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mercoledì 17 aprile 2024

Ducks Ltd. "Harm's Way"


"Tutto quello che facciamo è desiderare, mangiare, scopare, dormire e ripetere il tutto per sempre". Questo il concetto espresso appena la puntina cala sul polivinilcloruro, per esporre preoccupazioni psicosociali che innerveranno l'intero percorso. Riflessioni su un mondo che sta andando a scatafascio, cinismo spinto, amici sofferenti osservati da lontano ma impossibili da aiutare e insomma, rispetto al frasario dell'ultimo Yum Yums qui siamo un pizzico più sul cupo. Tom McGreevy e Evan Lewis, da Toronto via UK e Australia, sono i Ducks Ltd. Apparsi sulla scena nel 2021 con l'EP "Get Bleak" e - soprattutto - con l'album d'esordio "Modern Fiction", i due tormentati autori cambiano decisamente passo con il nuovo "Harm's Way", pur mantenendo i piedi ben piantati nel confortevole cortile di casa.

Straziati da una società sulla via dello sgretolamento, McGreevy e Lewis non lasciano tuttavia che le idee nere dipingano di toni foschi i loro affreschi sonori, in verità contraddistinti da ariosi fraseggi chitarristici riferiti senza alcuna remora o volontà di celare alcunché al jangle imperversante nelle radio collegiali nella metà degli anni '80. 

Senza stupore l'ascoltatore riconoscerà già a partire dalla traccia d'esordio Hollowed Out le sagome dei primi Go-Betweens, ma volendo anche di gruppi alla Mighty Lemon Drops privati di un certo allure psichedelico. Le chitarre sono sempre al centro del palco, si rincorrono e sembrano acquietarsi per poi ricomparire sfolgoranti; le linee di basso ostentano complessione pingue e le batterie, ora suonate, ora elettroniche, dettano sapientemente i tempi di un album breve (9 brani, 27 minuti), ma particolarmente denso di idee e percezioni. 

 

Evan e Tom sanno a cosa guardano, ma negli anni ritengono, con una certa ragione, di essersi ben equipaggiati per affrontare con personalità i mari in tempesta. "Prima, arrangiando un bridge, ci chiedevamo cosa avrebbero fatto gli Orange Juice," hanno avuto modo di dichiarare. "Adesso ci chiediamo cosa dovremmo fare noi". Tutto giusto, ma gli anni passati a frequentare quel particolare corso di studi non si possono cancellare con un colpo di spugna, e neppure è un male. Così A Girl, Running e Train Full Of Gasoline paiono registrazioni su nastro dimenticate in un cassetto degli uffici della Sarah Records, o della Postcard. Cathedral City non cade troppo lontano, con il suo giro a sei corde reminiscente di Pristine Christine. The Main Thing e On Our Way To The Rave innestano ritornelli luminosi, freschi e vivaci su ritmiche piuttosto sostenute, e Deleted Scene richiama persino certi Cure non impegnati nei loro sermoni tenebrosi.

 

Heavy Bag, sapientemente collocata in chiusura di percorso, sussurra alla Belle & Sebastian, per salutare un disco elegante, centrato, fresco nonostante il background ultra-classicheggiante e luccicante pur nel discorrere di argomenti piuttosto tetri. L'operazione chiaro/scuro è riuscita, quando succede è magia. Gli aficionados che dai tempi delle medie tormentano i vicini con ripetute sessioni d'ascolto di "Reckoning" potrebbero aver trovato uno dei loro dischi dell'anno.


venerdì 12 aprile 2024

The Yum Yums "Poppin' Up Again"



Un nuovo disco degli Yum Yums è la finestra di casa aperta sulla primavera dopo lunghi mesi di buio e freddo inverno norvegese; le gonne delle coetanee che si accorciano e si liberano dalla copertura ingombrante del piumone stagionale. È il gol della tua squadra del cuore in contropiede dopo novanta minuti in apnea. È la pizza vuncia con il birrone dopo il wash out imposto dal medico curante. È quel connubio magistralmente miscelato di power pop, pop punk e bubblegum music di cui, a cadenza tri o quadriennale, abbiamo disperatamente bisogno, e lo sappiamo.

Morten Henriksen e colleghi di turno mettono di nuovo la testa fuori dal guscio come suggerito dal titolo, al solito corredato da doppio senso poppettistico, e sono quelli di sempre. Tutti sanno cosa aspettarsi da loro, e gli Yummies non deludono. Sempre dichiaratisi sudditi devoti di Ramones, Real Kids, Plimsouls e Devil Dogs, nell'autocertificazione gli ex ragazzi da Moss non hanno mai tralasciato di indicare tra le muse ispiratrici gli Sweet (per la quota glam) e gli Ohio Express (per quella bubblegum). "Poppin' Up Again" è dunque un tubetto di concentrato pop ad alto contenuto energetico, che in quattordici tracce e mezz'oretta di puro divertimento raggiunge lo scopo prefissato dalla ragione sociale della casa: farvi stare bene.

Ricordate i riferimenti musical-culturali appena elencati? Bene, li conoscevate già, non c'era bisogno, avete ragione. E allora, le danze sono aperte da Vitamin U con un riff che sembra preso a prestito da Fox On The Run, e sono portate avanti da Got Me Good, il cui giro di chitarra in qualche modo richiama quello di Get Over You. Porti sicuri, siamo a casa. Baby Oh Baby, Steal My Heart Away e Sweeter Than You sono accademici esempi di grande power pop moderno e pure abbastanza tirato, mentre la traccia che regala il titolo all'album non poteva non essere un manifesto del suono Yum Yums tra sei corde stoppate, voci-laser e melodie senza tempo.

Si fatica parecchio a trovare lacerti debolucci, da qualunque angolatura si guardi l'album: Whole Lotta Kissin', Dance! e Foxy trascinano tutti nella più prossima balera, Come Back è un supremo frammento bubblegum che sarebbe stato a pennello nella raccolta "Right To Chews" e la deliziosa accoppiata Baby Doll/Candy pare uscita dallo studio di un Phil Spector rasserenato e senza la passione per le armi.

I testi, come tradizione vuole, sembrano ispirati alla Smemoranda del liceo, perché tutti invecchiamo, ma il romanticismo adolescenziale è uno stato della mente perdurante. Le turbe, però, qui sono prese con leggerezza, come sempre. "Poppin' Up Again" è un altro grandissimo disco di musica pop frutto della mente e della penna di uno  tra i più costanti (e consistenti) autori rock'n'roll contemporanei; un bellissimo album in grado di reggere il difficile paragone con il predecessore "For Those About To Pop", che a mio personalissimo parere resta il capolavoro supremo della banda: se avete ascoltato quell'opera, le conseguenze non sono difficili da trarre.

martedì 9 aprile 2024

Jose's Bad Day "Hi! Let's Eat"


Tim Reece è noto ai più, ma assolutamente ignoto a me, nelle vesti di leader di una seguita band da Oceanside, California, chiamata 40 Proof. Joe's Bad Day è il suo disegno nascosto; un angolo di relax con una poltrona e un tavolino e una penna per scrivere canzoni indossando la vestaglia di casa, in totale libertà. Le suona con gli amici e la famiglia - il figlio siede dietro ai tamburi - e i risultati non sono niente male.

Sbucato dal nulla, "Hi! Let's Eat" è un disco sorprendente in cui Reece compone libero eppure centrato nonostante le molte divagazioni sul genere; un lavoro elevato da liriche non banali e non consuete, suonato bene e in grado di emanare bagliori abbacinanti quando pesca il filone aurifero gravido di melodie che sembrano uscite dal pieno 1980. Due perfetti esempi del riferimento storico sono rappresentati dall'apertura Just Good Friends, sgorgante senza apparente sforzo da una chitarra jangle alla Don Dixon, e soprattutto dalla superba Just Good Friends, che pare un pezzo tagliato all'ultimo da "Get Happy" di Elvis Costello.


Per manifeste capacità evidentemente consigliato di posare i propri sguardi sugli spartiti di un pop chitarristico d'ispirazione new wave, Reece mantiene comunque saldo il proprio gusto nell'amalgama dei più tipici prodotti casalinghi: così How Will You Know? e Where Were You? tra dubbi irrisolti e domande senza risposta hanno le stigmate di certa americana ultra-retro marchiata dagli insegnamenti classici di Calvin Russell e Jerry Douglas, e persino la spericolata coppia Put Down The Bottle (And Pick Up The Phone)/Don't Make Me Pull Over muove passi sicuri pur arrischiandosi sullo spesso scivoloso terreno di un blues screziato da accordi d'organo che conferisce alla materia tinte para-soul.

 

Un frammento particolarmente commendevole nella degustazione di "Hi! Let's Eat" è di sicuro Say Anything, brano in cui Reece torna a pescare dal variopinto macrocosmo new wave della fine degli anni settanta, e dove le azzardate ma corpulente invenzioni melodiche dei 10cc si installano su chitarre d'andazzo reggae di cui Graham Parker avrebbe potuto servirsi in una versione rivisitata di Protection. Semaforo verde anche per Not Much To Write Home About e Drink The Water, difficili prove di minimalismo sentimentale per pianoforte e violoncello, ulteriori dimostrazioni della poliedricità di un autore atteso nel prossimo futuro su queste pagine con altro materiale di pari livello.

giovedì 4 aprile 2024

Jordan Jones "And I, You" (ep)


Quattro anni e mezzo sono passati dall'omonimo, sontuoso album d'esordio di Jordan Jones, un disco che fece andare in brodo di giuggiole la critica di settore. Ma è bene si sappia subito che tutto è cambiato, nel frattempo. Di quell'opera, in questo extended play nuovo di zecca, rimane poco o nulla, se non la straordinaria capacità scrittoria dell'autore da L.A. Quella sì, è ancora ben percepibile. Non più chitarre ringhianti e melodie vocali pronto-uso, e nemmeno inni powerpop neoclassici a presa istantanea. Quello era un lavoro eccezionale, finito ai piani alti della nostra classifica sul meglio del 2019, ma il compito, a volte faticoso, di chiunque si cimenti nel lavoro culturale è di sminare il campo rincuorante ma insidioso della precettistica. 

"And I, You" è un breve percorso in sette tracce durante il quale le sei corde lasciano spazio a ricchi e rilassati arrangiamenti per piano e archi, funzionali all'edificazione di un pop orchestrale e intricato con lo sguardo più orientato a Burt Bacharach che a Doug Fieger. Apre le danze l'elegantissima e strumentale Envelope Of Skin, ma la scena se la prende subito dopo il piano pop davvero entusiasmante di Listen. L'accoppiata Promise You/Forever-Adore You in qualche modo si ispira, non sappiamo se consapevolmente o meno, al soft rock ingiustamente dimenticato negli scatoloni da grande magazzino dedicati all' AOR americano degli anni settanta, con risultati che ripagano del notevole rischio, dobbiamo dire: i lussuosi arrangiamenti classicheggianti, ovviamente abbinati alle ispirate e sagaci linee vocali di Jones, non ci consentono di esimerci dal citare il ricordo di Steely Dan e Hall & Oates.

Can I Stay? alza leggermente i battiti del dischetto, ma è la sinfonia Love Song Of J - a detta dello stesso autore uno dei pezzi meglio riusciti della sua carriera - a stupire con la sua semplice eppure (o proprio per questo) indimenticabile linea melodica colta dai campi ubertosi di un paradigmatico pop per pianoforte e violini. Perché tutti abbiamo bisogno di certezze, e ci mancherebbe pure, ma la dispensa del comfort food è sempre ben fornita, e una divagazione inaspettata rappresenta un bonus che certo non guasta e aiuta a ricordare che gli orizzonti della musica pop sono vastissimi.

 

martedì 2 aprile 2024

Brent Seavers "Exhibit B"

 


Più di cinque lustri di pausa, dal 2001 al 2018, poi a Brent Seavers è tornata la voglia. Il capobanda dei clamorosi Decibels da Sacramento negli ultimi sei anni ha firmato cinque dischi; tre con il gruppo d'origine e altri due in solitaria. Dopo l'eccellente "BS Stands For", quinto nella classifica riguardante i nostri album preferiti del 2021, Brent è uscito dallo studio con un nuovo lavoro privato nuovo di zecca, che senza eccessiva sorpresa segnaliamo tra i migliori dischi usciti in questi primi quattro mesi della nuova stagione musicale.

L'autore che ormai quasi venticinque anni fa scrisse il leggendario capolavoro "The Big Sound Of The Decibels", sicuramente uno dei migliori album di genere pubblicati nel nuovo millennio, è un uomo abituato a darci tutte le sicurezze di cui abbiamo bisogno, ed "Exhibit B" è un' altra straordinaria opera in cui le istanze  power pop, mod, garage e rock'n'roll di chiara ispirazione sixties sono miscelate alla perfezione per creare canzoni destinate a essere memorizzate al primo ascolto.


La frizzantissima Roller Coaster Ride apre le danze con una sorta di doo wop accelerato dalle linee melodiche debitrici dei Monkees, che fa il paio con l' ugualmente energizzata No Perfect Way, perfetto esempio di quel sixties core che i Decibels si pregiano di aver portato negli anni su vette altissime e a tratti inesplorate. The Universe and I decora il miglior power pop della casa con intelligentissime linee di synth, mentre Till It's Over, nei suoi richiami beatlesiani, potrebbe essere scambiata per un pezzo prezioso del patrimonio Sloan per l'acribia messa negli arrangiamenti.


Certamente intonate al contesto, Push Me Down e Stumbling prendono la strada laterale di un garage per farfisa ottimamente congegnato - e sappiamo quanto sia difficile non risultare scontati in quell'ambito - laddove Lullaby è uno splendido lento soul dalle melodie cristalline. Il citaredo dalla California settentrionale brilla nel suo essere autore genialoide nella filastrocca The Noble Cause, intarsiata con graziosi strass di pianoforte, e dimostra la sua versatilità aggiungendo un po' di fuzz nella psichedelica Fuzz Off (per l'appunto), non dissimile da certe scritture dei grandi Telepathic Butterflies.


Brent Seavers, il quale ha ritenuto a ragione di concludere il percorso con la riproposizione del classico dei Decibels Raining In My Head, è un autore affidabile, nel senso più nobile dell'aggettivo: sai perfettamente ciò che troverai nel piatto, ed è esattamente quello di cui hai bisogno. "Exhibit B" è un lavoro che peraltro non teme di risultare scontato: Brent la materia la conosce bene, e la sa trattare come merita di essere trattata.

domenica 31 marzo 2024

Marc Valentine "Basement Sparks"



Marc Valentine ha l'aspetto un po' così, un po' Stiv Bators, e già questo è di buon auspicio. Non solo l'aspetto, peraltro, se ascoltiamo attentamente Strange Weather, traccia numero sette del nuovissimo "Basement Sparks": magari sognando, probabilmente idealizzando ma infine, ecco, non discostandoci troppo dalla realtà, la timbrica vocale in qualche modo rassomiglia quella dell'eroe nell'epoca "LA LA".

Scritturato dalla Wicked Cool di un Little Steven evidentemente folgorato dal predecessore "Future Obscure", Marc Valentine è uno degli autori più consistenti della scena, ammesso ne esista ancora una. "Basement Sparks" è il frutto di un artista di Norwich, ma il disco, figlio del combinato disposto tra riff di chitarre spesso intensi e voci zuccherose post-teenegeriali ha i connotati di un prodotto palesemente americano, sebbene non manchino contaminazioni est-atlantiche perlopiù riferibili a certo UK glam anni '70. Per dirla in altri termini, la sensazione è quella di un combo inglese che abbia metabolizzato le sacre dispense Poptopia e Yellow Pills: un esempio in tal senso sembra ben reso dall'apertura affidata a Complicated Sometimes, la quale pare un estratto di "Moustache", il disco d'esordio dei leggendari Farrah.

Skeleton Key e Strange Weather hanno i cori contagiosi che si sprigionano con inaspettate melodie dai riff corpulenti dei Marvelosus 3, e nel frattempo You Are One Of Us offre gli ormai (nostro malgrado) desueti stoppati nella strofa che spesso costituirono simbolo araldico del grande Paul Collins. Le divagazioni sulla trama base non mancano: così Ballad Of Watt e 3AM Anderson Drive sono ballate intriganti dal retrogusto anche un po' britpop, Tyrannical Wrecks incorpora un pizzico di sporcizia garage e Repeat Offender, nettamente debitrice di certa new wave dal Regno Unito, spariglia  le carte con prelibati stacchi para-reggae dal sapore Police.

I Wanna Be Alone riporta alla memoria certo pop USA che, nolente, è rimasto stipato negli scaffali dei grandi magazzini sotto il cartellone dell'alternative a metà prezzo ma avrebbe voluto (e potuto) essere radiofonico, e a un primo ascolto ricorderà agli appassionati le migliori opere di Copperpot, Rocket Summer e Jack's Mannequin, mentre le melodie irresistibili di Eve Of Distraction (titolo ingegnoso se ce n'è uno), foraggiate da tastierine apparentemente prese in prestito da "Panorama" dei Cars, chiariscono definendoli i tratti somatici di un disco che ogni appassionato di power pop anni '90 - pur sempre l'epoca storica in cui sembrava che qualcuno dei nostri ce l'avrebbe fatta - dovrebbe mettersi in casa, esultando di fronte a una speranza di un mondo migliore destinata a non morire mai.


domenica 17 marzo 2024

On The Runway "Tell Yourself It's Pretty"


David Norris è stato il motore principale di un gruppo power pop chiamato Crash Into June, attivo tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, e non dovesse sovvenirvi istantaneamente la citazione suggeriamo un urgente ripasso dei classici. Francamente ignorando come Norris abbia impiegato il proprio tempo negli ultimi vent'anni, festeggiamo l'agnizione manifestatasi sottoforma di una nuova band. On The Runway, da Memphis, Tennessee, provocheranno un sorriso nostalgico e compiaciuto in chi, molti anni fa, si è formato ascoltando di straforo le primissime college radio americane. "Tell Yourself It's Pretty", per l'appunto, è un disco giocato sulle diverse consistenze del jangle rock che negli anni '80, specie grazie a quattro ragazzotti di Athens, Georgia, è sembrato per un istante poter fare la voce grossa nelle classifiche. E allora, gli appassionati sanno dove stiamo andando a parare. 

La vena aurifera della musica indipendente diffusa dalle radio indipendenti nel sud degli Stati Uniti non restituiva nulla di scontato, da qualsiasi punto si osservassero le molte sfaccettature di un genere troppo spesso considerato dagli osservatori generalisti una mera e continua riproposizione degli stessi quattro arpeggi. Sono passati anni, ma gli eredi di quella storia ancora operano nella penombra, per ricordare ai più giovani che lo studio di Windbreakers, Church, Db's e Miracle Legion (non parlavamo forse di diverse sfaccettature degli 80's devoti alle chitarre?) non si traduce mai in tempo perso. In questo senso, "Tell Yourself It's Pretty" si offre come utilissimo Bignami, peraltro messo insieme da un tizio che le canzoni le sa scrivere molto bene, ché poi è il fattore decisivo per nobilitare non solo il jangle rock, ma qualsiasi forma d'arte preveda l'utilizzo di una penna.

 

Loser Of The Year e Bring Yourself Down, opportunamente poste in apertura e chiusura dell'album, suonano come coerenti manifesti di quanto scritto finora; due canzoni inzuppate di jangle sudista che avrebbero fatto una figura eccellente nella programmazione delle emittenti universitarie USA dell'epoca. Consolation Prize e This Will Be Your Year giocano su un doppio livello: un riff memore della potenza cristallina - che già di per sé è un ossimoro ma neanche troppo - dei Gin Blossoms a prendere il centro della scena, mentre a reggere la struttura dolci cascate di fragili arpeggi jangle si intrecciano nel sottofondo. Stuck On You, che trascinata da una melodia memorabile è forse il brano più vicino ai Crash Into June di "Another Vivid Scene", a tratti ricorda la grazia scintillante dei Church, mentre Lifeline, riff da circoletto rosso, spolvera il ricordo dei Teenage Fanclub del secondo periodo, quello di "Howdy!", per farci capire. 

 

I Teenage Fanclub, spesso citati a sproposito quando ci si riferisce a un certo sottogenere di pop chitarristico, sono invece un esempio perfetto per inquadrare la meravigliosa This Charade, melanconica e con gli occhi umidi, che sarebbe potuta stare su "Man-Made", così come i primi R.E.M. non possono non essere tirati in ballo parlando di House is Not a Home, altra perla di un disco che sarà  vera e propria manna per chi dal jingle jangle diffuso nel sud-est degli Stati Uniti quarantacinque anni fa è stato (e rimasto) irrimediabilmente segnato.