ci si potrebbe/dovrebbe aspettare il solito concentrato di "liquido sole californiano" che in quaranta e passa anni di storia ha deviato milioni di appassionati trascinandoli dai Byrds ai Cloud Eleven. L'apertura The Excursion semra un buon viatico in tal senso, forse meno soft di quanto ci si aspettasse, certo, ma pur sempre uno standard pop-psych di quelli che a Hromadka riescono sempre bene. Il fatto è che stavolta Rick ha voluto dare sfogo a tutta la propria creatività, senza limitarsi a sviluppare la parte di essa che molti di noi hanno imparato ad apprezzare nel corso degli anni (e degli album).

Galaxyland, sorta di album concettuale dedicato ad un'ipotetica città spaziale, migra infatti ovunque sia possibile cercare tracce di vita pop, senza disdegnare nulla e mantenendo in ogni caso una coesione di fondo che conferisce forza e credibilità all'intera collezione. Se le preferenze dell'autore sono naturalmente dirette alla psichedelia melodica della già citata traccia inaugurale, di New Day e di Trascendental Guidance, bisogna rendere omaggio ai tentativi di esplorazione anche floydiani di Prelude: New Day e ad altre divagazioni sul tema che alla vigilia non erano per nulla scontate. Parliamone. Starting Over (Again) aggiunge al pacchetto dosi supplementari chitarristiche che sconfinano nei territori occupati anni fa dai Cheap Trick. Nel frattempo, Borrowed Sunshine pare il titolo perfetto per un brano che sembra estratto da una chart britpop del '96, ed Head Turner dimostra quanto tatto abbia Rick nel trattare delicati frammenti acustici. Il bello arriva in fondo, però, perchè il brano migliore della raccolta, almeno per il sottoscritto, è senza dubbio Somewhere Back There, tormentone bubblegum dove sembra di assistere ad una performance dei Jellyfish fronteggiati da Matthew Smith.

In conclusione, Galaxyland è un album che mi sento di consigliare a varie categorie di appassionati e, chiaramente, a tutti quelli che oggigiorno, quando si parla di pop chitarristico, si possono definire onnivori. Rick Hromadka rimane uno dei maestri della scena di L.A. in fatto di pop psichedelico, ma in questo caso ha deciso di non accontentarsi e ha dimostrato di essere, passatemi la definizione cestistica, uno dei migliori all arounder della costa occidentale.

mercoledì 14 luglio 2010

Disco del Giorno 14-07-10: The Record's - De Fauna Et Flora (2010; Foolica)

I Record's, visti un paio di volte dal vivo, mi hanno estrememente impressionato. I Record's, ossia Pierluigi Ballarin, Gaetano Pomigliano e Pietro Paletti, da Brescia, sono giunti al secondo, spaventoso album di studio. Non vorrei sfruttare troppe iperboli, ma non riesco a non dire che i Record's, al momento, sono tra i migliori gruppi italiani senza ombra di dubbio.

Raro caso di successo meritato all'interno del panorama indie italiano, il terzetto bresciano riesce a confermare le enormi aspettative che il precedente ed osannatissimo Money's on Fire aveva inevitabilmente creato. Ci riesce con un album, intitolato De Fauna Et Flora, che farà parlare di se per molti anni a venire, e molti addetti ai lavori saranno costretti ad ammettere che si, il secondo album dei Record's ha lasciato un segno profondo nel panorama indipendente nostrano. Un panorama che, a dire il vero, sta iniziando finalmente a fiorire lontano dal Mi-Ami, da Rock-It e dall'universo modaiolo, grazie alla qualità di fantastici gruppi quali Bad Love Experience, Radio Days e Temponauts, solo per citarne alcuni e senza offesa per gli altri, si intende. Ma torniamo ai Record's. Polverone mediatico ai tempi del primo ep, Joyful Celebration e del singolo Move Your Little Fingers, passato on air dalle principali radio nostrane, e non era finita. Arriva Money's On Fire, seguito dal tormentone Girl of My Wet Dreams, che finisce per diventare la colonna sonora di uno spot della Gazzetta dello Sport. Attesa spasmodica per una difficile conferma, ed ecco il nuovo album, stupendo.

Registrato da Matteo Cantaluppi (Canadians, Bugo) e mixato nientepopòdimenoche da Jon Astley (Stones e Stereophonics, tra gli altri), De Fauna Et Flora è trapunto di melodie impeccabili, songwriting elementare ed immediatamente adesivo, con particolari note di merito per il perfetto utilizzo delle voci, vero marchio di fabbrica della casa. Difficile abbozzare una definizione di genere complessiva e (soprattutto) esaustiva in toto. Pop-rock, certo, nella definizione generica da megastore, dove si spazia, si cambia, si improvvisa, al limite. La prima parte del disco lascia senza fiato: On Our Minds e Mr Hide sono commoventi estratti di pacato indie pop alla maniera degli Shins (passatemelo), inframezzati da un'insalata mista di pregio condita dal boogie di Rodolfo, che sembra fare il verso a YMCA nel ritornello, dalla poesia crepuscolare di Panama Hat e da I Love My Family, un brano che sotterra metà della produzione di avanzi di charts UK quali Kaiser Chiefs e Wombats. We All Need to Be Alone è l'anthem da cantare a squarciagola, non importa se allo stadio oppure fermi al semaforo. Meno male che durante la seconda parte si tira un pò il freno a mano, altrimenti sarebbe stato difficile pubblicare un altro album, tra un anno o due. Senza dimenticare, questo va detto, la sghemba fillastrocca contenuta in New Gear, New Feel, giusto per dare un tocco d'eccellenza anche al "lato b" della storia.

Il fatto che dallo scorso 24 Aprile il nuovo spot della storica birra danese Ceres sia musicato dai Nostri, in collaborazione con i bizzarri elettropoppers Serpenti, è garanzia di successo prolungato, ma se lo meritano tutto. Anche perchè, avendo avuto il piacere di conoscere i ragazzi, tendo ad escludere che possano montarsi la testa. Grandi, non fatevi schiacciare dal music business!

lunedì 5 luglio 2010

Pulizie d'inizio estate.

Decine di impegni, principalmente lavorativi e politici, mi stanno tenendo lontano dal blog e dai mondiali di calcio. Ciò nonostante, reduce da un ottimo weekend al Festival Beat, è giunto il momento di recuperare tre dischi rimasti imbrigliati tra le maglie del poco tempo, e tracciare una rapida panoramica di alcune cose che da tempo riposano sulla mia sempre affollatissima scrivania.

Paul Steel - Moon Rock (2008; EMI Japan). Giovane talento mostruoso residente a Brighton, Paul Steel ci perdonerà per aver intercettato Moon Rock, il suo primo album "lungo", con quasi due anni di ritardo. Paul è pazzo di Rundgren, Beach Boys ed antiquarioto pop, ed il suo disco potrebbe benissimo essere un nuovo lavoro di studio dei Wondermints, però più barocco. Avete apprezzato Bryan Scary e vi trastullate con vistosaggini assortite? Prego, c'è posto. Musica popolare dagli arrangiamenti ricercati e dalla sintassi magniloquente, senza che le righe vengano superate. Anche perchè i pezzi ci sono, eccome. Del resto, se Stephen Kalinich vuole collaborare con te un motivo ci sarà. Bisogna saper scrivere, si dice, e Paul sembra nato per questo: When I Kissed Her (I Felt Sick) è puro frullato Nick Walusko/Jeff Lynne, mentre In A Coma, il super singolo dell'album, è uno dei migliori brani early-Beach Boys-oriented che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni. (www.myspace.com/paulsteel)

Slingsby Hornets - Something Old...Something New (2010; Expedition Hot Dog). Jon Paul Allen, un uomo, un party glam ambulate. Terza opera di studio per il prolifico autore di Stoke-On-Trent, terza collezione di oscuri classici inglesi anni '70 rivisitati e mixati ad alcune composizioni originali di gran livello, come al solito. Qui ad UTTT abbiamo imparato a conoscerlo bene, ad entusiasmarci ogni volta che un disco di Jon arriva nella nostra buca delle lettere e ad inserire rigorosamente nella valigetta i suoi cd ogni qual volta ci capiti di proporre un dj set. In questa occasione, Allen reinterpreta con personalissimo gusto e fervida immaginazione piccole gemme di seventies rock quali Gonna Make You a Star di David Essex e soprattutto Pinball di Brian Protheroe, mentre tra gli originali fanno un figurone il pop da gozzoviglio di She's the One e il brit pop da viaggio psichedelico di Getting Better. Se i 70's britannici sono la vostra passione, avrete imparato a fidarvi di Jon Paul Allen! (www.myspace.com/theslingsbyhornets)

Baby Scream - Identity Theft (2010; Recorded Recordings). Anche Juan Pablo Mazzola, il custode del progetto Baby Scream, sulle nostre pagine è di casa. L'anno scorso abbiamo parlato benone di Ups and Downs, il suo album d'esordio, ed oggi siamo "costretti" a dire meraviglie di Identity Theft, il suo nuovo extended play. Meno upbeat, meno solare; più acustico ed introspettivo. Canzoni stupende, tristi, minimali, cantate da grande. Un dischetto scritto in un periodo difficile, due anni fa, quando "sembrava che chiunque volesse portar via qualcosa dalla mia vita". Emozionante, come le sonorità sulle quali aleggia, sempre, l'ombra benevola di John Lennon, vero e proprio faro nella tormentata vita di Juan. Dead Woman Walking respira cantautorato westcoastiano alla Michael Penn, mentre Memories potrebbe essere un outtake di un demo di Harrison (si parla di George) così come Underground Blues ed il suo pop viscerale alla Cotton Mather (si parla, in questo caso, di Robert). Essendo Lennon il punto di riferimento indiscutibile, quale chiusura migliore di Mucho Mungo, oscuro brano che John incise assieme ad Harry Nilson ai tempi del progetto Pussycats? Ad oggi, Identity Theft, è l'ep dell'anno. (www.myspace.com/babyscream)

venerdì 25 giugno 2010

Rubinoos, Stems e Jack Oblivian, poi il buio. Tempi di grande musica, tempi di protesta.

Mi sarei voluto limitare a parlare della serie di incredibili live svoltisi al Titty Twister di Villadossola. Di come per la prima volta in vita mia abbia assistito e partecipato ad un'ovazione subito dopo la fine di un check sound. Subito dopo l'esecuzione di My Girl dei Temptations, interpretata acappella dai Rubinoos. Subito dopo aver avuto brividi e aver visto amici piangere dall'emozione. Del loro concerto pauroso e di duecento persone scatenate sulle note di Arcade Queen, Peek-a-Boo, I Think We're Alone Now e I Wanna Be Your Boyfriend. Di come fosse stato incredibile passare, in poco più di dieci anni, da prendere al volo il treno dopo scuola per andare a Milano a comprare i dischi degli Stems e poi trovarsi Dom Mariani a chiuderne la carriera a cinquecento metri da casa, tra una versione strappalacrime di At First Sight ed una cover pazzesca di Day Tripper.

Avrei voluto complimentarmi con tutti per la preziosa collaborazione e dare un arrivederci alla prossima stagione live, magari dicendo meraviglie dell'ultimo concerto per quest'estate, quello di Jack Oblivian. Introdotto da John Paul Keith ed Harlan T Bobo, la serata era una grande, grandissima serata di pura musica rurale americana. Keith aveva scaldato gli animi, Harlan li aveva fatti sanguinare. Tutto perfetto. Poi Jack, un mito. Inizio spaccaossa, quattro pezzi memorabili, delirio collettivo. E poi carabinieri, perchè è mezzanotte e cinque e la gente deve lavorare, basta con 'sto casino.

Concerto interrotto, disperazione, splendida protesta spontanea di molte, moltissime persone. Sono passate due settimane e non è finita, solo mi spiace di aver trascurato il blog, ma recupereremo. Nel frattempo, quale miglior reazione di fissare altre due date non previste per quest' estate? E allora ci vediamo domenica 27, al live dei Surfin' Lungs e poi giovedi 29 luglio per il concerto di Mark & the Spies, vi aspetto. Perchè te ne rendi conto solo quando viene a mancare e scusate la banalità, ma la musica è davvero una delle poche cose a darmi sollievo in questi periodi così grami.

sabato 5 giugno 2010

e.p. del Giorno 05-06-2010: White Star Liners - You Can Do It, We Can Help (2009; autoprodotto)

Jim Duncan e soci tornano a trovarci un anno e mezzo dopo il nostro primo incontro, avvenuto in sede di presentazione del primo lavoro di studio dei White Star Liners. Che bello, quel disco, ricordate? Potrebbero diventare star, scrivevamo all'epoca. Ovviamente, nel frattempo, non hanno migliorato il loro status né tantomeno il conto in banca. Che poi la storia è sempre la stessa, non servirebbe spaccarcisi la testa ogni santa volta: da almeno vent'anni a questa parte la qualità della musica è invisa alle compagnie discografiche, per non parlare delle televisioni e, dio non voglia, delle radio. Pace. La diffusione del nuovissimo ep di questo fantastico e misconosciuto combo inglese è affidata alle nostre parole, e non facciamo fatica a parlarne il meglio possibile.

Dunque pare che Jim e James, ossia Duncan e Harvey, in pratica le teste pensanti all'interno del progetto, abbiano terminato la loro opera di elettrificazione della campagna del Sussex, e che nel frattempo l'ambizioso progetto di costruire impossibili macchine volanti sia stato brevettato. Così Jim, caricatasi l'acustica sulle spalle, si è rintanato insieme ad un paio di amici nel suo giardino inglese, sorseggiando bitter tiepido ed impostando il nuovo ep della sua band che, francamente parlando, è una bomba. Sei pezzi di perfezione quieta, dove l'estroso Duncan trapunta di ritocchi geniali quelle che sono, senza velo alcuno, semplici melodie bucoliche. Perfette melodie bucoliche.

Si parte dal tipico duetto lui/lei di The City That Swallowed the Stars, meravigliosa scampagnata retrò nella soleggiata fattoria di Aimee Mann e Michael Penn, per quasi 5 minuti di armonie perfette ad aprire una serie di brani che non hanno niente a che vedere. Cracking Magnets, che arriva subito dopo, è infatti l'unico abbozzo rocker del disco, un brano di pop cadenzato ed infettivo che, passato per sbaglio e di notte su un qualsiasi Brand:New di questo mondo, farebbe faville. Ma è il trittico acustico che segue a lasciare profondi segni nel cuore e nell'anima. Ci sono Sticks Through Spokes e Do the Los Alamos Bug Dance, entrambe puntellate da alti arrangiamenti di archi, a riportare chi ascolta agli amati momenti dello splendore new acoustic di Elbow ed I Am Kloot. E c'è Lazybones, ennesima dimostrazione della supremazia del songwriting rispetto al nome di chi impugna la penna, e poi ditemi che Duncan non è molto meglio di James Walsh mentre tenta di imitare i Nada Surf più pacati. The Mountain Climber Afraid of Heights, invitandoci a riflettere sui più banali paradossi della vita, ed a prova della cura con cui Jim Duncan cura la parte prettamente testuale della sua arte, chiude il cerchio, accompagnandoci all'uscita con un grande estratto di americana remixata secondo i gusti brit.

You Can Do It, We Can Help, a quanto pare, è uscito negli ultimissimi giorni del 2009, ma vale come fosse un 2010, non avendo avuto tempo per considerarlo nelle classifiche di fine anno. Tutto questo per dire, nel caso non fosse chiaro, che i White Star Liners, ad oggi, sono in pole position nella classifica degli extended play di quest'anno.

sabato 29 maggio 2010

Under the History Tree (puntata #3). Ducks Deluxe - Ducks Deluxe / Taxi to the Terminal Zone

Under the History Tree, nelle intenzioni originali, sarebbe dovuta essere una rubrica mensile, ma gli iniziali buoni propositi sono stati brutalmente soppiantati dai fatti: 3 articoli in un anno e mezzo. Ovviamente mi assumo la responsabilità per i continui ritardi nella pubblicazione dei post e mi scuso con l'autore. Prometto, tuttavia, che d'ora in avanti lo spazio dedicato al ripasso dei classici che hanno fatto la storia della NOSTRA musica inizierà DAVVERO a comparire su queste pagine una volta al mese.

DUCKS DELUXE: PUB ROCK A 5 STELLE

di Zio René

La necessità della musica non esiste, paradossalmente è un bisogno “indotto", che fa comodo ai padroni del vapore che possono vendere qualche milione di dischi in più e guadagnare più soldi.
La generazione degli anni ’60 scopre però che fa parte dell’apparato genetico della razza e incominciano a masticare musica perché non se ne può fare a meno. Il pop e il rock’n’roll non sono timidi o ingenui agganci per uscire dalla crisi, diventano il modo per sconfiggere la monotonia, la tristezza, la noia di vivere e lo squallore umido dei sabati sera. Il suono vive della sua primitività fisica, pronta a trasmettere immediatamente il brivido dell’azione, a eccitare i muscoli, a mettere in movimento le fibre nervose. A provocare l’estasi aspra è il rock’n’roll. La rivolta si sviluppa con la complicità strutturale dei quattro accordi che aggiustano la comunicazione e la trasformano in avventura. La legano alla intuizione dell’aggiustamento dei sensi per l’elettrica stimolazione del vivere, irriconoscibile ed esattamente al contrario, un gesto emotivo che si può incriminare ma non derogare.

Quattro ragazzi dai capelli lunghi strepitano e danno gioia alla propria generazione e sono già la risposta allo spartito con su scritto “ andante moderato molto bianco . La dicitura diventa “ fortissimo sporco strisciante”. Si aprono le stanze delle “cose che contano”. La protagonista diventa la musica nella sua fiammeggiante esistenza, cade a strapiombo nel cervello e a dispetto del glaciale silenzio corre verso la novità. Magari si rivernicia, viene recuperata e ricamata, ma rimane intelligente nella sua paranoia senza vuoti di ispirazione, testarda nel suo battere (beat) , con l’ipotesi di attestarsi nella scena giusta, in cerca di osanna. Astuta si mette al tavolino delle emozioni e dimostra la affascinante capacità di trasformarsi. Si consacra alla psichedelia, al revival blues, alla furia dell’hard rock, si apre ai suggerimenti jazzistici, approda nell’ ambiguità del glam, costruisce con tecnica soffice e acuta il progressive.

In qualcuno, però, serpeggia il dubbio che la musica stia volando via e che stia accadendo qualcosa che a nessuno era chiaro cosa fosse. Si era tutti immersi negli affari e non si capiva che eravamo sempre bastardi, anche se intelligenti. Accecati dalla approvazione nei confronti di questa evoluzione, la si cercava completa, totale, quasi a sconfinare nella passione, mascherata dal sacerdozio discografico. L’ordigno veniva disinnescato e del ”geniere” appassionato che sputava gioia (il rock'n’roll) non rimaneva che il ricordo, nemmeno “consolato” dalla voce, che diventava lamentosa e aveva il timbro pallido della morte. Si stava perdendo con questo estremismo l’irrazionalità, il medium sensuale che sosteneva il nostro cuore e suscitava e faceva scaturire dal nulla torrenti di energia e parlava in modo chiaro anche se drammatico. La musica diventava sempre più pretenziosa. La Terra d’Albione del rock era caratterizzata in massima parte dai travestimenti del glam, del progressive, del pomp, dell’art-rock. Questo nuovo rock sembrava affetto dalla sindrome di Narciso, condannato ad innamorarsi della propria immagine e che resosi conto della impossibilità della sua passione, arriva a lasciarsi morire.

In un certo senso bisognava cambiare metodo. Basta paillettes e lustrini; era ora di riindossare jeans sdruciti, giacche di pelle e riaprire il calderone degli “ ameircan roots” (blues, rock’n’roll, rythm & blues, country, ecc.). Quasi come un immagine di B movie degli anni ’60, come un luogo per sognare rockville e dintorni, nasce il Pub Rock, movimento musicale dei primi anni settanta, incentrato attorno al nord di Londra e sud est di Essex, particolarmente Canvey Island e Southend on Sea. In un certo senso un fenomeno britannico non molto diverso dal roots rock, e che consisteva praticamente in band dall’impronta mod che suonavano rock'n'roll, country e blues, con iniezioni di beat e english sound, nei locali e pub dell'Inghilterra. Era musica essenzialmente dal vivo, live. Abbandonare le arene, gli stadi e scaricare gli amplificatori nei back-rooms dei pub, nei clubs e realizzare il proprio sogno di vivere il rock “nudo e crudo" come musica senza tempo, come migliore esperienza di vita. Il gioco sta nella ricostruzione ironicamente riciclata ma contagiosa dell’entusiasmo che sventola in noi, la voglia di alzare ansiosi una pinta di birra Dosh e sentire rock’n’roll. Al “bischero” che non capisce il trucco e la etichetta di essere un po’ vecchiotta e kitsch, rispondiamo: certo che è così, e come potrebbe essere? Divertiamoci e basta ! Questa è una colpa ?

"Tutte queste band suonavano musica buona per bere e ballare. Le radici english pop e american roots erano ben visibili" (Martin Belmont chitarrista dei Ducks Deluxe).

Le maggiori band pub rock come Brinsley Schwarz, Ducks Deluxe, Bees Make Honey, Ace, Dr. Feelgood connotavano influenze tradizionali. Questo genere sorse in contrasto con ciò che dominava le classifiche britanniche. Conseguentemente, i gruppi avevano problemi a trovare posti per esibirsi, e crearono così un circuito suonando in locali nascosti sparsi per l'Inghilterra. Fu un movimento underground che, anche se poco conosciuto e apprezzato da noi, è il filo rosso che collega il mod sound dei mid sixties al mod revival degli anni ottanta. Inoltre, non bisogna dimenticare che il movimento ispirò e pose le basi per il punk rock, infatti molti esponenti del pub rock inclusi Nick Lowe dei Brinsley Schwarz, Joe Strummerdei 101'ers, Elvis Costello dei Flip City, Ian Dury e Graham Parker dei Kilburn & the High Roads diventarono importanti esponenti del neonato punk rock e del successivo fenomeno new wave.

Campioni del più tipico pub rock londinese, i Ducks Deluxe si formano dell’agosto del 1972 su iniziativa di Sean Tyla (ex chitarrista degli Help Yourself), che trova aiuto in Ken Whaley (altro Help Yourself), Martin Belmont ( ex roadie dei Brinsley Schwarz ) e Tim Roper. Se ne va subito Whaley che viene sostituito da Nick Garvey (manager dei Flamin’ Groovies) e con questa formazione incidono nel 1974 per la RCA l'omonimo album d'esordio, prodotto da Dave Bloxham, dove riescono a catturare il fuoco e l’eccitazione del live. E’ un gran disco per ballare e bere, non è destinato all’analisi critica. Il clima live si percepisce subito dal brano di apertura, Coast to Coast, primo singolo della band, e censurato dalla BBC per il suo riferimento alle droghe. La voce gutturale di Sean Tyla influenza con un trainwreck strascicato la canzone che sembra dire "siamo qui per il rock", e la competente chitarra di Belmont ci riporta alle radici, a Duane Eddy, al riverbero nasale della chitarra. La voce cupa e baritonale di Garvey ci regala Nervous Breakdown, puro rockabilly style che suona come un incrocio tra Eddy Cochran (sua cover) e il country blues maniaco e irruente, quasi involontario prototipo del futuro punk. Uno dei miei brani preferiti, Daddy Put the Bomp, rallenta la tensione ma ribolle di groove funky. E’ composizione di Tyla, dall’ anima spavalda e dal sapore di New Orleans e swamp rock e Allen Toussaint, scritta nonostante il fatto che all’epoca non aveva mai visitato gli States.

"Sean scriveva canzoni sull’America, posto in cui non era mai stato, e io ero un chitarrista solista, cosa che non ero mai stato, fu la combinazione ideale" (Martin Belmont).

L’amore per il soul della Stax si esprime con I Got You. Il capolavoro pop Please Please Please, di scuola beatlesiana e non solo per il titolo, combina accettazione e vulnerabilità, perfetto nella voce strozzata e nella melodia accattivante, sintonia incredibile dove Belmont cristallizza alla Gene Vincent una chitarra chiara e pulita in un tema senza tempo. Il treno merci (merce pregiata ndr) Ducks Deluxe, scappa sui binari e assume una velocità pericolosa. Attraversa il paese Velvet Undergroud e, ispirata a Sweet Jane (per loro stessa ammissione), prende spunto Fireball, brano dal big beat e dal ritmo solido. Don’t Mind Rockin’ Tonite è un incrocio pericoloso con deviazione verso il southern rock benedetto da Chuck Berry, sostenuto da un riff poderoso e circolare tipico della terra texana. Durante la traccia, incontriamo un passeggero a bordo: è Bob Andrews dei Brinsley Schwarz, che contrappunta col pianoforte. Spensierata, godibile e senza indugi viene cantata con un finto imbarazzo Hearts on my Sleeve, con l’ingenuità del primo beat. Piccola sosta per caricare sul treno musicale la sezione di fiati dei Sons of the Jungle Horns, e far scaturire la splendida ballata Falling for That Woman, dal sapore soul e R&B alla Otis Redding. Tyla con voce dylaniana e con il ricordo della Band periodo Big Pink, si e ci immerge nella provincia americana e con pura fantasy inglese ci canta il country rock convincente di West Texas Trucking Board, atto d’amore supremo per uno che in Texas non c’era mai stato. Una parentesi sofisticata e un po’ funky, Too Hot to Handle, e si chiude con la seconda cover dell’album, It’s All Over Now, southern rock classico di Bobby Womack ma che in realtà tutti ricordano come brano dei Rolling Stones con aplomb gioioso e teso.

Nonostante la buona accoglienza da parte della critica, l’indifferenza commerciale, destino di tutte le pub rock band, farà si che il successo non sarà mai grande, niente faville di vendite. L’idea dell’amico Dai Davies di farli suonare insieme e di fare il loro manager rimane una “buona idea” e ci regalerà una lunga serie di concerti (che immaginiamo divertentissimi) e, con la produzione di Dave Edmunds, alla incisione di Taxi of the Terminal Zone ( RCA 1975 ), altro disco molto convincente e che svilupperà ancor di più l’ispirazione rollingstoniana e country rock all’inglese (Mott the Hoople per esempio). Viene assunto un tastierista, Andy McMasters e si ritorna in studio a Monmouth, ai mitici Rockfield Studios. Il nuovo lavoro sviluppa sempre un mix di blues-boogie aromatizzato alla Rolling Stones, un rockabilly filtrato dalla cultura pop britannica, e si trascina e si strascica con i tre accordi alla Chuck Berry-style, che costituiranno terra di conquista per le future generazioni punk rockers. Personalmente, lo considero leggermente meno entusiasmante rispetto al primo, anche se la linea della promise land di Chuck Berry con cipiglio anglosassone viene mantenuta.

Piccoli gioielli sonori sono contenuti anche in questo scrigno: l’apertura Cherry Pie, deliziosa torta dal gusto e stile Stones con chitarra ispida e battito incessante; la vibrante felicità di It Don’t Matter Tonite, tesa e gioiosa tra amore e tradimenti; la trasparente I’m Crying, nel sottile stile chitarristico di Belmont e nella voce soulful di Garvey che accarezza il testo lasciando scorrere intorno l’emozione. E poi la confezione infettiva pop di Love’s Melody, scritta da McMasters, dalla melodia irresistibile e grassa nel suo stile anni ’60 con il riff di Belmont; l’omaggio ai Flamin’ Groovies con Teenage Head, chitarre spumeggianti e ritmi duri; il classico country & roll di Rio Grande; il pop & roll aromatizzato di My My Music, detersivo musicale per la nostra mente; Rainy Night in Kilburn graziosa ballata cullata dalle tastiere e dalla voce tranquilla e elegante di Belmont. Per non dimenticare Woman of the Man; R&B di stile con respiro mod e Paris 9, delirio spensierato che evoca i Mott the Hoople, armonie forti e big beat con un riff tastieristico infernale alla Jerry Lee Lewis. Un respiro d’aria fresca per noi che abbiamo in mente la rockin’ tonite o qualsiasi altra notte di jam session improvvisate. Ma l’esperienza sta per finire e le strade si dividono. Ancora un ep, Jumpin’, pubblicato dalla indipendente olandese Skydog, poi Garvey e McMasters se ne vanno a formare i Motors, Belmont raggiunge i Rumours di Graham Parker e Tyla raggiunge e visita finalmente gli USA dove fonda la Tyla Gang. Nel 1979 un'altra indipendente olandese, la Dynamite, pubblica Last Night of a Pub Rock Band, doppio LP registrato live al 100 Club di Londra il 1 luglio 1975, epitaffio sonoro della band che regala di nuovo alle nostre orecchie la magia del pub rock.

Poi Ducks Deluxe finì per l’ultima volta e disse "attraversiamo la strada". E tornò a casa.

zio René


Per chi volesse approfondire il tema pub rock, mi permetto di consigliare la lettura di No Sleep Till Canvey Island: The Great Pub Rock Revolution di Will Birch (ex Kurssal Flyers e Records) edito da Virgin Books (6 aprile 2000) e purtroppo solo in inglese. Il testo è molto ben scritto e importante per capire il fenomeno.
Mi permetto anche di consigliare, per avere un panorama completo della diversa articolazione musicale del fenomeno, l’ascolto dei seguenti dischi :
Eggs Over Easy – Good’n’Cheap (A&M 1972)
Brinsley Schwarz – Fifteen Thoughts of Brinsley Schwarz (UA 1978)
Bees Make Honey – Music Every Night (EMI 1973)
Chilli Willi & the Red Hot Peppers – Bongos Over Balham Mooncrest (1974)
Dr. Feelgood – Stupidity (UA 1976)