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venerdì 24 settembre 2010

Disco del Giorno 24-09-10: Miss Chain & the Broken Heels - On a Bittersweet Ride (2010; Screaming Apple)

Tre singoli a 45 giri sparsi tra il 2008 ed il 2009. Poi tour italiani, europei, americani, due, di cui uno appena conclusosi dopo una ventina di date spese sulla costa occidentale. Il bagagliaio pieno di esperienza l'avevano, si trattava di infilare nell'autoradio un disco lungo, puntualmente arrivato. On a Bittersweet Ride rappresenta l'esordio sul formato 33 per il combo bergamasco/vicentino e, scusate la banalità, che esordio. Di suonar rock'n'roll son capaci tutti, soprattutto se di rock'n'roll minimale si tratta; poi, riuscire a divertire l'ascoltatore è una meta che in pochissimi raggiungono, e quei pochissimi dovrebbero essere evidenziati come meritano. Figuriamoci se si parla di Miss Chain & the Broken Heels poi, tra i pochissimi degni interpreti di un sottogenere musicale (il pop'n'roll), che in Italia non ha mai raccolto proseliti. Gruppi come questi, nella penisola, sono specie protette proprio perchè assolutamente demodè, fatto che ce li rende, se possibile, ancora più cari e che, sfortunatamente per loro, sarà garanzia di anonimato duraturo negli ambienti che contano del giardino di casa.

Il disco, una bomba, è licenziato dalla Screaming Apple, grandissima etichetta teutonica che da più di quindici anni delizia chi, come noi, si è sempre trovato a proprio agio in quell'intersezione sonora dove il garage ed il rock'n'roll di base incontrano il powerpop d'annata. E di pop'n'roll all'ennesima potenza stiamo parlando, un pop'n'roll piantato con la testa e con la mente in un passato invecchiato alla grande, senza rughe, vivace come un bambino al parco giochi, frizzante come una mattinata sull'oceano. Miss Chain ed i suoi tacchi rotti non suonano garage, non suonano powerpop, non suonano rock'n'roll puro: il loro è un impasto che sconvolge tutto ciò e lo ripropone in salsa - i ragazzi non me ne vorranno - praticamente beat. Si, l'ho detto e lo confermo: per quanto mi riguarda (e a ragion veduta, avendoli osservati anche qualche volta dal vivo), Miss Chain & the Broken Heels sono un gruppo beat, e questo è meraviglioso.

Per la precisione, Astrid (voce e chitarra), Disaster Silva (chitarra solista), Franz (basso) e suo fratello Brown (batteria), sono un gruppo di beat puramente anni sessanta che strizza più di un occhio alle pop bans femminili della golden age, aggiungendo una spruzzata di powerpop (powerpop ante-littream, per la precisione) che conferisce ai brani un pizzico (solo un pizzico) di modernità e potenza ritmica in più. Per rendere l'idea, qualora non fosse chiaro, fantastici ed eccitanti brani quali Roallercoster, Mary Ann, Flamingo (la mia personale favorita) e Common Shell rappresentano plasticamente quello che sarebbe potuto succedere se Shivvers e Go Go's fossero state sorprese a coverizzare i best-of di Shangri-La's, Chiffons e Crystals. Per staccare, in un paio di occasioni (soprattutto durante Old Man e Save Me) viene a galla la passione per certa americana-pop di cui alcuni membri del gruppo sembrano essere grandi fans, ed il tutto non fa che giovare alla riuscita di un disco veramente godibile, nell'accezione migliore del termine.

La scena italiana, quella vera, lontana dall'immondizia edulcorata del Mi-Ami e di Rock-it sta lentamente ma inesorabilmente rinascendo, e gruppi come Miss Chain & the Broken Heels ne sono una straordinaria dimostrazione. Tutto sommato, non credo serva aggiungere molto altro per convincervi a mettere le mani su uno dei dischi più divertenti, sbarazzini ed entusiasmanti di questo 2010.

sabato 18 settembre 2010

Disco del Giorno 18-09-10: The Shamus Twins - Garden of Weeds (2010; autoprodotto)

Un ottimo album omonimo nel 2004, svariate partecipazioni a compilation di settore, un disco solista, recensito su queste pagine un paio di anni fa, da parte di Tim Morrow, uno dei due boss della band. Questo, grossomodo, l'apprezzabile contributo alla causa powerpop apportato dagli Shamus Twins, gruppo che, dopo lunghissimo periodo di pausa e varie anticipazioni, alla fine è tornato con il secondo studio album della carriera, intitolato Garden of Weeds. Un disco solido, breve, senza cadute di tono, che naviga sicuro nelle proprie acque territoriali senza disdegnare qualche divagazione in termini di tono, genere ed atmosfera. Generalmente amo lavori di questo tipo: un disco, se deve durare due ore, deve avere valide giustificazioni, altrimenti, meglio mezzoretta intensa, non c'è che dire.

Garden of Weeds è, in sostanza, il parto di Tim Morrow, una vecchia conoscenza da queste parti, e Jerry Juden. Due vecchi amici, compari, collaboratori, e si sente, eccome. Disco solido, dicevamo, grazie anche e soprattutto all'affiatamento degli autori, che si riflette sia nelle armonie vocali, molto ben intersecate, sia nella scrittura (ognuno contribuisce per la metà dei brani), che risalta per ingegno e si riflette nella coesione dei vari frammenti nel risultato complessivo. L'album si apre con il classico, cristallino powerpop di You Know My Name, brano liberamente ispirato agli albori del fenomeno skinny tie inglese e che sarebbe stato a pennello, fosse stato scritto trent'anni fa, su Music on Both Sides. Chi si aspettasse, a questo punto, un filotto di canzoni omogenee rimarrebbe tuttavia deluso. Morrow e Juden, infatti, sembrano nutrire un amore viscerale per certo rock'n'roll tradizionale ed infarcito di soul, e ne riempiono la pancia dell'album con il trittico I Never Been Happy/I Know I Know/Did You Have to Change, sorta di triangolo rituale tributato alle origini della musica giovanile. Nondimeno, la band raccoglie i più convinti consensi quando riallaccia i rapporti diretti con il pop chitarristico di base, ed allora gli applausi li meritano Ain't Letting Go e A Picture of Her, che trasudano essenza di jangle rock sudista e ricordano l'esperienza di Tim Lee, Bobby Sutliff e dei Windbreakers tutti. Oppure la similare, ma più dolce e meno sofferta Life is Strange, già apparsa sul nono volume della serie International Pop Overthrow nel 2005. L'ovazione, permettetemelo, è però tutta per la title-track, vero tributo, amorevole e riuscito, al Sergente Pepper ed alla sua band di cuori solitari.

Garden of Weeds è un bel disco, breve, saldo e convinto. Pensato e scritto da gente che preferisce la sicurezza della qualità opposta ai rischiosi fronzoli del superfluo, e ciò è molto positivo. Certo, nemmeno la comunità di appassionati sembra essersi accorta degli Shamus Twins, e questo è un peccato. Perchè band così, non posso fare a meno di dirlo, mi ricordano sempre i ciclisti come Oscar Freire: non ti accorgi della loro presenza, ma alla fine della gara, in classifica, li trovi sempre nelle prime posizioni.

giovedì 9 settembre 2010

Disco del Giorno 09-09-10: The Offbeat - In Love Field (2010; autoprodotto)

E' bello fidelizzarsi ad una band. Gli Offbeat, ospiti per la terza volta sulle pagine di UTTT, da queste parti sono ormai di casa. Un paio di anni fa, i più antichi lettori lo ricorderanno, parlavamo dell'omonimo album di debutto del trio britannico, mentre giusto la scorsa estate analizzavamo To the Rescue, quinto classificato nella top ten degli ep 2009. In Love Field, il nuovo lavoro lungo firmato dai celebri Darren Finlan, Tony Cox e Nigel Clark, riprende da capo il discorso interrotto da To the Rescue, ed ora vi spiego perchè. Il nuovo album è nei fatti una versione estesa dell'ep 2009, inizia con gli stessi 5 pezzi e ne aggiunge altrettanti, ma guai a sfiorare con il pensiero il fatto che si tratti di una mossa commerciale. I motivi li chiarisce Finlan, quando afferma che "tutti e dieci i brani di In Love Field fanno parte di un discorso univoco, un'unica trattazione sulle varie sfaccettature dell'amore. Ogni frammento, ogni traccia, ha un preciso significato singolare, ma allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle complessivo. Ecco perchè abbiamo deciso di inserire i brani dell'ep: non ci fossero stati, il disco avrebbe perso qualsiasi significato".

Premesso ciò che era doveroso premettere, mi sembra scolastico (è la terza volta che lo faccio) trattare i contenuti veri e propri di un altro ottimo disco griffato dall'affidabilissimo combo britannico. L'amore sviscerato ed analizzato sotto dieci diversi aspetti, certo, contenuti in dieci involucri di prezioso, tipico merseybeat solare per aficionados della materia. Songwriting classico e voci competenti interpretano frammenti di uno stile che mai ci stancheremo di incensare. Per chi non avesse avuto modo di ascoltare l'extended play dello scorso anno, ricordiamo che ne fecero la fortuna piccole pepite come la scintillante She Can Make the Sun Shine ed il suo classico impianto da sing along del periodo mid-Beatles. Poi Blue Sky, dove gli Offbeat imprimono a fuoco il loro marchio di fabbrica fatto di tradizionali standard Mersey illuminati da luce californiana e soprattutto Something About the Girl, clamoroso esempio di powerpop ante-litteram, uno dei migliori brani ascoltati in tutto lo scorso anno.

Chiarito il fatto che i brani citati, da soli, farebbero la fortuna di tantissimi album mediocri, Finlan e compagnia decidono di spaccare il cappello e di arricchirli con cinque canzoni di purezza astrale, e di raggiungere con esse le vette del loro livello compositivo. Citiamo, ad esempio, Where is the Girl, a parer mio il momento migliore dell'album, dove già dalle primissime note si intravvedono la compostezza e la confidenza melodica dei migliori Turtles. Sissignori, trattasi di vocal pop al suo meglio! E che dire della straordinaria When You Got Love? Che il suo midtempo, sottofondo ad intrecci armonici davvero sontuosi, porta alla mente ed al cuore il mai dimenticato ed omonimo album dei leggendari Blue, chi ha orecchie per intendere intenda. Con Word to the Wise e A Love to Last, la coppia di tracce successive, torniamo ai tempi dei tradizionali profumi merseybeat, fatti di paradigmi semplici, tempi da balera e poster di Mindbenders ed Herman's Hermits in cameretta.

La conclusione è affidata a Jennifer Sometimes, un acustico McCartiano perfetto per suggellare un disco che, in dosi molto generose, regala all'ascoltatore proprio quello che l'ascoltatore si aspetta e forse qualche cosa di più. Perchè va bene lo stile, ma alla fine, poi, contano le canzoni. Passo e chiudo con un avviso ai naviganti: coloro che già fossero in possesso dell'ep To the Rescue non si preoccupino. E' vero che ascoltando In Love Field riconosceranno cinque "vecchi" brani, ma Finlan e soci hanno ovviato al problema vendendo il disco al prezzo di un extended play. Un buon motivo in più per supportare, oltre che la musica indipendente, l'onestà intellettuale di tre ragazzi per bene.