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sabato 31 dicembre 2011

I migliori LPs del 2011! (seconda parte)

Ed ecco a voi i migliori 15 LPs usciti nel 2011 secondo la nostra redazione!

15. Title Tracks - In Blank E dire che Johnny Davis, il capo del discorso, fino a tre anni fa nemmeno sapeva di cosa si trattasse quando si parlava di pop. Già con un disco d'esordio tra i migliori 100 del 2010, Johnny con In Blank procede di tre grossi passi a livello di songwriting e il disco fa saltare sulla sedia. Peccato per la produzione mono eccessivamente scarna, ma la stoffa c'è, e se siamo solo all'inizio...

14. Pugwash - The Olympus Sound Con una lineup così (Folds-Partridge-Gregory a dare una mano), ed un mixaggio ad Abbey Road era difficile aspettarsi un flop. Thomas Walsh nemmeno stavolta delude, e dimostra ancora una volta che il beneficiario principale e benemerito dell'asse ereditario XTC è proprio lui. Portabandiera di una terra, l'Irlanda, sempre più importante per il powerpop odierno, il corpulento autore dublinese mette a segno il miglior colpo della discografia dopo Jollity, meraviglia uscita nel 2005.

13. Love Boat - Love Is Gone La fase ascensionale del pop italico non è ancora terminata, e dalla Sardegna arriva quello che è stato il disco più divertente dell'estate 2011. Scalmanato beat pop senza fronzoli, poco levigato e decisamente incontenibile nelle sue vorticose melodie da ballo sfrenato. Canzoni brevi e melodie che ispirano disimpegno e sbronze. Scusate, ma il rock'n'roll è (anche) questo.

12. Ron Sexsmith - Long Player Late Bloomer Nemmeno il sodale Costello ha mai capito come mai Ron non sia mai uscito dall'anonimato in vent'anni e dodici album di carriera. Nemmeno noi, ad essere sinceri. Con Long Player Late Bloomer il cantastorie canadese realizza un lavoro che, pescando a piene mani nei tormenti della propria anima, partorisce alcune tra le melodie più intense dell'anno. Che la storia ce lo conservi, tutti noi continueremo ad avere bisogno di gente così.

11. The Red Button - As Far As Yesterday Goes Ne avevamo parlato come di un sicuro top ten, non siamo andati lontani. Swirsky e Ruekberg ampiano la gamma cromatica della loro sconfinata tavolozza ed al merseybeat ortodosso che fu aggiungono deliziosi spaccati di 70s singer/songwriting, di west coast sound e di ballate da pelle d'oca. Non aspettatevi l'immediatezza del predecessore, e date tutto il tempo che serve ad un album come questo, sicuri che, anche stavolta, non ne potrete fare a meno facilmente.

10. Robbers On High Street - Hey There Golden Hair Una delle grandissime sorprese dell'anno. Mi dicono terzo album, ma noi li scopriamo soltanto ora. Mi dicono di una band indie pop sul grande filone degli Spoon, mi ritrovo un nutrito gruppo di musicisti dedito ad un geniale pastiche fatto di british invasion, musica popolare contemporanea ed idee progressive nel senso più nobile del termine. Un bel colpo di fortuna, dobbiamo ammetterlo, l'essersi imbattuti casualmente in questa sorprendente banda di Brooklyn.

9. Cirrone - Uplands Park Road Ci pensano Alessandro, Bruno e Mirko, ossia i fratelli Cirrone, a tenere altissima la bandiera italiana nel cielo del powerpop internazionale. Che periodi per noi, ragazzi, si stenta a crederlo. I Beatles originali un attimo prima, e un attimo dopo miracolosamente sciolti in un sound powerpop di quello robusto, quello inventato da Chilton e perpetrato negli anni da Sloan e Shazam. Possiamo dirlo? Diciamolo: l'album rock melodico dell'anno.

8. Army Navy - The Last Place Lo avevo notato già ascoltando l'album d'esordio: Justin Kennedy, con quello stile, potrebbe farmi sognare cantando qualsiasi cosa. The Last Place, poi, è il classico album i cui brani potrebbero essere tutti singoli. Per il resto, immaginate una britpop band dei medi anni '90 impegnata a coverizzare un catalogo di powerpop a stelle e strisce di trent'anni fa. Il ragazzo sa scrivere melodie d'oro e il tutto fa pensare che, forse, il miglior modo di intendere il genere oggi è proprio questo.

7. An American Underdog - Always On The Run Grande anno per i cantautori, il 2011. Andy Reed, già presente nella top 10 di UTTT nel 2008, torna ad occupare il posto che gli compete con diverso pseudonimo ed uguale classe. Always On The Run è cantautorato rock ai massimi livelli, con un approccio che scomoda il miglior Brendan Benson sapientemente accostato a private considerazioni acustiche guidate da soluzioni melodiche che fanno dell'originale semplicità il proprio punto di forza. Un altro colpo vincente per Andy!

6. David Mead - Dudes Adoro David Mead, ed il suo penultimo lavoro, Almost And Always, mi era molto piaciuto. Mi ero convinto, peraltro, che la china intrapresa dall'autore fosse quella di una carriera sempre più votata al folk acustico e sempre meno al pop chitarristico. Contrordine: assoldato Adam Schlesinger alla produzione, David piazza il colpo gobbo e quello che probabilmente è il suo album migliore, con quel naturale alternarsi di classici istantanei upbeat e meraviglie acustiche che il genietto di Nashville dispensa con la consueta nonchalance.

5. Kevin Martin - Throwback Pop Clamorosamente ignorato dalla comunità internazionale, Kevin Martin propone un disco di eccentrico cantautorato in stile settantesco da stropicciarsi gli occhi. Giocato su sapienti basi pianistiche e sfarzosi arrangiamenti barocchi, Throwback Pop è il miglior disco di genere dai tempi dell'omonimo Mitch Linker; un disco che sa di Elton John e di ELO e di Jellyfish con un potenziale singolo, TV News, da perdere letteralmente la testa.

4. Secret Powers - What Every Rose-Grower Should Know Shmed Maynes è ribelle, provocatorio, esuberante. Scrive canzoni che non sono solo canzoni e che pochi altri hanno il coraggio di scrivere perchè sono diverse. Diverso l'approccio, diverse le strutture, diversi i contenuti. Il resto, invece, ce lo aspettavamo: quattro album e tre top ten per quello che oggi è l'autore più continuo in attività. Pop progressivo da tramandare ai posteri e chissà quante volte, ancora, ne dovremo parlare.

3. Brandon Wilde - Hearts In Stereo L'album cantautorale dell'anno è questo, poche storie. In una stagione fantastica per il pop disegnato in solitaria, Hearts In Stereo se ne va con la palma di vincitore, perchè il nome dell'album racconta quasi tutto e perchè, crediateci o no, è difficilino essere travolgenti agendo in questi termini. Ci vuole sentimento, ci vuole talento, ci vuole grande cultura. Nel frullatore ci vanno McCartney e Rhodes, ovvio, ma anche le controfigure serene di Pete Ham e, perché no, Chris Bell. Un album da avere e da vivere anche per chi non è aduso ad ascolti del genere.

2. The Skeleton Staff - Psycomorphism Mi ero perso l'esordio di questo combo australiano, Solipsism, uscito un anno fa, di conseguenza questo nuovissimo Psycomorphism rappresenta la più grande scoperta dell'anno. Dall'Australia, terra che non manca mai di nutrirci con pop music di classe superiore, arrivano Stanton Marriott e soci con una valigia stipata di canzoni immense. La scelta è sublime, ricca, elegante. Affrescata di pittura barocca e di Divine Comedy, di heavy pop e di eccentricità Queen; di variazioni di ritmo, di ambiente e di genere. Capsize, tra i brani dell'anno, catapulta il miglior Brian Wilson nell'iperspazio. Giganteschi.

1. Fountains Of Wayne - Sky Full Of Holes Lo confesso. Traffic & Weather, l'album che i Fountains Of Wayne pubblicarono nel 2007, non mi era piaciuto. Ovviamente, il disco sarebbe stato considerato un ottimo lavoro se fosse stato scritto da una band qualunque. Ma da loro no, da loro ci si aspetta sempre qualcosa in più, anche perché in discografia vantano almeno due tra i venti album più importanti della storia del college rock americano. Avevo paura che la loro carriera avesse imboccato la parabola discendente e che fosse difficile per loro tornare a salire. E invece sono tornati, e come. Sky Full Of Holes è sui livelli dei loro momenti migliori, e chi li ha amati capirà che, per logica conseguenza, la prima posizione quest'anno spetta a loro di diritto. Si torna alla base del manuale per compositori pop Collingwood/Schlesinger, alle loro magiche storielle iperrealiste, ad una pletora di singoli incredibile. Dai clamorosi tempi upbeat di Someone's Gonna Break Your Heart e A Dip In The Ocean, probabile pezzo dell'anno, al midtempo di Richie And Ruben. Dalle radici americane di The Road Song alla pacatezza sublime della conclusiva Cemetary Guns, per concludere dal principio, dalla malcelata nostalgia che sgorga dalla strepitosa apertura The Summer Place griffata Schlesinger . Lo ripeto ancora una volta: i Fountains Of Wayne, quelli migliori, sono tornati per davvero, e volentieri li premiamo con il meritatissimo gradino alto del podio 2011.

venerdì 30 dicembre 2011

I migliori LPs del 2011! (prima parte)

Il 2011 è stato l'anno con più dischi di qualità eccelsa dai tempi del clamoroso 2008, ma per "leggere" la nostra classifica, proprio perchè tendenzialmente rinnovata, sono necessari tre ordini di valutazione:

1- Al posto della solita top 100, la classifica sul top of the pops 2011 andrà in scena in una ridotta versione formato top 30. Mi sono reso infatti conto che, ad un certo punto, diventava davvero difficile comprendere le reali differenze chessò, tra la posizione 85 e la posizione 87, cosa che diventa molto più facile e sensata in una classifica più concentrata;

2- Nondimeno, in un'annata da ottimo raccolto come quella di quest'anno, ci sarebbero stati tanti altri dischi da segnalare e che mi piange davvero il cuore dover escludere, ma il dado èormai tratto: leggendo le tante altre ottime powerpop top lists in giro per la rete avrete modo di scoprire tonnellate di altri album meritevoli;

3- La classifica, come al solito impostata in ordine inverso per chiare logiche di suspance, sarà quest'anno divisa in sole due parti: quest'oggi si partirà dalla posizione 30 per approdare alla posizione 16, mentre domani highlights sulla top 15, che sostituirà la solita top 10. Tutte i dischi nominati saranno accompagnati da un commento flash e dai classici links.

Senza ulteriori premesse, ecco dunque a voi i migliori 30 dischi del 2011 secondo UTTT!

30. Greg Pope - Monster Suit Quarto studio album, quarto centro. Stavolta, il disco doveva essere semplicemente la colonna sonora di un suo film chiamato Giant Monster Playset. Come ci si poteva aspettare, la suddetta colonna sonora è un altro grande disco dove le supreme melodie pop sono affogate in un antiaccademico magma fatto di fuzz ed occasionali scrosci psichedelici.

29. The Wellingtons - In Transit Sette anni di attività, quattro album, due tour mondiali per una delle bands più attive sul pianeta powerpop. Il quintetto di Melbourne sciorina una serie di brani che sono pop nel senso quintessenziale del termine. Armonie boy/girl laccate oro, arrangiamenti vistosi e freschissimi e chili di quel tipico entusiasmo che sempre, nel genere, accompagna gli artisti australiani.

28. The Beagle Ranch - A Moment Away Quando il college pop è scritto e pensato per risultare immediato nella mente e nel cuore. Vagamente jangly, palesemente teen, A Moment Away agisce in fretta e non molla facilmente. I Rocket Summer dischi così non li scrivono da tempo immemore.

27. Scott Gagner - Rhapsody In Blond L'ex leader degli eccellenti Cartographer piazza un disco essenzialmente perfetto in un grande anno per i singer/songwriters. Benchè le divagazioni psichedelche e la qualità indubbia dei numeri acustici lascino il segno, Scott piazza un paio di baionettate popular da perdere la testa. A questo punto, visti i risultati, aspettarsi dall'autore una certa continuità è il minimo.

26. The Genuine Fakes - The Striped Album La Svezia ha sempre portato con orgoglio la torcia del powerpop e, benchè negli ultimi anni la quantità delle bands scandinave dedite al genere sia diminuita, bisogna dire che la qualità media continua a destare stupore. I Genuine Fakes del genietto Johan Bergqvist la prendono all'americana, e senza disdegnare melodie vitaminizzate, piazzano innumerevoli stoccate liriche su un sound degno del miglior geek rock anni '90.

25. Calhoun - Heavy Sugar Qualcuno storcerà il naso per questa scelta, vedendo del marcio in un disco che indubbiamente strizza l'occhio alla grande folla. Ma come sempre l'importante sono le canzoni e i Calhoun, con qualche prurito Arcade Fire disperso nel substrato culturale delle radici americane, sciorinano quello che se me la passate è il disco indie, Dio quanto odio questo termine, meglio riuscito e meno cafone dell'anno.

24. Longplayer - s/t Quando il mito diventa un'ossessione, e l'ossessione un grande disco. Altra band svedese ed una stella polare: Lynne, Jeff Lynne. Probabilmente, il disco che meglio rappresenta lo spirito degli ELO dai tempi di Alpacas Orgling, indimenticato classico firmato dal maestro Bleu.

23. Dropkick - Time Cuts Ties Ennesimo (siamo a nove full lenghts in dieci anni) ottimo lavoro per questa prolifica band scozzese. Il senso è sempre quello, ma i loro dischi, in un determinato ambito, sono sempre meglio degli altri. Di americanizzare i Teenage Fanclub sono capaci in pochi, e di riuscirci bene quasi nessuno. Time Cuts Ties è il disco perfetto per dare il cambio, nell'autoradio, al celeberrimo Elvyn di un anno fa.

22. The Cry! - s/t Semplice, immediato, anfetaminico powerpop con impressi a fuoco i germi del tardo punk rock, per un disco che sembra uscito dal 1981. Canzoni brevissime, spesso sotto i due minuti, ed una carica melodica che dire travolgente è dire poco. Immaginatevi i Cute Lepers, ma più sintetici e più avvezzi ad una strofa melodica in pieno stile Who. Devastanti.

21. Noel Gallagher's High Flying Birds - s/t Alzi la mano chi di voi si aspettava un ritorno simile da parte del capo degli Oasis. Ok, ce lo aspettavamo tutti, in realtà. Rispetto a Beady Eye, non indecoroso ma un filo troppo scontato, il nuovo disco di Noel è fatto esattamente di quello che ci si apetta da lui. Uno che in vita avrà scritto mille canzoni sbagliandone dieci, o forse meno.

20. The Dahlmanns - All Dahled Up Da tempo immemore non mi divertivo così tanto ascoltando del bubblegum. I coniugi Dahlmann producono una delle più frizzanti opere di settore dai tempi di After School Special dei Teen Machine, fondendo in melodie che sono pura saccarina i Ramones, i Primitives e...gli Abba!

19. Mike Viola - Electro De Perfecto Un altro autore che non ha bisogno di presentazione alcuna è Mike, uno che, per dire, sta migliorando con una carriera solista super la propria discografia dopo aver sconvolto ogni appassionato di pop music con bands come Candy Butchers, Major Labels e LEO. Sempre più confidente, sempre più preciso. E almeno due brani da inserire facilmente nella playlist dell'anno.

18. Onestop - Labor Of Like Inspiegabilmente sottovalutato dalla comunità internazionale, ma non sfuggito ai nostri radar, è il secondo lavoro dei Onestop, dopo l'ottimo esordio chiamato Pop Shop uscito cinque anni fa. Un lavoro ondivago, equilibrista nel suo essere indiepop, puramente power ed incredibilmente scintillante nella capacità di prendere possesso del cervello piazzando la canzone che non ti aspetteresti. Se non ne avete sentito parlare, un ascolto dateglielo: scommetto qualcosa che il passo successivo vi condurrà all'acquisto.

17. Supraluxe - The Super Sounds Of Supraluxe Uno dei gruppi più solidi degli ultimi anni torna con un disco che, a parte qualche svago, gioca sui fantasmi di una profonda introspezione perlopiù acustica. Canzoni che si impossessano dello stomaco senza mollarlo facilmente ed una significativa nomination per il premio "Elliott Smith 2011". Grandi emozioni.

16. Smith And Hayes - Volume 2 Quando la copertina di un disco dice tutto. Smith And Hayes, parafrasando il best of dei Beatles "One", ci regalano una serie di tracce che rappresentano il miglior omaggio ai Fab Four uscito quest'anno. Poi, come al solito, le canzoni bisogna saperle scrivere e il duo, in quanto a ciò, non ha grossi problemi. Voglia di qualcosa che sia pervicacemente beatlesiano senza trascurare lo stile? Prego, servitevi a sazietà.

giovedì 29 dicembre 2011

Tempo di classifiche: I migliori EPs del 2011!!!

Infine ho deciso di adeguarmi alla norma, così anche su Under The Tangerine Tree, per la prima volta, le classifiche sul meglio dell'anno in dirittura d'arrivo vengono pubblicate in prossimità della notte di San Silvestro. Senza ulteriori indugi, partiamo dunque con la top ten degli extended play 2011! (NB: come di consueto, tutti i titoli in classifica sono "linkati" alla recensione di UTTT, quando disponibile, oppure ai vari MySpace, Facebook, Bandcamp, Cd Baby o comunque ove sia possibile ascoltarne i contenuti ed ottenere info utili).

01. The Connection - Stop Talking

02. Drake Bell - A Reminder

03. Labradors - The Roger Corman ep

04. Paul Starling - Aimed Arrows

05. Kurt Baker - Rockin' For A Living

06. Tim Culling - Goodbye Western Sun

07. The Jellybricks - Suckers

08. Broken Bricks - Little Fugitives

09. The Janglemen - 5 By The Janglemen

10. Marshall Holland - Statistically I Should Say

E' stata un'ottima annata questa per gli eps, perciò buon divertimento!

sabato 24 dicembre 2011

Pop Detective x-mas!

Post natalizio, ed era anche l'ora, dedicato all'etichetta dal New Jersey chiamata Pop Detective. Ora, a parte il rispetto dovuto a chi ha il coraggio di rischiare l'osso del collo per il rock'n'roll in periodi di crisi nerissima per il settore, bisogna ammettere che le due uscite oggi sotto i nostri riflettori sono perfette per le spensierate settimane di festa che ci aspettano.

The Dahlmanns - All Dahled Up Gli schiavi di una logica suicida, quella che è convinta sia impossibile risultare credibili suonando musica allegra, stavolta dovranno tenere la bocca chiusa, e preferibilmente starsene zitti per un pò. Al timone, André Dahlmann, uno che, letto il curriculum, qualche garanzia in termini di songwriting la dovrebbe tendenzialmente dare. In questa occasione, il caschetto biondo alla solista dei notabili powerpoppers norvegesi Yum Yums è accompagnato dalla consorte Line, che presta zuccherosa voce ed insospettabile carisma ad un progettino che non osavo sperare così ben riuscito. L'obiettivo di All Dahled Up è divertire con ingegno e, possibilmente, tramortire con melodie da sussidiario del bubblegum interpretate all'ennesima potenza. Permettete? obiettivo raggiunto. Le recensioni, in rete, parlano inevitabilmente di Ramones, Primitives e noi aderiamo volentieri, aggiungendo che durante tormentoni inspiegabilmente adesivi come Bright City Lights, Get Up Get Down, Candy Pants e Shake Me Up Tonight i fratellini portoricani paiono fronteggiati da Blondie o da Frida degli Abba con naturalezza sconvolgente. Se Nikki Corvette o le Shivvers avessero passato più tempo al CBGB's, il risultato sarebbe stato questo: spettacolo. (CD Baby | Facebook)

Sexy Heroes - interroBang Si potrebbe coniare il concetto di "divertimento oltranzista" durante l'ascolto di interroBang, l'album d'esordio di un gruppo che, dal nome chi si è scelto, dalle espressioni che dalla copertina del disco urlano vendetta e dalle liriche paradossali di cui sono autori, non ha pretese se non quello di allietare l'auditorium con mezz'ora di sciocchezze ideologiche e ingegnose invenzioni melodiche ma con tiro. Un disco con il cuore in copertina che per essere apprezzato ha bisogno di essere consumato come una crepe calda, sul momento, mentre leggere tra le righe, ammesso e non concesso che tra le righe ci sia qualcosa, potrebbe essere inutile. Punk pop stravagante nella forma ed ondivago in contenuti sonori che comunque marcano i territori deviati del pop da scuola superiore, impetuoso e sfrontato alla Bowling For Soup (Ha Punk e Ticklish Bill sono ottimi esempi in tal senso), per poi esprimersi meglio in giochi sospesi tra il pop punk californiano e certo soft hardcore modalità Fat Wreck come Zombie Invasion, Total Vacation e Magician, piuttosto che nel trascurabile hard pop che fa da contorno al disco. Traccia migliore? La stralunata e divertentissima Louie Gee, che dei Green Day prende il prendibile e lo sfrutta pure bene. (CD Baby | Facebook)

Pop Detective official website

martedì 29 novembre 2011

Disco del Giorno 29-11-11: Baby Scream - Secret Place (2011; Eternal Sunday)

Juan Pablo Mazzola è un tipo di quelli che dieci ne pensano e cento ne fanno: ottava uscita di studio per Baby Scream, il suo giocattolo espressivo, in appena una manciata di anni, e terza apparizione per lui sulle pagine di Under The Tangerine Tree, che sempre volentieri lo accoglie. Lo avevamo lasciato l'anno passato sul gradino più alto del podio relativo alla classifica degli extended play 2010, con un dischetto chiamato Identity Theft a rappresentare uno dei migliori elaborati di Lennonismo comparato degli ultimi anni. Lo ritroviamo oggi, intento ad operare su distanza lunga con un lavoro chiamato Secret Place, e se l'opera precedente poteva considerarsi pseudo-monografica, urge specificare che stavolta Juan ha deciso di sfogarsi e rivisitare il rivisitabile.

Quando la critica specializzata, per così dire, si spella le mani per ogni tuo lavoro, purché sia aderente a ciò che gli addetti ai lavori si aspettano te, ci vuole una buona dose di coraggio per cambiare improvvisamente strada e rimettere tutto in discussione. Ma Juan è uomo audace, e le soluzioni contrapposte, ad un primo ascolto forse persino contraddittorie, che inspiegabilmente vanno a comporre Secret Place, sono li a dimostrarlo. Il tentativo parte dall'ultima chiamata, The Last Call, a far pendere la bilancia verso una sorta di moderno rock'n'roll un pò teatrale ed intelligentemente inclinato verso una logica piano/farfisa molto chic. E se la successiva Hit and Run tende ad un ritorno all'ovile, e cioè alla ballata languida di cui Juan è certamente maestro, nel corso della seguente sequenza di tracce riparte la ricerca, e si trova un pò di tutto: dall'americana, a dir la verità molto ben riuscita, della title track, al folksinger a cuore aperto di Going North, per poi passare agli aspetti più clamorosi della vicenda, ovverosia l'improvvisato soulman che si palesa durante Patiently e soprattutto il reggae, davvero inaspettato, che appare alla traccia numero cinque ed intitolato Cold Weather Reggae, per l'appunto.

Il risultato complessivo di un lavoro, per così dire, onnivoro, è davvero buono soprattutto se si considerano le mire di un'operazione simile. Tuttavia, dovendo essere onesto, mi sento di dire che i gioielli nascosti in Secret Place, e scusate l'involontario gioco di parole, sono quelli che ci saremmo aspettati da un disco dei Baby Scream. Quindi, per conseguenza logica, i primi due gradini del podio li assegniamo a London Sun, con i suoi caratteristici ed evasivi tratti psichedelici, ed alla conclusiva e meravigliosa Eating My Face, ballata durante la quale, come consuetudine da queste parti, compare il salvifico fantasma di John Winston Lennon.

Secret Place è un tentativo lodevole, peraltro riuscito più che discretamente, di animare e rendere armonica una collezione di brani prelevati dai generi musicali più disparati. Poi, se avete imparato a conoscere l'autore, e ci sentiamo di dire che a questo punto dovreste, avrete imparato altresì ad apprezzarne le qualità. Quando leggo Baby Scream io il prodotto lo compro sapendo che, prima o poi, ci sarà un momento del disco, almeno uno, che mi folgorerà.

mercoledì 9 novembre 2011

Disco del Giorno 09-11-2011: An American Underdog - Always On The Run (2011; Pop Factory)

Un perdente americano, An American Underdog. Nomen Omen, verrebbe da pensare, ma forse è un pò troppo duro con se stesso, Andy. Si ma, Andy chi? Se il nome d'arte non vi dice niente, non preoccupatevi: trattasi di disco d'esordio, almeno nominalmente. Always On The Run è nei fatti il secondo album di studio di Andy Reed, il cui debutto, quella volta edito a nome e cognome di battesimo dell'autore, entrò nella top 10 riguardante i dischi usciti nel 2008, ed a buona ragione. Esimio esempio di cantautore pop, Andy capeggia quel nutrito manipolo di simili interpreti (Adrian Whitehead, Brett Harris, Justin Kline tra gli altri) che tante soddisfazioni ci sta ultimamente dando. E basta dare un'occhiata all'apertura, affidata alla solenne Your Reign Is Over, per capire che l'ispirazione, dalle parti di Bay City, Michigan, non si è assolutamente esaurita.

What's Out The Front Door? si chiede Andy, e, parafrasandolo, contempliamo una risposta che più lusinghiera non si potrebbe. Beautiful Dreamer, tanto per far percepire il talento dell'artista, è una fioca ballata, scheletrica e vagamente lisergica, talmente inventiva da ricordare persino il Robert Harrison di Spin My Wheels, o anche di Pine Box Builder. Poi la title track, sfuggevole superficialità ragionata, più Harry Nilsson che Paul McCartney, però interpretata da un Brendan Benson (che ultimamente riappare spesso, nelle recensioni di questo blog) o da un Jim Boggia, per dire. The Day The World Was Lost, un pò Elliott Smith, quello meno depresso, è una suprema ballata per coronarie forti, dove l'estrema dolcezza di facciata non nasconde l'interiore tumulto. E che archi, nel finale. Nothing I Can Do, che con il brano precedente rappresenta la coppia meglio assortita del disco, è invece sinonimo di r'n'r come potevano essere r'n'r i tardi Beatles, stagionati in botte per quarantadue anni, però.

Il resto del disco è contorno prelibato e si sa che, nei grandi ristoranti, il più semplice contorno è molto meglio del piatto principale di un ristorante normale. Fuor di metafora, per le tracce che restano, Andy Reed dimostra passione e competenza quando si tratta di maneggiare i sixties (in qualche modo, World Of Make Believe) specie quelli più soleggiati (ottimo il tiepido simil Beach Boys sound di Put Out The Fire). E se il nome d'arte evoca l'America, in qualche modo l'America doveva centrare, così ecco che la chiusura è assegnata a Train, grande ballata da estremo occidente che da null'altro poteva essere ispirata.

Senza dilungarci inutilmente, e del resto questa recensione sembra abbondantemente sbilanciata a favore del perdente americano, raccomandiamo caldamente l'acquisto immediato di questo piccolo gioiello da top 5. I lettori di Under The Tangerine Tree e, più in generale, gli appassionati di pop music non potranno fare a meno di Always On The Run senza vedere chiaramente incompleta la propria collezione di dischi usciti in questo generoso 2011.

sabato 29 ottobre 2011

Disco del Giorno 29-10-11: Wiretree - Make Up (Cobaltworks Music)

Da cinque o sei anni, ormai, Kevin Peroni fa la parte della gemma sempre meno nascosta nell'infinito groviglio di talenti provenienti da Austin, Texas, la città americana - e non solo - con la più alta percentuale di compositori fenomenali in rapporto al numero di abitanti. Benché da qualche anno Kevin abbia deciso di "mettere su famiglia", creandosi una band vera e propria dopo i solitari esordi di un lustro fa, il "concetto Wiretree" continua ad essere eminentemente sua esclusiva, e nonostante un certo naturale trasformismo occorso all'autore mano a mano che gli album passavano, dobbiamo ammettere che il signor Peroni continua a fornire regolarmente canzoni di un certo livello.

Tre album e un extended play a nome Wiretree, per ora, nella discoteca pop rock mondiale: se l'ep d'esordio, insieme al primo lavoro lungo Bouldin, rappresentava l'eredità vagamente heartland rock di cui Peroni disponeva a piacimento, il secondogenito Luck ampliava i passaggi nei territori indie pop popolati da Spoon, New Pornographers e chissà quanti altri. Make Up, l'oggetto di questa recensione, è una fusione tra le due visioni sopraccitate, e se proprio devo dirlo, ma potrei cambiare idea, l'ultimo album dei Wiretree sembra proprio quello fin qui meglio riuscito.

La title track, che apre il disco, è american pop paradigmatico, nel senso che, se come me ritenete Lapalco, il secondo disco di Brendan Benson, uno dei migliori album di pop americano degli ultimi dieci anni, non potrete resistere alla tentazione di ascoltarla alzando oltre il massimo il volume dello stereo. Broken Foot è un ritorno alle origini, una breve traccia che scorre sicura sulla vecchia strada tracciata dai Wilburys e che su Bouldin sarebbe stata a proprio agio, laddove Tonight e Tiny Heart paiono estratte dalle recording sessions, pervicacemente indie-pop, di Luck.

Solo nove tracce ed un disco compatto, con tanta scrittura e pochi fronzoli, registrato con un feeling live che di prese ne deve aver richieste pochine ed altre due canzoni da segnalare: The Shore, che impressiona e ci si chiede perché mai Kevin, ad un certo punto, abbia deciso di parodizzare Holiday dei Green day e la conclusiva Josephine, lattiginosa ballata perfetta per chiudere l'ennesimo inappuntabile lavoro firmato Wiretree. Se già possedete i precedenti, non ho nient'altro da aggiungere; se siete novizi, partite da questo intrigante Make Up.

CD Baby | MySpace

mercoledì 19 ottobre 2011

Disco del Giorno 19-10-11: Tony Cox - On The Way (2011; autoprodotto)

A volte ritornano. Anzi, ritornano spessissimo, a dirla tutta. L'allegra compagnia formata da Nigel Clark, già leader dei mai dimenticati Dodgy, Tony Cox e Darren Finlan ha occupato le pagine di questo blog svariate volte, e noi la ospitiamo sempre volentieri. Tre dischi a nome Offbeat nel carniere, tutti raccomandati, mentre Cox, da solo, già esponeva in bacheca un ottimo album di debutto, chiamato Unpublished ed anch'esso recensito da Under The Tangerine Tree un paio d'anni fa. Il buon Tony, famelico e produttivo, ha deciso che è tempo di sfornare il bis da solista, anche se, come nel caso delle registrazioni del suo predecessore, a fornire voce e sezione ritmica ci pensano, ma toh, rispettivamente proprio Clark e Finlan. Quando si dice gli amici.

Inconsueto esempio di autore che pur stampando le proprie generalità sulla front cover si serve della voce di terzi, Tony Cox dimostra ancora una volta di saper scrivere canzoni a profusione, senza che l'impressionante quantità di lavori a referto ne intacchi minimamente la qualità, sempre sopraffina. On The Way è dunque un altro esempio di album centrato, come tradizione impone, ma leggermente diverso da Unpublished in quanto Tony, in questo nuovo episodio, decide di abbinare, oltre alle consuete ispirazioni “sessantiste”, parecchi input addebitabili al tipico soul radiofonico di metà anni settanta. We'll Get High, per dirne una, è soul pop come Dio comandava qualche lustro fa, e se avete presente la tappezzeria musicale kitsch da cui sono coperti certi tentativi di riproduzione del genere, avrete capito quanto sia difficile rimanere credibili. Tony ci riesce con facilità, serafico e sornione, anche durante lo spensierato andazzo di Drop Me Like a Stone, ma i fans abituali non si straniscano, perchè il disco continua comunque ad essere colmo di quelle sonorità, sostanzialmente pop vocal, per cui abbiamo imparato a conoscerlo.

Certo, se al microfono puoi presentare Nigel Clark è facile, verrebbe da dire, e infatti la title track propone una spettacolosa esibizione del suddetto, che maneggia con estrema grazia e personale inventiva le proprie corde vocali, grande regalo di Madre Natura. Proseguendo, e passando alle specialità della casa, urge citare la coppia di brani formata da Hold Me Angeline e da No More Lies, un po' Hollies e un po' no, che si buttano giù come un bicchier d'acqua, e per rifinire un album già così inattaccabile, mr.Cox ci ricorda quanto il talento di comporre una ballata non banale sia naturalmente nelle sue corde. Che preferiate l'evanescenza acustica di Gone For Good o l'assetto power ballad di Curse Of Love, qui ce n'è per tutti i gusti. Senza dimenticare che, ad avviso di chi scrive, il pezzo migliore del lotto sorvola l'Atlantico, ed il premio va all'astuzia sfacciatamente Beachboysiana di Feel The Ride, gemma neanche troppo nascosta di un album, On The Way, che molti tra voi sanno di dover inserire nella propria collection ad occhi chiusi.


CD Baby | MySpace

giovedì 29 settembre 2011

Disco del Giorno 29-09-11: The Red Button - As Far As Yesterday Goes (2011; Grimble)

La formula per la canzone pop perfetta esiste, forse, nascosta molto bene da qualche parte. Difficile da trovare, comunque. Si può azzeccare un verso, una strofa, una canzone. Se si è fortunati, persino un disco intero. Ma insistere sulla stessa forma è pericoloso, molto pericoloso. Soprattutto giunti al varco del secondo disco, se ne hai fatto uno prima strepitoso, quando tutti ti aspettano pronti ad impallinarti ad ogni minimo errore. Ah, il potere dell'attesa!

Seth Swirsky e Mike Ruekberg devono aver fatto più o meno la stessa riflessione, e ad un certo punto devono aver pensato che, tutto sommato, la forza dei migliori artisti è quella di copiarsi senza ripetersi. Si ma, ripetere che cosa? Facciamo un passo indietro. Era il 2007, l'anno di grazia che ci regalò She's About To Cross My Mind, la prima esperienza a nome Red Button di Seth e Mike. Impatto nella comunità pop internazionale? Devastante. Quel disco, che nella classifica di fine anno pubblicata da UTTT finì al decimo posto, e che pensandoci ora avrebbe meritato almeno la top 5, era il capolavoro merseybeat del nuovo millennio. Visti i presupposti, immagino sia stato difficilino sopportare le pressioni di tali e tante aspettative. E dire che nel frattempo Seth non era stato certo con le mani in mano. Lui, uno dei grandi couturiers musicali della costa occidentale, se n'era uscito lo scorso anno con un piccolo capolavoro di soft pop chiamato Watercolor Day, che a scanso di equivoci aveva "fatto" la top ten di questo blog come da tradizione della casa.

Dunque? Primi ascolti, problematici. She's About To Cross My Mind era un disco di singoli, di canzoni bell' e pronte, di hit istantanee. As Far As Yesterday Goes no. O più precisamente, un pò meno. Sia detto subito, anche ascoltato decine di volte (e ciò in parte spiega la lunga gestazione di questo articolo) il nuovo Red Button non raggiunge la cifra espressiva del suo predecessore. Va anche detto, però, che questo album è un album diverso, e diverse, necessariamente, dovranno essere le modalità di assunzione. In parole povere, se un ascolto non basta ne serviranno tre, e sarete pronti ad adottare anche questo nuovo lavoro. Un lavoro che parte da dove il discorso era stato interrotto, così Caught In The Middle (insieme alla strepitosa I Can't Forget, posizionata verso la fine dell'album e sempre firmata da Ruekberg) è un clamoroso e magnetico omaggio ai Beatles di Hard Day's Night pronto a farvi ballare al primo ascolto. Ma è il resto del discorso ad essere leggermente differente.

As Far As Yesterday Goes sembra trovare Swirsky e Ruekberg in un periodo di riflessione, e ciò non vuol dire nulla di male. La title-track, per esempio, è un raffinato e cristallino omaggio agli Zombies che furono, mentre la meravigliosa Picture è uno spaccato di Bacharachiana bellezza dedicato a tutti i cultori di certo west coast sound. Ci sono le parenti frivole, come si conviene, così la saltellante Sandreen è un ottimo diversivo, ma bisogna riconoscere che - a parte una nuova attenzione per il jangle evidente durante l'ascolto di Girl, Don't e She Grows Where She's Planted - il miglior Swirsky, in questo momento, è il songwriter bello calato nei 70's (vedasi
la fumosa ma godibilissima Easier) oppure, ancora meglio, il classico troubadour da ballata pianochitarra della conclusiva Running Away.

Abbiamo detto che As Far As Yesterday Goes, il secondo album dei Red Button, non è all'altezza del primo. Confermo, ma tenete presente due cose: l'esordio era un miracolo bello e buono, difficile da eguagliare. E il fatto che questo nuovo album non ci sia riuscito non significa che non sia un altro disco a firma Ruekberg / Swirsky ben al di sopra della qualità media odierna. Ergo, di scrupoli fatevene pochi, e mettetevi in casa un sicuro top ten della classifica 2011.

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lunedì 29 agosto 2011

Disco del Giorno 29-08-11: Chris Difford - Cashmere If You Can (2011; SMMC Media)

Ho gettato alle ortiche una famiglia, una fortuna e una moglie. Questo il vecchio, e vecchio sia detto con affetto, Chris. Una riflessione nient'affatto polemica ma piuttosto brutale, contenuta nella gelatina glam-a-billy di 1975, traccia iniziale per il nuovo lavoro di studio di Difford, autentica leggenda quando si parla di union jack in chiave pop. Un'opera nostalgica ma non lacrimosa. Diciamo un bilancio, scritto e presentato con la classe irripetibile di colui che fu il paroliere degli Squeeze, band che storicamente occupa un intero capitolo della nostra personalissima home made Bibbia sul powerpop. L'excursus doveva per forza cominciare in un quartiere della Londra meridionale, dove un gruppo di ragazzini formano una band spinti dal sogno del successo ed arrivano dietro all'angolo di Top of the Pops. Il resto, storia, è contenuto nell'enunciato che apre questa piccola recensione. Il fatto che poi Difford dica "non mi sto piangendo addosso, è stato comunque un viaggio fantastico", sia specificato a suo merito.

Cashmere If You Can è un disco bellissimo, per uomini soli davanti ad un bicchiere, per anime tormentate e cuori robusti. Un disco da penombra e da sigaretta della buonanotte e da autoradio notturna, magari non per tutti i gusti, ma tant'è. Un'opera tutta giocata su potenti riverberi emotivi, strutturata attorno a diversi stili sonori ma comunque sempre profondamente sincera e toccante. Il nocciolo della rete di sostegno alla forbita prosa di Difford è un variopinto schema da cantastorie, alla qual riuscita concorrono, con consueta perizia e lungimiranza registica, il fido Boo Hewerdine e, nientemeno, Leo Abrahams, quotato produttore che nel curriculum, tra gli altri, vanta Byrne, Eno e Barat. Per rendere un'idea che in ogni modo dovrebbe già essere sufficientemente chiara, andiamo a rileggere alcuni tra i titoli che compongono l'album: Like I Did, Back In The Day ("i'm still living my improbable dream"), Wrecked, Happy Once Again. Basta così? Possiamo trarre tutte le conclusioni del caso, direi. Chris Difford, con il tipico piglio di quello straordinario storyteller che è sempre stato, decide di riannodare i fili di una vita piena come poche e raccontarla a chi, forse un pizzico esagerando, avrebbe sempre sognato di vivere la sua. Ecco, il concetto sgorga naturale dalle parole, e dunque, non fosse chiaro, devo sottolineare che Cashmere If You Can è un disco per veri fans del personaggio, sia detto senza offendere nessuno.

Pensoso, raffinato e, come sempre, assolutamente geniale, proprio come ve lo sareste aspettato. Parafrasando l'autore intento a sottolineare il senso della meravigliosa Upgrade Me, diciamo che è una pena non poter starlo ad ascoltare per ore, talking cricket, drinking Stella, discussing women. Che poi forse di cricket non potrei parlare compiutamente, ma potrei sempre chiedere conto a Chris, tra le tante altre cose, di quella ragazza di Clapham.

mercoledì 3 agosto 2011

Graditi ritorni (a.k.a. Let the summer begin!)

Due graditi ritorni per tutti i drogati di powerpop e questioni similari.

Bruce Brodeen, quanto vi manca? Molto, moltissimo, anche a me. Chiusa la leggendaria esperienza chiamata Not Lame, il vecchio Bruce, uno che quando parla di powerpop è cassazione, non si è di certo dissolto nel nulla. Girano vari progetti, soprattutto in rete. Il più interessante è in fase di definizione e si chiama Pop Geek Heaven, dovrebbe essere attivo entro l'estate e dovrebbe trattarsi di una sorta di comunità online powerpop. Che significa, vi starete chiedendo? Al momento non ne ho idea. Nondimeno, non vedo l'ora di scoprirlo. Nell'attesa, il signor Brodeen ha pubblicato il primo volume della serie Powerpop Prime, raccolta che dovrebbe essere composta da otto libri. Partendo curiosamente dal volume 7, Bruce si propone di raccogliere il meglio di sedici anni di recensioni pubblicate settimanalmente sul sito della Not Lame tra il 1995 (anno della nascita) al 2010 (triste anno della sua chiusura). La prima uscita, recentissima, si occupa del biennio 2007/2008, e non so perché Bruce abbia deciso di non seguire un preciso ordine temporale. Ora, mi sembra superfluo disquisire sull'importanza storica di un lavoro come questo, mentre giova ricordare la necessità di fiondarcisi immediatamente. Il libro, infatti, è stato stampato in una limitatissima tiratura di 998 copie e non dovrebbe essere disponibile a lungo. Se ciò non bastasse ad indurvi subito all'acquisto, aggiungiamo che in allegato, ovviamente, troverete una compilation comprendente svariate chicche del periodo oggetto della trattazione (pezzi di Brad Brooks, Favorita, Vibeke e Three Hour Tour, tra gli altri) e che la raccolta, tra qualche anno, potrebbe diventare un pregiatissimo articolo e-bay.
L'altra grande notizia, peraltro largamente anticipata, è rappresentata dal ritorno sulle scene dei Fountains Of Wayne, che da queste parti sono considerati veri e propri campioni. A quattro anni di distanza dal deboluccio Traffic & Weather, la band del New Jersey decide di smentire con decisione le voci che li davano, oramai, poveretti, in fase irrimediabilmente discendente. Il nuovo lavoro, Sky Full Of Holes, da quanto ho potuto pre-ascoltare, sembra davvero vincente e potrebbe posizionarsi, nella classifica della discografia firmata Collingwood/Schlesinger, subito alle spalle dei capolavori Utopia Parkway (1997) e Welcome Interstate Managers (2003).


(Non è un vero e proprio video, solo il file audio con un'immagine fissa di sfondo, ma potete gustarvi la sontuosa Someone's Gonna Break Your Heart, tratta dal nuovo album, qui)

lunedì 25 luglio 2011

e.p. del Giorno 25-07-11: Labradors - The Roger Corman Ep (2011; Il Verso del Cinghiale)

Filippo "Pilli" Colombo era la voce, e non solo, dei mai troppo compianti Suinage, band brianzola che tanta importanza ebbe nel rilancio della scena powerpop nostrana. Il cantante e chitarrista canturino, ora residente nel capoluogo lombardo, non ha perso tempo e, così come l'ex compare Flavio Torzillo, il cui nuovo progetto è già stato "recensito" qualche mese fa su queste pagine, è ricomparso sulle scene con l'extended play d'esordio della sua nuova band, i Labradors.

Ora, dobbiamo dire che Pilli è un songwriter nientemale, sissignori. Non ci fosse bastato, per comprenderlo, l'ascolto di Shaking Hands, ecco a noi una nuova, formidabile chance per ravvederci. The Roger Corman è infatti un ep perfetto, nel puro senso del termine. Venti minuti, grossomodo, scanditi da sei pezzi generalmente devastanti, non sto scherzando. Alzi la mano chi, tra di voi, non è un fan sfegatato del cantautorato powerpop alla Joe Jackson/Adam Marsland. Di braccia al cielo ne vodo pochine, e ci mancherebbe altro. Come non essere, del resto, almeno un pò, affezionati all'accattivante potenza di simili melodie soniche, scagliate addosso all'ascoltatore con piglio aggressivo il giusto, all'interno di canzoni che fanno saltare sulla sedia. Diciamo che se qualcuno avesse mai scritto un teorema sulla forma e la figurazione di quell'intersezione di genere formata da Jackson, Costello e, chiaramente, Evan Dando, l'ep d'esordio dei Labradors sarebbe potuto essere un ottimo esempio accademico.

I frammenti che compongono The Roger Corman ep sono tutti davvero meritevoli di continui ascolti, ma se dovessimo per forza citare gli episodi migliori dovremmo spezzare una lancia per l'introduttiva Just To Begin, per Devendra Banhart (che, per intenderci, nulla ha a che fare con l'eccentrico cantautore texano a livello di stile) e soprattutto per quel piccolo capolavoro chiamato Hawaii, un moderno rock'n'roll di spirito stradaiolo che, non chiedetemi il perché, mi fa pensare ad un'ipotetica e frizzantissima session in cui i Magic Numbers sono impegnati a rivisitare I Should Coco. Per la restante metà del dischetto, tutto estremamente godibile, valgano le considerazioni generali già esposte: il pantheon da cui la band trae ispirazione vi è ormai noto e, se aggiungete un songwriting di livello molto alto unito ad una sezione ritmica di grande potenza ed inventiva il gioco è fatto. Un'altra graditissima sorpresa per questa nuova età dell'oro del pop Italico.

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giovedì 30 giugno 2011

Disco del Giorno 30-06-11: various artists - Power Pop-A-Licious (2011; Beat Army)

Mr. Paul Collins è una leggenda, uno dei padri costituenti della scena powerpop, una sorta di mito: sarà banale ripeterlo ma è giusto dare a Paul ciò che è di Paul. Un signore di quasi sessant'anni che, nel 1979, mezza vita fa, dava alle stampe la pietra miliare che tutti conoscete bene, senza la quale probabilmente molti di noi sarebbero cresciuti in maniera un pò diversa. Sono passati trendadue anni, eppure Collins è ancora al timone. Nel mezzo della tournée interminabile che Paul porta avanti ormai da tempo immemore, egli incide nuovi album propri, produce lavori altrui, da l'esempio ai più giovani e recentemente ha deciso di prendersi la responsabilità della conservazione, dell'utilizzo e della diffusione del verbo powerpop. La meritoria attività si svolge sotto un vessillo dal nome perentorio: Beat Army. Dietro a quest'insegna, l'ambiziosa opera di Paul ha l'obbiettivo di connettere, per quanto sia possibile, i vari segmenti che compongono una scena tanto fiorente quanto frastagliata e vessata dall'indifferenza dei media. Lo scopo l'abbiamo detto: tutelare e soprattutto divulgare un genere sempre sull'orlo dell'estinzione.

Power Pop-A-Licious è il nome di un festival tenutosi a New York lo scorso Primo di Maggio, una sorta di Paul Collins and friends ovviamente patrocinato da Beat Army. The King of Power Pop deve aver pensato che un buon modo per diffondere la materia sarebbe stato quello di stampare una compilation omonima comprendente i performers di quella giornata, e l'idea, sostanzialmente, non sembra proprio da buttare. La raccolta, oggetto dell'odierna recensione di UTTT, comprende 16 bands perlopiù minori strette attorno alla traccia dell'unico autore noto. Indovinate di chi si tratta? Ma di Paul Collins, of course, il quale, inaspettatamente, visto il contesto, piazza un brano intitolato You Belong With Me (già presente in veste di b-side sul retro del singolo Who, Dear?) dalle chiari cadenze country/folk. Il resto del menù tende ad esplorare le tante sfaccettature del genere, e gli episodi più riusciti sono quelli ispirati all'etica skinny tie: se Why You Gotta Lie, apertura affidata a Kurt Baker, rappresenta forse la vetta dell'intera compilazione, un plauso lo meritano anche la successiva Sue Doesn't Live Here (dei Mothers Children) e l'accoppiata power-pop-punk da sballo formata da Give It A Rest e da Ruin Me, rispettivamente opere di Dirty Shames e Future Virgins.

Per il resto, ottimo il twee ante litteram dei Bam Bams ed il Costellanesimo ortodosso di Spectacles e BF's, mentre le divagazioni garage di Half Rats ed Electric Mess, insieme al pop'n'roll scassato di Walnut Kids e Baxx Sisi's, a causa di pezzi debolucci non aggiungono né tolgono molto ad una raccolta comunque parecchio godibile. Se poi l'intento è quello di preservare un genere protetto come il powerpop e tramandarlo ai posteri, da Under The Tangerine Tree il vecchio Paul troverà sempre una fedele e sicura sponda.

The Beat Army on Facebook | Buy Power Pop-A-Licious here

giovedì 23 giugno 2011

Disco del Giorno 23-06-11: Supraluxe - The Super Sounds Of Supraluxe (2011; autoprodotto)

The Super Sounds Of Supraluxe, evidentemente una delle migliori pubblicazioni di questo 2011, è la terza opera di studio per il terzetto proveniente da St. Paul, Minnesota. Una band, quella composta da Jim Risser, Bob Burns e Rich Paerson, nota alle cronache sia per il loro notevole "back catalogue", sia per un fatto curioso: il loro omonimo debutto fu indirettamente la causa che portò alla creazione dell'ormai celeberrimo blog Absolute Powerpop (non è il caso che mi dilunghi sul racconto della storia, ma se interessa leggete qui). Con delle credenziali simili era lecito attendersi molto da questa nuova uscita, e fortunatamente i ragazzi, incuranti della pressione, sono riusciti a centrare nuovamente il bersaglio grosso.

Badate, la copertina, fantastica, è ingannevole. L'iconografia beat e gli abbinamenti cromatici vagamente Pet Sounds potrebbero far pensare ad un bel tuffo nei sixties più classici, traendo così d'inganno chi dei Supraluxe non fosse pratico. I contenuti, infatti, sono quelli che tutto sommato ci potevamo (e ci volevamo) aspettare, e si propagano al solito raffinatissimi in un lussuoso alternarsi di supremo rock americano e continue riflessioni perlopiù acustiche. L'album si apre con Every Little Piece, e sono subito grandi emozioni. Il brano, rigorosamente acustico, evoca tanto il maestro Ellitot Smith quanto nuovi troubadours del settore, ed in questo caso mi compiaccio nel citare, a titolo di esempio e anche un pò di pubblicità, il genietto australiano che di nome fa Tamas e di cognome Wells. Il prosieguo è affidato a Setting Sun, uno dei migliori brani del disco, che cambia decisamente l'atmosfera con il suo trascinante midtempo, con il bridge più catchy del 2011 e vari inserti vagamente psych davvero di pregio, mentre Lester Bangs, traccia numero 3, rappresenta il momento più sessantista dell'album, con quello stile soft rocker dalle movenze chiaramente retrò che ricorda recenti autori noti ai lettori di queste pagine come gli Offbeat.

L' album, anticipavamo, è costruito sul costante alternarsi di episodi prettamente acustici e brani american rock di grande livello, così, in un susseguirsi di grandi emozioni, che poi sono il vero filo conduttore del disco, si avvicendano crepuscolari riflessioni acustiche come When You're Down e Summer Bummer, che rievocano i primi, inavvicinabili Kings Of Convenience, e spezzoni di tipico rock a stelle e strisce come New York City's Not Alright, titolo che ci azzecca parecchio con la definizione "rock ovviamente urbano" e soprattutto come la favolosa Nowhere, grande uptempo che scomoda Rhett Miller e anche, almeno un pò, il mitologico Ryan Adams periodo Gold.

L'alternanza è il caposaldo, vero, ma tutto sommato è tempo di riflettere. Perciò, se dobbiamo dirlo, la bilancia di Super Sounds Of Supraluxe pende leggermente verso la cupa introspezione acustica, con risultati eccelsi, peraltro, che ci inducono a citare altri due brani prima di salutarvi. Le canzoni sono quelle conclusive del disco: la prima, Nail Bitter, è un lento cantautorale da lacrime che mi ricorda quando, chiuso in camera ormai tanti anni fa, rimanevo a fissare il soffitto scioccato da Either/Or. La seconda, You Are A Winner, rappresenta un ipotetico tuffo nelle sensazioni che hanno fatto del new acoustic uno dei movimenti più interessanti del nuovo millennio, e la cosa fa pensare che se i Supraluxe fossero nati nel 2001...Chissà.

venerdì 27 maggio 2011

Disco del Giorno 27-05-11: The Beginning - In Everything (2010; Uptown Hipsters)

La Svezia, l'abbiamo detto tante volte, è stata, è tutt'ora e presumibilmente continuerà ad essere una terra promessa, quando si parla di pop chitarristico. Certo, gli anni Novanta sono passati da un pezzo e con essi il periodo più sensazionale che la scena visse; periodi d'oro, quando tra Stoccolma, Boras e Linkoping si aggirava una densità di artisti powerpop senza precedenti nella storia del genere. C'erano i Merrymakers, i Beagle. I Wannadies, This Perfect Day, Dorian Gray e chi più ne ha più ne metta. I tempi sono cambiati, la densità di bands powerpop calata, mentre, in modo inversamente proporzionale, la scena puramente indie continua a crescere in modo esponenziale. Nessun dramma, in ogni caso, perchè la nazione-guida del pop scandinavo continua - insieme alla Spagna e, udite udite, all' Italia - a fare da traino a tutto il vagone europeo.

Tra le tante ottime cose che dalla Svezia continuano ad uscire, va annoverato il disco di debutto del noto hammondista scandinavo Anders Ljunggren, il quale, essendo alla prima esperienza solista, ha giustamente deciso di chiamare il proprio nuovo disegno The Beginning. Il buon Anders ci scuserà per il ritardo con cui abbiamo intercettato In Everything, disco uscito durante il 2010 ma si sa, il tempo è tiranno e peccato, tra l'altro, perché l'esordio dei Beginning avrebbe senza dubbio valso una delle prime venti posizioni nella classifica compilata da UTTT sui migliori dischi dell'anno scorso.

In Everything è un grande disco di musica pop a tutto campo, dove si sente che Ljunggren è cresciuto a pane e sixties ma si vede che non ne è pervicacemente legato. Indottrinato dai sixties e cresciuto nei nineties, verrebbe da dire, tanto sono manifeste le influenze delle due decadi di riferimento, ma il bello di un album come questo è la suprema originalità con cui il tutto viene impiattato. Schiacciamo play, dunque, e sentiamo cosa ha da dirci Anders intonando Sometimes It's So Hard. Vedrete che il ragionamento testé proposto inizierà ad avere un senso: cosa pensereste, se vi dicessi che il brano fa immaginare degli straniti Hollies persi per gli Stone Roses all'inizio di Madchester? Idea balzana, ma più o meno ci siamo. Ljunggren, a quanto pare, deve essersi preso una cotta per quel periodo solenne, e lo dimostra declamando Feel For Me, densa di hammondismo Charlatano, per chi ha orecchie per intendere.

Il resto dell'album è più canonico, ma gli undici frammenti che lo compongono hanno il pregio della personalità assoluta. Certo, il background della maggior parte dei brani è prettamente retrò, ma l'approccio modernista dell'autore li fa rimanere sospesi in una sorta di tempo senza tempo. Poi ovvio, se dobbiamo inquadrare le coordinate e cerchiare gli episodi chiave diciamo che a far la voce grossa è She Is Everything, la cui definizione potrebbe essere: pure sunshine pop for now people. Ma non solo, perchè Anders sembra trovarsi molto bene con il linguaggio psych. Ne consegue che due tra i pezzi migliori di In Everything sono Time Of Your Life, moderna nenia popedelica e soprattutto la fenomenale, assolutamente Barrettiana Seize The Rainbow, vera perla del disco. Ad infiocchettare un lavoro davvero meritevole di maggiore attenzione (scarsissime le notizie a riguardo persino in rete) concorre il duo beat pop composto da All In Time (da sballo il riff Taxman-inspired) e da We Will Win In The End, che starebbe a pennello su un album-tributo agli Hollies.

Se il buongiorno si vede dal mattino, come dicono, siamo messi bene. E se il nome che il signor Ljunggren si è scelto ha un significato, è facile dire che questo è solo l'inizio. E che le aspettative per il prosieguo del percorso sono molto, molto elevate. Anders, ti sei cacciato nei guai. Siamo sicuri che ne uscirai con stile.

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martedì 3 maggio 2011

Disco del Giorno 03-05-11: Title Tracks - In Blank (2011; Ernest Jenning)

Si può dire tutto del powerpop tranne che non sia un genere democratico. La recente ondata di artisti che si riempiono la bocca di frasi tipo "sai, la mia band suona powerpop" dimostra come questa particolare sottocultura del pop chitarristico sia magnanima, disposta a farsi suonare da chiunque. Poi certo, scrivere è un'altra cosa e cantare bene un'altra ancora. E buttare giù sceneggiature interessanti che sostengano il pezzo anche dal punto di vista lirico? Vabbè, lasciamo perdere. Il powerpop è un genere democratico perchè tutti possono suonarlo. Tende a diventare tiranno, cattivello, quando si tenta di alzare un pò l'asticella della qualità. Ma rimane sempre un rifugio caldo e sicuro, se perfino l'ex batterista dei Q and Not U, punk/hardcorers di Washington DC, può permettersi di costruirci attorno il proprio nuovo progetto. Johnny Davis, capo indiscusso di tutto l'ambaradan, ha però una serie di vantaggi che in brevissimo tempo ne hanno fatto uno dei migliori interpreti in circolazione. Innanzitutto, Johnny scrive come se fosse il 1979, come se non avesse fatto altro in vita sua. In secondo luogo, il signor Davis possiede un indiscutibile talento quando si tratta di disegnare in chiaro/scuro, che quando si parla di powerpop è tanta roba. Non è facile, e quando testi così turbati riescono a mescolarsi senza sforzo ad alcune tra le melodie più vivaci e frizzanti sentite ultimamente, beh vuol dire che il bersaglio è stato grossomodo centrato.

In Blank è il secondo album dei Title Tracks, ora una vera e propria band dopo che l'esordio - It Was Easy, uscito lo scorso anno e numero 18 nella classifica di UTTT riguardante i migliori dischi del 2010 - era in sostanza un progetto solitario di Davis, e che album. Undici tracce di powerpop colossale, intenso, puntellato da liriche che pescano nel tormento delle relazioni interpersonali ma nondimeno spumeggiante, adesivo come poche altre cose in giro attualmente. L'architettura è quella classica, quella che potevate trovare sui libri di design powerpop tra la fine dei settanta e l'inizio degli ottanta, e se tiriamo in ballo Elvis Costello e il primo Paul Collins, a livello di fonti di ispirazione primarie, non andiamo tanto lontani dall'obbiettivo. Il drumming è potente ed essenziale, perfetto sfondo al tanto scintillante quanto elementare e senza fronzoli approccio alla chitarra di Johnny Davis. Il disco è registrato in mono, la produzione è viscerale. I brani di In Blank, nel complesso, sono strutturati con una sequenza che fa pensare ad una compilation bubblegum dei primi anni ottanta: sebbene il lavoro sia quantomai coeso, le tracce sono pensate e scritte per stare in piedi da sole, ed infatti ogni frammento del disco è un potenziale singolo.

Con un coltello alla gola, richiesto di pescare il meglio, non esiterei a scegliere due tra i migliori brani powerpop sentiti negli ultimi tre anni come Light Sleepers e come la conclusiva Winners City, e peccato che le radio non trasmettano più confetti del genere. Per segnalare, infine, il gusto dell'artista, una nota di merito la spendiamo volentieri per la riuscita cover di I Can't Hide, l'indimenticato brano dei Flamin' Groovies. Una nomination per la top 10 di fine stagione è già stata spedita a casa Davis, con cui, tra l'altro, ho avuto modo di parlare dopo un favoloso (e purtroppo deserto...ah, beata ignoranza) concerto che i Title Tracks hanno tenuto in zona un mesetto fa. Pensate che il ragazzo pare essere ai primi approcci con la materia. Quella sera mi stavo occupando della selezione musicale post-concerto e Johnny mi ha detto "veramente favolosa la roba che stai mettendo, mi scriveresti su un foglio i titoli dei brani?". Gli ho regalato una decina di cd. Se li è meritati.

giovedì 28 aprile 2011

Disco del Giorno 28-04-11: Mmoss - i (2011; Wild Honey)

L'esaltazione della tarda adolescenza, della prima età musicalmente cosciente, rivive nei solchi di i, primo album di studio dei Mmoss. Bizzarro il nome del gruppo, minimale ed insondabile il titolo dell'album. Conosciuta invece, hai voglia, l'etichetta discografica: trattasi di prodotto Wild Honey, label nostrana non nuova ad uscite particolarmente brillanti. I Mmoss provengono dal New England e mi riportano agli heydays della moderna psichedelia, in tutti i sensi. Ai Bipolaroid, agli Zinedines, ai Murmurs of Irma. A tutto quel sottobosco, ma sottobosco per davvero, che tra il 2003 ed il 2006 sembrava sul punto di esplodere e poi, come sempre, non è successo niente. Neo-psychedelia, che grande amore. Neo, certo, ma con i piedi belli piantati nel passato.

i non è un disco, è una raccolta di emozioni. Un tour sensorio con il batticuore, e se la band proviene da quel lembo di terra schiaffeggiata dall'Atlantico del nord compresa tra North Boston ed il New Hampshire (il New England, appunto) un motivo ci sarà. Nel senso che l'album di americano denota veramente pochino, risultando invece un ottimo e competente estratto di tarda british invasion. Dico tarda perchè il periodo di riferimento difficilmente precede l'estate del '68, ed ora vediamo perchè. Tutto sommato, non sembra esagerato asserire che frammenti quali As Above e Kitty Sorrow flirtano con il prog primordiale: il sapiente uso di flauti e simili sta li a dimostrarlo, del resto. Un prog, per essere chiari, ancora assolutamente psichedelico nel senso e nella sostanza, ma si sente che i ragazzi stanno cercando il limite e forse non lo trovano.

Meglio così, anche perchè per trovare il top nell'album bisogna spostare il calendario qualche mese addietro, aggiornandolo alle settimane d'uscita di singoli come "Tell Me a Story" di Kippington Lodge, "I See The Morning" dei Penny Peeps e "My Clown" dei July, anche se l'interpretazione dei Mmoss risulta essere leggermente più scura ed introspettiva. Non proprio sempre, se vogliamo essere onesti, perchè la sublime marcetta chiamata Molly Molasses mette il buon umore. Ma non caratterizza il disco. Perchè il disco, dicevamo, è principalmente fatto di viaggi, anche lunghi e strumentali (And I Do Set My Bow In The Clouds, Epistle to Shon), e di strane nenie fuori dal tempo come Woolgathering, che sembra uscita da SF Sorrow, e come Maryanne Rising, il brano del disco preferito da chi scrive, che non può non intenerire chi tuttora venera i Floyd di Barrett ed odia tutta la loro produzione successiva. A livello di psychedelic rock, oggi ed in America, difficile trovare di meglio.

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venerdì 8 aprile 2011

Disco del Giorno 08-04-11: Love Boat - Love Is Gone (2011; Alien Snatch)

Qualche anno fa pareva una boutade. Una cosa impossibile, un progetto senza senso. Dettato più dall’orgoglio che dalla ragione. Oggi no, oggi si può. Avessi tempo e soprattutto soldi a disposizione, il primo volume della serie Italian Pop Overthrow andrebbe in porto con una tracklist di livello mondiale. Non sono mai stato particolarmente nazionalista e di certo non lo diventerò ora, ma ancora una volta devo convenire su un fatto: la scena pop italiana gode di inspiegabile ed entusiasmante salute. A dare ulteriore linfa a questa convinzione ci pensa un manipolo di sardi tarantolati, che dall’Isola esportano uno dei più frizzanti, eccentrici, esaltanti esempi di beat pop che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi cinque anni.

Loro si chiamano Love Boat, e questo Love Is Gone è il secondo album di studio dopo il notevole esordio Imaginary Beatings of Love, disco che aveva prepotentemente portato sulle mappe del pop europeo questo terzetto di ex garagers cagliaritani. Si preme il tasto play e si finisce in un beach party nel bel mezzo della scalmanatissima ora dell’aperitivo, in un tourbillon di sabbia trasportata dalla brezza marina, di sudore e di alcool. Ma soprattutto di grande rock’n’roll. Love Is Gone è un disco beat pop, questo lo abbiamo detto. Un beat pop tutto giocato sugli originali dialoghi tra chitarre acustiche ed elettriche, sparato in faccia senza i fronzoli di produzione che in contesti simili di solito infastidiscono non poco. Volete chiamarlo lo-fi? Non siamo troppo lontani. Diciamo che si tratta di rock’n’roll melodico alla Alien Snatch, che non a caso è l’etichetta discografica della band. Amiamo cose del genere.

My Cousin’s Place, spettacolo puro, apre le danze, connotando immediatamente tutto quello che c’è da scoprire. La voce melodiosa e la tonalità impossibile di Andrea; gli arrangiamenti sontuosi che tengono in ordine un disco sempre sospeso tra lo stupore di intuizioni melodiche geniali ed il caos controllato più assoluto. E si balla, con l’incontrollabile Cannonball e con le tremende sbandate di american r’n’r che fanno di Pleased To Be Gray una delle pietre preziose del disco. Il climax western continua a tirare le fila di Wooden Spoon, mentre Modern Ties abbassa i toni sembrando quasi riflettere, prima che le conclusive quattro canzoni spettinino definitivamente l’ascoltatore. Tra queste ultime un sentito plauso lo merita Telling Jokes, una bomba ad orologeria dove emerge in tutta la sua nitidezza il talento di questi folli ragazzi per la letteratura rock’n’roll. Il passaggio strofa-ritornello, la regola più antica della musica popolare, è gestito con tanto e tale genio da lasciare a bocca aperta e perché no, da spedire i Love Boat nella classifica che riguarderà i migliori dischi del 2011.

Nove pezzi, zero riempitivi, una dose di divertimento sufficiente a passare tutta l’estate con un sorriso idiota stampato in faccia. Il rock’n’roll, che vi piaccia o meno, è questo. Spettinatevi il ciuffo ogni tanto, posers. E fatevele due risate.

lunedì 28 marzo 2011

Un aiuto subito per Robert.

Robert Harrison dei Cotton Mather, l'uomo che scrisse il mio disco preferito di tutti gli anni '90, ha bisogno di aiuto. Nell'intento di divulgare il più possibile Kontiki, il capolavoro del 1998 fuori stampa ormai da diversi anni, Robert ha deciso di pubblicarne una versione deluxe. Nei suoi sogni il risultato dovrebbe essere un doppio cd: in aggiunta all'album originale, infatti, ci sarà un secondo disco colmo di versioni alternative dei brani e di outtakes. Per riuscire nell'intento - e sembra incredibile che nessuna casa discografica si prostri per ristampare una simile opera di genio - il signor Harrison necessita di un contributo di circa 12000 dollari da raccogliere entro la fine di Maggio. Cliccando su questo link troverete tutte le informazioni necessarie. Inutile dire che con un risibile esborso economico (l'offerta minima è di 25 dollari) entrerete a far parte della storia di quella che io amo definire la NOSTRA musica. E non ci vuole neanche tanto. Dei miei lettori mi fido, non possono fare finta di niente.

martedì 15 marzo 2011

Disco del Giorno 15-02-11: The Secret Powers - What Every Rose-Grower Should Know (2011; autoprodotto)

Shmed Maynes è ormai un resident sulle pagine di Under The Tangerne Tree e, cosa più importante, un habitué delle classifiche di fine stagione. Due top ten in tre anni sono tanta roba, e siccome non sono il solo a pensarla così (per credere, pregasi di visionare le analoghe classifiche di David Bash e di Powerpopaholic), possiamo ragionevolmente affermare questo: i Secret Powers sono una tra le realtà più importanti della scena pop d’inizio millennio, senza storie.

Ne ha fatta di strada, Shmed, in tutti i sensi. Da Los Angeles, dove sulla carta d’identità, alla voce “occupazione o lavoro”, compariva la nota “chitarrista turnista per la band di Sky Saxon, quello dei Seeds”, a Missoula, Montana, in un cheto ambiente agreste dove pensare e registrare in proprio musica popolare contaminata da elementi di puro genio.

Tutto quello che un coltivatore di rose dovrebbe sapere”. Questo l’enigmatico titolo del quarto album di studio dei Secret Powers, che senza sorpresa scopriamo essere combriccola di pollici verdi. Un album dove però, per essere chiari, le evidenze superano di gran lunga gli enigmi. Solito discorso: pop progressivo all’ennesima potenza, dove un genietto che nel testamento di Jeff Lynne la farà da padrone, piazza un'altra raccolta di gioielli che verosimilmente troverà spazio tra i primi dieci, una volta che l’anno 2011 sarà terminato. L’inizio, come di consueto quando a prendere la parola è Maynes, è di quelli che inchiodano alla sedia. Godetevi la struttura di Generation Ship, e ditemi se non vi vengono in mente i grandi momenti musicati dall’Orchestra della Corrente Elettrica. E se gli ELO, o meglio, se la storia di Lynne è la guida da consultare nei momenti difficili, provate a sostenere che Shmed Maynes sia una persona monotona. Tarantula, traccia numero due, vero e proprio inno nazionale per gli aracnofobici come il sottoscritto, potrebbe far pensare, con un piccolo azzardo e un po’ d’immaginazione, ad un brano retroattivo firmato Nielsen/Zender ed interpretato dai Move.

La prima parte del disco è miracolosa, e la title track, con un testo preso pari pari da un libro di botanica, è il paradigma del pop progressivo (verrebbe da dire “progressista”) del terzo millennio. Candy, altra succosa prelibatezza, è un dolce e swingheggiante sunshine pop in battere, mentre I’ll Be Home è un piccolo omaggio, peraltro commovente, alla cultura western. La seconda parte dell’album, con cui comunque il 90% dei gruppi camperebbe per decenni, non è esattamente all’altezza della prima ma non mi lamenterei, sarebbe stato troppo. Detto questo, la parte debole di What Every Rose-Grower Should Know ospita quella che a parere di chi scrive è la migliore canzone dell’intero album. Queen Of Bizzarre è tutto quello che una pop song rivoluzionaria può essere. Di incarnazione in incarnazione, c’è tutto: hard pop extravaganza, certo, però con una linea melodica da canticchiare sotto la doccia dopo il primo ascolto.

Niente, difficile concludere, ma permettetemi: Se Maynes e soci non sbagliano un colpo, un motivo ci sarà. Oggi, i Secret Powers sono tra i tre/quattro gruppi apparteneti alla vera scena pop degli scantinati americani che siamo sicuri di tramandare ai posteri, quando una futura Not Lame si riferirà ad una band del 2025 dicendo “questi mi ricordano Shmed. Shmed Maynes”. Enciclopedici.

lunedì 28 febbraio 2011

Disco del Giorno 28-02-11: various artists - Hearts on Fire: Sweet Relief vol.2 (2010; Jam)

Il blog è attivo da più di tre anni, e solo ora realizzo che in tutto questo tempo avrei dovuto (e potuto) parlare decisamente di più di Jeremy Morris, della sua sconfinata discografia e della fondamentale casa discografica/mail order da lui gestita. Jeremy, come semplicemente tutti lo chiamano nella comunità powerpop a stelle e strisce, è un vero e proprio santone della materia, un importantissimo punto di riferimento per tutta la scena da più di vent’anni. Ed un vero uomo dal cuore d’oro. Oltre ad essere un musicista/autore/produttore di grandissima classe, Jeremy è noto per il suo grande impegno nel sociale; impegno che profonde diffusamente anche attraverso la Jam records, la sua etichetta discografica.

Sweet Relief è una raccolta di grandi artisti powerpop provenienti da tutto il globo. Trattasi del secondo volume, essendo il primo uscito nel 2006 sottoforma di tripla compilation i cui ricavi sono stati destinati alle vittime dell’uragano Katrina che devastò le zone costiere di Louisiana, Texas e Mississippi nel 2005. Anche questa seconda uscita, intitolata Hearts On Fire, si propone il medesimo obbiettivo, ed i ricavi delle vendite verranno, più genericamente, destinate alle vittime di catastrofi naturali. Mi sembra ovvio sottolineare come un’iniziativa del genere, promossa da una delle etichette per noi più importanti, andrebbe supportata a prescindere. C’è un incentivo però, e che incentivo, rappresentato dalla proposta musicale, di livello spaziale. 24 tracce, 24 artisti tra i più importanti sulla scena guitar pop internazionale. Una qualità allucinante, una sequenza che nessun lettore di questo blog può permettersi di perdere. Una compilation tra le migliori degli ultimi quindici anni.

Si parte con la title trak, Hearts On Fire appunto, esteso e psichedelico infuso Beatlesiano scritto dal boss Jeremy Morris appositamente per questa raccolta. E si prosegue con un esaltante alternarsi di powerpop old school (Gravelberrys, Records, Lolas, DM3), geniali performance di artisti neoclassici (l’obliquo Greg Pope, gli alfieri del garage pop Grip Weeds, il professor Nelson Bragg, i leggendari Cosmic Rough Riders), il meglio del soft pop in circolazione (il sommo Seth Swirsky, le magnifiche sorprese Paisley and Charlie). Chiaramente, essendoci di mezzo Jeremy, il jangle pop, intendasi il jangle-pop migliore del pianeta Terra, la fa da padrone. Così, senza soluzione di continuità, possiamo veder brillare autentici gioielli di puro Rickenbacker pop firmati da bands del calibro di Tangerines, Primary 5, Junipers, Dropkick; da artisti come Daniel Wylie e, piacevolissima sorpresa, dai Temponauts, uno dei migliori gruppi Italiani in assoluto, che essendo stati scelti per questa raccolta entrano di diritto nell’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo del jangle pop.

Otto nazioni rappresentanti il meglio del pop internazionale ed una nobile causa. Stavolta l’acquisto non è consigliato, è tassativo. Bypassate la copertina orrenda e non fate scemenze.