C’è qualcosa di meditativo e necessario in Desire Lines, il disco che segna il pieno compimento della voce dei Blackbirds FC, band di Melbourne che da anni si muove con passo laterale nel territorio del pop chitarristico, evitando tanto la nostalgia quanto l’attualità patinata. Il titolo non è una metafora forzata: le “desire lines” sono quei sentieri tracciati inconsapevolmente dal passaggio umano nei prati, nei parchi, nelle città — percorsi che deviano dalla mappa ufficiale per seguire l’istinto. La musica del quintetto segue lo stesso principio: niente pose, niente scorciatoie, solo brani che si formano lentamente, come se esistessero già da tempo e la band si limitasse a scoprirli.
Jeremy Gronow guida tutto con una voce che non ha bisogno di alzarsi per farsi ascoltare, sostenuta da testi che parlano di distanze, affetti che sfumano, mappe emotive da ridisegnare. Le chitarre di Damian Sutton e Grant Shanahan si intrecciano con naturalezza: Sutton — noto per il suo lavoro nei suoni cinematici ed eleganti di The Sand Pebbles e nella raffinata malinconia dei The Earthmen — porta una sensibilità chitarristica precisa, atmosferica, capace di alternare fragilità e incanto. Shanahan, da parte sua, è una figura ben nota alla scena australiana, già con The Stems e coinvolto nella dimensione live dei Go-Betweens post-McLennan. La sezione ritmica, con Leigh Maden al basso e Michael Badger alla batteria, lascia spazio e respiro, conferendo all’intero disco un’aria di calma consapevole.
Il tono è quello della riflessione, ma non dell’immobilità. Il brano d’apertura, What’s The Half‑Life of Loving You?, sembra riflettere sull’erosione lenta di un amore, mettendo in musica la chimica della separazione con una leggerezza quasi ingannevole. Poco dopo, Lake Of Stars apre il paesaggio emotivo a una dimensione più ampia, evocando un altrove reale e immaginato, tra festival africani e malinconie universali. È uno dei pezzi più cinematografici del disco, e forse il più lirico.
C’è anche spazio per uno sguardo più interiore in Rings Around The Sun, scritta durante il primo lockdown, che suona come una meditazione sul tempo sospeso — voce, archi e organo Hammond si muovono con lentezza quasi rituale, come se ogni nota servisse a prendere fiato. Altrove, come in June Day, prevale un senso di grazia trattenuta: una giornata luminosa, ma senza l’inganno dell’estate piena, dove la melodia sembra voler restare un passo indietro per non forzare la mano all’emozione.
Ma è con Maps Will Be Burned che il disco pare esplicitare la sua poetica: lasciar bruciare le mappe per affidarsi a un percorso non tracciato, deviare con intenzione. Il brano ha un’energia più marcata, ma sempre sotto controllo, come una spinta sommessa verso la libertà.
Desire Lines non è un disco che cerca attenzione. È un disco che cerca affinità. Non alza mai la voce, ma ogni ascolto ne rafforza la presenza. È fatto per chi ama le deviazioni, le cose che non si impongono ma restano. Per chi ha imparato a riconoscere i sentieri quando spuntano sotto i piedi — senza preavviso, ma con una direzione precisa.