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mercoledì 30 luglio 2025

Blackbirds FC "Desire Lines" (autoprodotto)

 

C’è qualcosa di meditativo e necessario in Desire Lines, il disco che segna il pieno compimento della voce dei Blackbirds FC, band di Melbourne che da anni si muove con passo laterale nel territorio del pop chitarristico, evitando tanto la nostalgia quanto l’attualità patinata. Il titolo non è una metafora forzata: le “desire lines” sono quei sentieri tracciati inconsapevolmente dal passaggio umano nei prati, nei parchi, nelle città — percorsi che deviano dalla mappa ufficiale per seguire l’istinto. La musica del quintetto segue lo stesso principio: niente pose, niente scorciatoie, solo brani che si formano lentamente, come se esistessero già da tempo e la band si limitasse a scoprirli.

Jeremy Gronow guida tutto con una voce che non ha bisogno di alzarsi per farsi ascoltare, sostenuta da testi che parlano di distanze, affetti che sfumano, mappe emotive da ridisegnare. Le chitarre di Damian Sutton e Grant Shanahan si intrecciano con naturalezza: Sutton — noto per il suo lavoro nei suoni cinematici ed eleganti di The Sand Pebbles e nella raffinata malinconia dei The Earthmen — porta una sensibilità chitarristica precisa, atmosferica, capace di alternare fragilità e incanto. Shanahan, da parte sua, è una figura ben nota alla scena australiana, già con The Stems e coinvolto nella dimensione live dei Go-Betweens post-McLennan. La sezione ritmica, con Leigh Maden al basso e Michael Badger alla batteria, lascia spazio e respiro, conferendo all’intero disco un’aria di calma consapevole.

Il tono è quello della riflessione, ma non dell’immobilità. Il brano d’apertura, What’s The Half‑Life of Loving You?, sembra riflettere sull’erosione lenta di un amore, mettendo in musica la chimica della separazione con una leggerezza quasi ingannevole. Poco dopo, Lake Of Stars apre il paesaggio emotivo a una dimensione più ampia, evocando un altrove reale e immaginato, tra festival africani e malinconie universali. È uno dei pezzi più cinematografici del disco, e forse il più lirico.

C’è anche spazio per uno sguardo più interiore in Rings Around The Sun, scritta durante il primo lockdown, che suona come una meditazione sul tempo sospeso — voce, archi e organo Hammond si muovono con lentezza quasi rituale, come se ogni nota servisse a prendere fiato. Altrove, come in June Day, prevale un senso di grazia trattenuta: una giornata luminosa, ma senza l’inganno dell’estate piena, dove la melodia sembra voler restare un passo indietro per non forzare la mano all’emozione.

Ma è con Maps Will Be Burned che il disco pare esplicitare la sua poetica: lasciar bruciare le mappe per affidarsi a un percorso non tracciato, deviare con intenzione. Il brano ha un’energia più marcata, ma sempre sotto controllo, come una spinta sommessa verso la libertà.

Desire Lines non è un disco che cerca attenzione. È un disco che cerca affinità. Non alza mai la voce, ma ogni ascolto ne rafforza la presenza. È fatto per chi ama le deviazioni, le cose che non si impongono ma restano. Per chi ha imparato a riconoscere i sentieri quando spuntano sotto i piedi — senza preavviso, ma con una direzione precisa.


martedì 29 luglio 2025

Splitsville "Mobtown" (Big Stir)

 


Nel panorama obliquo del power pop americano, dove la fedeltà alla forma è spesso un’ancora e una trappola, gli Splitsville sono sempre stati artigiani attenti e un po’ laterali. Nati alla fine degli anni ’90 attorno al nucleo dei gemelli Matt e Brandt Huseman (già fondatori dei leggendari Greenberry Woods), affiancati dal bassista Paul Krysiak e dal batterista Tony Waddy, il gruppo ha sempre coniugato spirito indipendente e classicismo pop con una coerenza rara. Il loro ritorno con Mobtown, a più di vent’anni da Incorporated, non ha nulla della reunion nostalgica né del gesto stanco. È un disco che non chiede il permesso di esistere e non fa concessioni: parla con naturalezza a chi ha orecchie allenate a riconoscere la complessità nei suoni semplici, e non ha bisogno di ostentare nessuna reinvenzione. Suona come un nuovo capitolo, non come un epilogo.

Il titolo stesso — Mobtown, soprannome ottocentesco di Baltimora — è già un manifesto. Non è un album “su” una città, ma “dalla” città, intesa come geografia affettiva e storica, tra frammenti urbani, narrazioni personali e memorie condivise. Ma non c’è mai compiacimento, né didascalia: è una scrittura filtrata, stratificata, che trasforma strade e stazioni in metafore e piccoli drammi.

L’avvio con Cold Open è diretto e luminoso, quasi a voler mettere subito in chiaro le cose: riff chiaro, ritornello immediato, voce che non forza mai. Va bene la memoria, va bene l'analisi, ma insomma cerchiamo di tirare dritto. Da lì in avanti, il disco si apre in più direzioni. A Glorious Lie, uno dei brani più articolati, persino para-prog nello stacco sul finire del brano, prende spunto dalla storia del Belvedere Hotel per costruire un affresco malinconico e barocco su illusioni e tempo che passa. On Federal Hill è un pezzo in bilico tra malinconia e osservazione, costruito su un’andatura contenuta e una melodia che preferisce la risonanza alla spettacolarità. C’è qualcosa di trattenuto nel modo in cui la canzone si muove, come se la città venisse guardata da lontano, da un punto sopraelevato ma emotivamente vulnerabile. Non è una cartolina nostalgica: è una riflessione su ciò che resta quando la familiarità si incrina, e anche i luoghi sembrano sfumare.

Tra i brani  più preferiti di chi scrive certo c’è Southern Hospitality, che si apre con un’introduzione esemplare per chi ama il power pop nella sua forma classica: riff secco, accordi pieni, armonie vocali pronte a sbocciare al primo ritornello. È uno di quei pezzi che sembrano costruiti con cura artigianale, e che non hanno bisogno di sovrastrutture per colpire: bastano i giusti quattro accordi e una melodia chiara. Eppure, anche qui, gli Splitsville non si accontentano della formula: il testo gioca con l’idea di accoglienza e apparenza, accennando con ironia al contrasto tra facciata e realtà — tra la cortesia del titolo e la complessità dei rapporti che evoca. Un brano che guarda dritto a Todd Rundgren e ai Raspberries, ma con la consapevolezza di chi è passato attraverso parecchi inverni.

Gray cambia completamente registro: tempo lento, atmosfera sospesa, arrangiamento che lascia spazio a ogni nota. È il brano più intimo, e quello che conferma come la band non sia rimasta ferma nel tempo. Penn Station, posta in chiusura, è invece una dichiarazione d’amore a una città che cade a pezzi e si ama comunque: “This city’s gonna fall apart / But I love it anyway”. È un’uscita struggente, che lascia l’ascoltatore in un punto preciso tra rimpianto e affetto.

Mobtown è un album che celebra la forma canzone come linguaggio pienamente moderno. Non è vintage, non è revival, non è aggiornamento. È un lavoro coerente, curato, suonato con misura, che dice molto senza mai gridare. Un disco che arriva tardi solo per chi ha fretta: gli altri lo capiranno subito. Specie quelli che dal lontano 2001, anno di pubblicazione del sommo capolavoro "The Complete Pet Souls", amano gli Splitsville e i fratelli Huseman.